L’amica delle mogli – Atto secondo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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L amica delle mogli - Atto II
Carlo Giuffrè, Rossella Falk, L’amica delle mogli, 1968. Immagine dal Web.

1927
L’amica delle mogli
Atto Secondo

        Salottino e studiolo intimo al secondo piano della villa, accanto alla camera da letto di Fausto. In fondo, un arco con un grosso bastone su cui scorrono gli anelli d’una pesante tenda di velluto verde. La tenda è aperta e lascia scorgere appena i piedi del letto nella camera accanto, e, nella parete dì fondo di questa, un uscio guarnito anch’esso di tenda che immette nella ca­mera da letto di Elena. Uscio comune a sinistra. Infondo, a sinistra dell’arco, un tavolinetto con qualche ninnolo. A destra, un divano, poltrone, un tavolinetto da tè. A sinistra, una scrivania e due eleganti scaffalini da libri. È il pomeriggio inoltrato.

        Al levarsi della tela sono in iscena Elena e Venzi. Elena indossa un abito da passeggio e ha il cappello in capo. È patitissima. Visibile lo sforzo di tenersi su, segnatamente negli occhi che, pur essendo smarriti, pajono adirati.

        ELENA: Ma che Marta! Le dico di no.

        VENZI: Non è stata lei? – Allora, suo marito?

        ELENA: Nemmeno. (Sorride.) Se me l’avesse consigliato lui, forse ci sarei ri­masta.

        VENZI: Dunque è stata proprio lei a volerne uscire?

        ELENA: Io, io! – Avrò fatto male –

        VENZI: – ha fatto malissimo –

        ELENA: – lo so! – Ma d’altra parte, se non mi ci potevo più vedere? – Tutto sta, ora, se veramente, con questo male, io non mi trovo a un caso di morte.

        VENZI (scattando): Ma che caso di morte! Non lo dica nemmeno! Non può es­sere!

        ELENA: Se è, caro avvocato, non potrà impedirlo né lei, né nessuno.

        VENZI: Ma i medici che l’escludono!

        ELENA: Sì: prima dell’operazione. Ma ora? Assicuravano che, liberandomi, sarei guarita: non sono guarita –

        VENZI: – Ma guarirà sicuramente! Curandosi, però. Non doveva lasciar la cli­nica!

        ELENA: Mi ci sentivo, ah Dio, soffocare, soffocare.

        VENZI: Era assistita –

        ELENA: – da Marta, mattina e sera: è rimasta con me anche più d’una notte! –

        VENZI: – anche di notte? –

        ELENA: – e pure Anna veniva –

        VENZI: – vede dunque che la compagnia non le mancava –

        ELENA: – grazie! chiusa lì, soffocata, e soffocando tutte con me! – Scusi, se gli stessi medici, del resto, pure opponendosi, alla fine si sono arresi e han la­sciato che uscissi, che significa? –

        VENZI: – che ritengono che lei, avendosi quei riguardi che certo nella clinica avrebbe potuto aver meglio, guarirà: guarirà senza dubbio!

        ELENA: E allora, se è così…

        VENZI: Ma bisogna che i riguardi se li abbia!

        ELENA: E non me li ho?

        VENZI: Va fuori, quando dovrebbe stare in casa, riposata, il più possibile a letto!

        ELENA: Ah no! Sono stanca, stanca di stare a letto! Basta! – Ma sa che ancora non ho potuto veder nulla di Roma?

        VENZI: Avrà tanto tempo di vederla, Roma.

        ELENA: Aspetto Marta, per certe compere da fare.

        VENZI (con scatto d’ira): Ma gliele propongono loro codeste compere?

        ELENA: Loro, chi?

        VENZI: Quelli che le stanno più vicini –

        ELENA: – Marta, mio marito? –

        VENZI: -… anche Anna –

        ELENA (notando l’attenuazione di quest’aggiunta): – ah!

        VENZI: – non dovrebbero! non dovrebbero!

        ELENA (dopo un silenzio): Ma le preme dunque tanto davvero, ch’io guarisca?

        VENZI: Tanto, sì! Quanto lei certo non s’immagina!

        ELENA: Strano! A giudicare da come lo dice, sembra che non le prema soltanto per me.

        VENZI: Oh, per lei, per lei sopra tutto!

        ELENA: E per chi altro?

        VENZI: «Per chi» daccapo! Per tutti coloro che le vogliono bene –

        ELENA (accoppiando di nuovo i due nomi con intenzione): – Fausto, Marta?

        VENZI (di nuovo, per attenuare): – … anche Anna –

        ELENA (scoppiando a ridere): – anche Anna! E perché non si mette nel numero anche lei? –

        VENZI: – anche io, anche io! Non rida!

        ELENA (seguitando a ridere): Ho avuto paura… ho avuto paura che mi dovesse dire che le premeva soltanto per sé…

        VENZI (con cupa violenza): E se fosse proprio così?

        ELENA (troncando il riso e restando): Per sé? Ma che dice!

        VENZI (con tremenda esasperazione): Perché guaj a me, guaj a tutti, se lei ora qua, Dio non voglia, venisse a mancare!

        ELENA: Lei mi stordisce, avvocato! Che cos’è?

        VENZI: Ma come non capisce? come non vede?

        ELENA (balzando, concitatissima): Io capisco – sa che cosa? e lo vedo da otto giorni, dacché sono uscita dalla clinica – una cosa che mi fa ribrezzo, orrore –

        VENZI: – ah, dunque se n’è accorta? –

        ELENA: – sì – e lei se ne dovrebbe, non solo vergognare, ma fare un rimorso –

        VENZI: – io? –

        ELENA: – sì – un grande, grande rimorso – nello stato in cui mi trovo – tanto più ch’è un’infamia –

        VENZI: – ah, un’infamia? –

        ELENA: – che lei voglia farmi sospettare di mio marito e di Marta; sì!

        VENZI: Non sospettare! no! Accorgersi! Accorgersi!

        ELENA: Di che dovrei accorgermi?

        VENZI: No: forse di nulla, ancora! Ma riconoscere –

        ELENA (subito): – che la casa qua è pronta – appena io non ci sarò più – per loro due? –

        VENZI: – ecco, già, questo: pronta –

        ELENA: – come Marta se l’è messa su, di suo gusto, non è vero, senza sapere nulla di me? –

        VENZI: – e come lui gliela lasciò mettere su, non volendo dir nulla, contento d’avere una casa come lei gliel’avrebbe fatta trovare. – Non è così? non è così?

        ELENA: Ma me la fa pensare lei, lei, questa cosa infame, da otto giorni!

        VENZI: Perché la riconosce giusta!

        ELENA: No! infame! infame!

        VENZI: Ma che infame!

        ELENA: Infame per Fausto e per Marta!

        VENZI: Giusta per tutt’e due!

        ELENA: Non è vero! L’ha pensata lei; loro no!

        VENZI: Ne può essere più che sicura!

        ELENA: No, lei! lei! e l’ha fatta pensare anche a me!

        VENZI: L’uno e l’altra!

        ELENA: No! Sono stata attenta, ho osservato, spiato, pesato ogni loro parola; sono alieni, alieni –

        VENZI: – alieni sì –

        ELENA: – sì, dal pensare e finanche dal supporre che altri possa pensare di loro una tal cosa! –

        VENZI: – ma lei la pensa! –

        ELENA: – perché me l’ha messo lei nella testa! –

        VENZI: – no, no: perché la vede possibile, perché la vede possibile! Io la vedo certa!

        ELENA: E questa è la crudeltà sua –

        VENZI: – mia? –

        ELENA: – sì, sì, sua – vera crudeltà, feroce, verso di me – far vedere anche a me, come possibile, che una tal cosa avvenga –

        VENZI: – perché quasi è – è –

        ELENA (gridando): – ma senza che loro ne sappiano nulla! –

        VENZI: – come vuole che non lo sappiano? –

        ELENA: – nulla! nulla! – non c’è da far loro colpa di nulla! –

        VENZI: – ah no? –

        ELENA: – nulla, di cui possano, poi, avere rimorso!

        VENZI: – innocenti? –

        ELENA: – lo deve aver lei, lei invece, il rimorso per me! – (Staccando:) Non porta armi? –

        VENZI: – io, armi? –

        ELENA: – se m’avesse tirato con un’arma… Ma sa che io ora, condannata come mi sento, non resisto più a pensare questa cosa? e posso da un momento all’altro… – Fausto ha là, nel cassetto della scrivania, una rivoltella –

        VENZI: – ah, la levo subito! – (Eseguisce.)

        ELENA: La levi, sì, la levi! – Grazie. – Ne ho avuto la tentazione, jeri.

        VENZI: Non lo dica nemmeno per ischerzo!

        ELENA: Oh, c’è mancato poco!

        VENZI: Ma è pazza? Se lo levi dalla testa! Vuol darla vinta a loro? Non cer­cano di meglio!

        ELENA: Ma è per me! Perché – io – non posso più vivere, ora, con questo pen­siero che mi dilania! Non è per loro, che – ne sono sicura – non ne hanno il minimo sospetto! – Sarà possibile – per lei, certo – ma se domani avviene –

        VENZI: – ah, non avverrà! –

        ELENA: Ma il tormento per me è che io lo possa pensare! E senza potermene nemmeno adontare! Perché non avrebbero nessuna colpa, loro, nessuna! nes­sun rimorso di coscienza! La vita che resta per loro, quando io non ci sarei più. Il loro diritto. Posso ribellarmi! – Io non dormo più! Sento il letto, nel­l’insonnia, suo, come lei lo sentirà, quando sarà là, al mio posto, col suo corpo, là, invece del mio! col mio diritto su le cose mie, su mio marito –

        VENZI: – no! no! questo non avverrà, non avverrà, glielo dico io!

        ELENA: Ma capisce che lei m’ha avvelenato, ora, anche tutte le cure, tutte le premure, le attenzioni che hanno per me? Io debbo ora, ogni volta, sforzarmi di nascondere il ribrezzo che ne provo – ingiusto, ingiusto, ma irrefrenabile – se penso che con esse acquistano sempre più il diritto di godere dopo, cofne di un compenso che né la vita né la coscienza potranno loro negare. Con mani innocenti tutt’e due m’accompagnano, amorosi e addolorati, fino alla soglia della morte: «Povera Elena, che vuoi? abbiamo fatto di tutto; ma la vita non ti ha voluta; e ora..». Questo è martirio: e me l’ha dato lei! – lei! – Perché? – Una ragione ci dev’essere! – che le ho fatto io?

        VENZI (guardandola con occhi atroci): C’è! c’è! non lo sente che c’è?

        ELENA: Ah Dio! – lei… – Marta? Si sente la voce di Marta che chiama lieta, avvicinandosi.

        LA VOCE DI MARTA: Elena! Elena!

        ELENA (sentendosi mancare, come soffocata): Oh Dio… oh Dio… E mentre Venzi si precipita a sorreggerla, entra dall’uscio in fondo Marta, seguita da Anna e da Fausto.

        MARTA: Elena… (subito, restando) Che cos’è? Elena!

        ANNA: Si sente male?

        FAUSTO: Elena! Ele.na!

        VENZI: Tutt’a un tratto, sentendosi chiamare…

        MARTA: Di là, di là, a letto! (A Fausto:) La sorregga! Piano, Anna! A letto! (A Venzi.) Apra quest’uscio! (Accenna l’uscio in fondo.) Portiamola di là! Piano!

        ANNA: Dio com’è fredda!

        MARTA: Niente! Le daremo subito le gocce! Attenzione! Via per l’uscio in fondo, con Fausto e Anna, sorreggendo Elena. Resta per un momento, solo e fosco, in iscena Francesco Venzi. Si sentono, sempre più lontane, le voci degli altri.

        FAUSTO (sopravvenendo agitato e dirigendosi all’apparecchio telefonico sulla scrivania): Chiamo il medico!

        VENZI: Non si ria?

        FAUSTO: È il solito attacco cardiaco! (Rispondendo al telefono:) Pronto. C’è il dottore? (Poco dopo, con atto d’impazienza:) Non si trova mai, Dio mio! (Di nuovo parlando al telefono:) Per favore, gli dica, signora, appena arriva, che corra subito da me. Sì. Mi raccomando. A rivederla. (Posa il ricevitore.)

        ANNA (accorrendo lieta): Lasci, lasci, Viani: s’è riavuta! sta meglio! sono ba­state poche gocce.

        FAUSTO: Ah, meno male! parla?

        ANNA: Sì: con Marta. Ha finanche sorriso!

        FAUSTO: Vengo a vedere.

        ANNA: No, stia qua. Ora Marta la sta mettendo a letto. Verrà poi. (Via per l’u­scio da cui era entrata.)

        FAUSTO: Ma è stato proprio così all’improvviso, mentre parlava con te?

        VENZI: Sì: ha sentito la signorina Marta che la chiamava, e –

        FAUSTO: – dovevano uscire insieme –

        VENZI: – il suono della voce… – Tu fai male, caro mio –

        FAUSTO: – a farla uscire? –

        VENZI: – anche! – male dico, per questa compagnia –

        FAUSTO (stupito): – della signorina Marta?

        VENZI: Non è mica una cieca né una stupida tua moglie!

        FAUSTO: Ma che dici? (Con forte apprensione:) T’ha parlato lei, di questo?

        VENZI: No no: tutt’altro. Anzi, della signorina, tanto bene.

        FAUSTO: Ah! E allora?

        VENZI (subito, quasi di scatto): Lo vedi? Ti sei sentito sollevare –

        FAUSTO (stordito): – io? di che? –

        VENZI: – hai fatto: «ah!», subito, appena t’ho rassicurato che non me l’aveva detto lei!

        FAUSTO: – sfido! – perché sarebbe indegno, enorme –

        VENZI: – uh! «indegno», «enorme» – non gonfiare la cosa!

        FAUSTO: Ma tu supponi davvero?

        VENZI: Non suppongo: sono certo che – se vuoi che tua moglie guarisca – bi­sogna che tu allontani la signorina Tolosani dalla tua casa.

        FAUSTO: Dimmi la verità, Venzi, in nome di Dio! Non è il caso di nascon­dermi nulla!

        VENZI: Mi pare che più chiaro di come ti sto parlando, non potrei parlarti.

        FAUSTO: Ma mi parli a nome di Elena?

        VENZI: Ma no! Non me n’ha dato mica l’incarico –

        FAUSTO: – ma t’ha confidato? –

        VENZI: – no, niente… anzi… –

        FAUSTO: – allora è una supposizione tua?

        VENZI: Quando si soffre di cuore, te lo insegnano perfino i medici, la sensibi­lità…

        FAUSTO (risoluto, troncando): Tu devi aver promesso a Elena di tacermi qual­cosa che lei t’ha confessato!

        VENZI: Ma non ho promesso nulla! –

        FAUSTO: – Sì, Sì – deve averti detto qualche cosa che non vuole che si sappia per un riguardo ch’io non posso né debbo ammettere, dato il suo male. È ge­losa della signorina Marta?

        VENZI: No, t’ho detto! – No! – La più grande stima, anzi! E anche di te! Nes­suna confessione da parte sua. Nessuna promessa da parte mia. Tant’è vero che t’ho consigliato – io – io – (consiglio che parte da me) – se vuoi che tua moglie guarisca –

        FAUSTO: – d’allontanare dalla mia casa –

        VENZI: – quell’altra! –

        FAUSTO: – perché credi che Elena ne soffra? –

        VENZI: – atrocemente –

        FAUSTO: – ma non l’ha mai dato a vedere! –

        VENZI: – avrà dato a vedere anzi il contrario! –

        FAUSTO: – il contrario, appunto! –

        VENZI: – ma ne soffre! ne soffre! –

        FAUSTO: – te l’ha detto? –

        VENZI: – no: ma è così! –

        FAUSTO: – perché lo supponi tu? –

        VENZI: – perché l’ho capito benissimo! E avresti dovuto da un pezzo capirlo anche tu!

        FAUSTO: Ma come! se la cerca lei stessa, la vuole, non ha bene, non ha requie se non l’ha con sé, se non se la sente vicina e non la sente parlare, perché lei sola sa trovare i modi di rasserenarla, di rassicurarla…

        VENZI (diabolico): Lo vedi? lo vedi come ti si fa dolce la voce?

        FAUSTO (guardandolo, quasi imbalordito): Ma che dici? Dici a me?

        VENZI: Ma sì, a te – ti sto vedendo! – E vuoi che tua moglie non veda? non se ne accorga?

        FAUSTO: Ma tu sei pazzo! Che vedi?

        VENZI: Quello che neppure tu, forse, sospetti ancora in te!

        FAUSTO: No! no! sei pazzo?

        VENZI: Pazzo? Cieco tu, che non vedi!

        FAUSTO: Che vuoi che veda?

        VENZI: Come ti bei, come ti bei parlando dei modi che lei sola sa trovare per rasserenarti e rassicurarti la moglie! – Ma è questo! è questo! – Tu non hai scoperto ancora l’insidia!

        FAUSTO (come tra sé, stordito più che mai ma già compreso): L’insidia?

        VENZI (seguitando con foga di mano in mano più esasperata): Le abbiamo portato le nostre mogli, felici di com’ella ce le ha accolte: e prima, anche di tutto quello che aveva fatto per noi, della casa che ci aveva preparato, di tutte le cure che s’era date: per pura amicizia, per gentilezza d’animo – chi ha mai potuto dubitarne? – Tu hai provato orrore al pensiero che tua moglie potesse esserne gelosa! Com’essere gelosa di lei che è l’amica, l’amica vera delle nostre mogli; che ce le aggiusta, ce le guida, ce le ammaestra, ce le ri­duce buone e mansuete accanto? Ma non capisci che ce la fa lei la nostra vita? ce la compone lei? Le nostre mogli non possono più farne a meno; sono nelle sue mani, felici di starci; la seguono, come affascinate; non sanno più né parlare, né vestirsi, né muoversi senza di lei; e ne sono gelose, sì, ma tra di loro, appena temono che ella voglia bene più all’una che all’altra. E guaj a toccargliela! E la cosa più buffa e più spaventosa è questa: che te lo fanno vedere, te lo fanno vedere loro stesse che valgono tutte meno di lei ! di lei che tu – non sai più come, ora che te la vedi così presente sempre nella tua vita, anche quando non c’è, presente e imprescindibile – tu prima – non sai più come – eri a tempo; potevi prendertela; e la lasciasti là; per prenderti invece questa che sei venuto a metterle accanto e che ti dice lei stessa quanto valga di meno, come più la conosci, come più te ne stanchi; mentre quella ti resta lì davanti, intatta, intangibile, che tu puoi soltanto adorare, adorare come una santa – stizzito, urtato che con te l’adori anche tua moglie, d’una maniera che ti dà una smania feroce, che ti si mette qua allo stomaco e ti provoca a far cose da pazzo – guarda, guarda: te ne faccio subito la prova! (Salta all’uscio infondo, di là dall’arco, e chiama:) Anna! Anna!

        FAUSTO (cercando di trattenerlo): Ma no! lascia!

        VENZI: Aspetta! – Anna, vieni qua!

        FAUSTO: Ma che prova vuoi farmi?

        VENZI: Stai a vedere! – Anna! Anna entra dall’uscio infondo.

        ANNA: Che vuoi? Con la tua vociacela l’hai fatta saltare!

        FAUSTO: Si assopiva?

        ANNA: Stava per assopirsi!

        VENZI: E non c’è Marta accanto?

        ANNA: Non se ne stacca un momento!

        VENZI: E dunque! S’assopirà subito di nuovo, non temere! – (Ad Anna, diabo­lico:) Come le fa? come le fa? come le dice?

        ANNA: Io non so; ha la voce e le mani fatate…

        VENZI (a Fausto): Ecco: la senti?

        FAUSTO (urtato): Ma potresti capire che non è il caso!

        ANNA (stordita): Perché? Non capisco…

        VENZI: No, no, aspetta! – Di’ un po’, Anna! Ma che stupidi, che imbecilli siamo stati noi, tutti quanti, ad aver conosciuto prima la signorina Marta, es­serle stati accanto, accolti in casa; ed essere poi andati a sposare un’altra? Di’, di’, non è vero? Tu, se fossi stata uomo, non avresti sposato lei?

        ANNA: Lei, lei, sì: te l’ho già detto cento volte e te lo ripeto; sicurissima che meglio di lei non avrei potuto trovarne!

        VENZI (a Fausto): La senti? la senti? Ma già lo disse, di te; e non lei sola; anche tutte le altre, lo dissero: la moglie di Berri, la moglie di Mordini: prima che tu arrivassi –

        ANNA (ribellandosi): – ma no! che c’entra più adesso?

        VENZI: – sì, sì – ch’eri stato uno stupido a non sposarla; ma anche io, uno stu­pido, è vero? anche Berri, anche Mordini!

        FAUSTO: Finiscila, perdio! non mi pare il momento, con lei di là. –

        VENZI: – lei, chi?

        FAUSTO: – mia moglie che sta male e può sentire!

        VENZI: – ah! credevo lei… – Basta! basta! – (Rivolgendosi alla moglie:) Perché non te li sei tagliati i capelli?

        ANNA (di nuovo stordita): I capelli?

        VENZI: Sì! T’avevo detto di tagliarteli! Perché non te li sei tagliati?

        ANNA: Perché non me li son voluti tagliare!

        VENZI: Non è vero!

        ANNA: Non me li son voluti tagliare!

        VENZI: Tu te li saresti tagliati! Te l’ha sconsigliato lei, la signorina Marta?

        ANNA: E se fosse? M’ha convinta che mi sarebbero stati male!

        VENZI: Ma tu devi piacere a me, non a lei!

        ANNA: E difatti mi disse appunto così: Tu devi piacere a tuo marito!

        VENZI (a Fausto): Senti? senti? (Alla moglie:) E perché allora non te li sei ta­gliati?

        ANNA: Perché ho capito che me l’avevi detto apposta, per riderti di me!

        VENZI: E Marta?

        ANNA: Anche lei l’ha capito; e allora m’ha consigliato di non farlo! – Ma via, sto a dar retta a te! Lasciami andare! (Via, di furia, per l’uscio infondo.)

        VENZI (dopo aver riso, all’uscita della moglie, orribilmente): Hai capito? hai capito? Liberati di lei! Liberati, se sei ancora a tempo! Rientra subito Anna, facendo segno con le labbra e col dito di tacere.

        ANNA: S’è assopita! s’è assopita! Rientra Marta senza cappello.

        MARTA: Ho dovuto penar tanto a ritirare la mano senza svegliarla… – Ha detto che verrà, il medico?

        FAUSTO: Sì. Ma ho potuto soltanto dargli l’avviso a casa. Non c’era, al solito!

        MARTA: Sarebbe bene che lei andasse a cercarlo.

        FAUSTO: Perché? Ha notato qualche cosa?

        MARTA: No. Ora è tranquilla. Ma mi dà pensiero una certa contrazione che dice di avvertire qua, alla bocca dello stomaco.

        VENZI (quasi tra sé, scandendo le sillabe): Irradiazione cardiaca. Preludio di sincope.

        FAUSTO (di scatto): Che diavolo dici?

        VENZI: Medicina legale.

        FAUSTO: Un segno grave, dunque?

        MARTA: Ma già scomparso, già scomparso! Non si agiti, adesso! E per questa notte. Sarebbe bene, per prudenza, chiamare un’infermiera. Non so se mi sarà possibile rimanere.

        FAUSTO: Sì sì. Ma dove trovarlo ora questo medico, se è in giro per le visite?

        MARTA: Provi a passare dalla clinica.

        FAUSTO: Sì; anche per l’infermiera.

        MARTA: E tu, Anna, fammi il piacere di passare da casa mia ad avvertire la mamma che mi trattengo qua fino a tardi.

        ANNA: Sì sì, vado.

        MARTA: Dirai che non posso lasciarla.

        FAUSTO: Grazie, signorina, di tutto quello che fa…

        MARTA: Ma non dica, per carità! (Ad Anna:) Può chiamare da un momento all’altro.

        FAUSTO: Andiamo, andiamo, signora Anna!

        ANNA (a Marta): A rivederci. (Al marito:) Poi vado a casa.

        FAUSTO (a Venzi): A rivederci. Via con Anna, per l’uscio di sinistra. Marta si muove per ritornare da Elena.

        VENZI: Aspetti.

        MARTA: Temo che si svegli.

        VENZI: Si direbbe che ha paura di restare un momento sola con me.

        MARTA: Ma non secchi! Ho da badare a ben altro che a lei, in questo mo­mento.

        VENZI: S’inganna, sa! – Bada a tutti, e soltanto a me, no? – Ho da dirle qual­che cosa –

        MARTA: – che riguarda lei? –

        VENZI: – me – ma non per me stesso – per coloro, anzi, a cui lei in questo momento vuol badare.

        MARTA: Elena?

        VENZI: Elena – e Fausto.

        MARTA: Che cosa?

        VENZI: Il discorso che ho fatto oggi stesso, all’una e all’altro, contro di lei.

        MARTA (dopo averlo guardato): E crede che possa importarmi?

        VENZI: Sì sì: moltissimo. Per quello che n’è venuto fuori.

        MARTA: Contro di me?

        VENZI: Sul male che lei fa.

        MARTA: Io?

        VENZI: Sa che si può fare, anche senza volerlo.

        MARTA: Ah, certo!

        VENZI: Io non so fino a qual punto lei non lo voglia. So, che è molto grave –

        MARTA: – questo male che io farei? –

        VENZI: – questo male che lei fa. Sì. Molto grave.

        MARTA: Bisognerebbe che lo sapessi per riconoscerlo, se è vero.

        VENZI: Ah, per essere vero, stia sicura ch’è vero.

        MARTA: Lo riconosce altri, qua – vero – oltre che lei?

        VENZI: Sì.

        MARTA: Ah sì? – Mi dica chi!

        VENZI: Chi ne soffre di più.

        MARTA: Elena?

        VENZI: Perché dice subito Elena?

        MARTA: Perché è quella che, qua, in questo momento, soffre di più.

        VENZI: Elena, sì.

        MARTA: Ma io ho creduto finora che soffrisse del suo male – non di quello che io, davvero, non ho alcun sospetto di farle. – Gliel’ha detto Elena?

        VENZI: Sì. Poco prima che svenisse, sentendo la sua voce.

        MARTA: Ah, per questo? – Le ha detto di questo gran male ch’io le faccio?

        VENZI: Sì. Enorme.

        MARTA: Volendolo? Sapendolo?

        VENZI: No! Elena si rifiuta d’ammettere qualsiasi colpa in lei; è indignata, anzi, posso aggiungere, indignata veramente, contro di me che, invece, l’ammetto.

        MARTA: Non m’importa che lei l’ammetta! – Elena ha dunque il sospetto che suo marito…!

        VENZI: No! – Ma è questo appunto il male di cui soffre – di non poterne far colpa a nessuno dei due, né a lei né al marito! e di dovere per giunta provare il rimorso di ciò che è pur costretta a pensare di voi.

        MARTA: Costretta? Perché costretta?

        VENZI: Ma perché, senza volerlo, lo pensa! anzi ribellandosi a questo pensiero! – Tutto qua, però, questa casa, la vostra presenza, i vostri modi, le cure, l’a­more, le attenzioni che avete per lei, tutto, tutto le mette davanti, e addosso, quest’orrore! Me l’ha detto. Cose, m’ha detto, che fanno veramente strazio a sentirle! Di quello che soffre, là nel suo letto, di notte, nell’insonnia, pen­sando… Una pena orribile! Il martirio!

        MARTA: E lei, sentendo queste cose orribili, anche per carità del suo male, non le ha detto nulla?

        VENZI: Io? Se le penso anch’io!

        MARTA: Ma dico, per carità del suo male!

        VENZI: Che carità! Se ne soffro più di lei!

        MARTA: Che lei ne soffra o non ne soffra, non m’importa –

        VENZI (subito): – e ha torto, ha torto! perché – vede? – è stata la mia soffe­renza, invece, proprio la mia sofferenza a svelarle tutto; nel vedervi qua, voi due, attorno a lei –

        MARTA: – ma svelarle che cosa? Sa lei quello che si dice? –

        VENZI: Giuro che non le ho detto una parola! Me l’ha letto negli occhi.

        MARTA (con impeto di sdegno): Che cosa?

        VENZI: La mia, la mia sofferenza: e le si è attaccata, per contagio! Dice ap­punto che sono stato io a fargliela pensare questa cosa infame di voi due!

        MARTA: Infame?

        VENZI: No no: intenda bene! infame, appunto perché osa pensarlo di lei! – Ma la pensa, la pensa! – Come me!

        MARTA: Che cosa pensa? ch’io possa…?

        VENZI: – sì, dopo, dopo la sua morte!

        MARTA: Ah, è orribile!

        VENZI: – come pensiero per lei – (diabolico:) ma non la cosa in sé, però – possibile, possibilissima – quasi certa!

        MARTA (sbalordita): Che dice?

        VENZI: Eh via! lei non l’ha pensata?

        MARTA (turbatissima e fiera): Si stia zitto: mi fa ribrezzo solo poter supporre che, anche a uno come lei, sia potuto venire in mente un tal pensiero!

        VENZI: Ma si pensano, sa, si pensano, certe cose!

        MARTA: Si stia zitto, le dico! Non posso più sentirla parlare!

        VENZI: Si può tutto pensare, tutto, di nascosto a noi stessi! È così naturale, creda, pensarle certe cose!

        MARTA: Sì, per uno come lei! –

        VENZI: – eh già – che sono in grado anche di dirle! – Ma sia sincera! – Una cosa che poteva essere, che forse doveva essere e non è stata – che potrà es­sere domani, senza che nessuno ci possa vedere nulla di male! – La casa qua è pronta…

        MARTA: Ah, me ne vado! me ne vado via subito!

        VENZI: No, perché se ne va, se non è vero?

        MARTA: Appunto perché non è vero! Non posso più stare qua!

        VENZI: Ma l’uccide, sa! Se in questo momento se ne va, l’uccide!

        MARTA: Gliel’ha inoculato lei, come una vipera, il veleno di questo pensiero!

        VENZI: Tanto più, se crede così, scusi. – Le dico che la farebbe morire dal ri­morso, se se ne va!

        MARTA: Ma la fa morire lei, per quello che ha fatto!

        VENZI: Io no, le giuro! Sarebbe terribile, per me, se morisse! L’ha pensato da sé, creda; e m’ha fatto raccapriccio a sentirle esprimere con le mie stesse pa­role le stesse cose che penso io! Questa gara di compitezza tra voi due, lo spettacolo della squisita carità con cui la accompagnate, la sospingete fino alla soglia della morte.

        MARTA (inorridita): – io? – ha detto così?

        VENZI (guardandola negli occhi): – così! così! – Ma se veramente lei non l’ha pensato –

        MARTA: – come vuole ch’io possa mai averlo pensato, un simile orrore! –

        VENZI: – e allora ha l’obbligò di restare qua a compiere questa suprema carità!

        – Anche per me: ma guardi, guardi come sono!

        MARTA (quasi senza più sdegno): Lei è un miserabile.

        VENZI: Sì sì, un miserabile! E lei mi passi una mano sulla fronte, se la sua mano è così pura –

        MARTA: – per cancellare le cose orribili che pensa?

        VENZI (ritraendosi): – no no, non lo faccia! non lo faccia! me ne piglierei la carezza! Io ho bisogno, bisogno di crederla cattiva, per poterla amare come la amo !

        MARTA: Oh lo so! lo vedo!

        VENZI: Ma lei è, è cattiva; sì sì, cattiva, lei è cattiva –

        MARTA (con tristissimo sorriso): – perché ora riesco a vincere lo sdegno e sono buona con lei? –

        VENZI: – no! no! – perché tutta codesta sua bontà immacolata –

        MARTA: – ma io non me la riconosco, sa! –

        VENZI: – eh via, come non se la riconosce, se ce la mostra come un miracolo continuo? –

        MARTA: – io, la mostro? –

        VENZI: – sì – e dà il martirio a tutti con codesta sua immacolata bontà: affa­scina questo, affascina quello – le donne non meno degli uomini – ne siamo presi tutti – ne soffriamo tutti – e questa è la sua vendetta! –

        MARTA: – la mia vendetta? –

        VENZI: – la sua vendetta, sì: codesta bontà! –

        MARTA: – ma di che, vendetta? –

        VENZI: – di non esserci accorti a tempo del bene che avevamo vicino! di tutto codesto miracolo di gentilezza, di pietà, di generosità, che seguita a dimo­strarci, sempre, in tutto; e con effetto di male, sempre! Le nostre mogli, lei crede di rendercele più accette, inducendole a pensare, ad agire, a compor­tarsi come lei? Si sforzano di somigliarle, e si scoprono subito, per forza, in­degne del loro modello, goffe, insulse, sgarbate, miserevoli! Lei le dovrebbe invece indurre a non somigliarle affatto, a essere tutt’altre da lei – l’opposto – frivole, civette, sfrontate, provocanti, smorfiose: quasi nude, capelli corti, occhi bistrati, labbra segnate come una ferita, e sigaretta in bocca – così!

        MARTA: Così, già – perché voi ve ne possiate accorgere – ecco! – mentre di una, com’ero io, non vi voleste o non vi sapeste accorgere –

        VENZI: – ma perché lei –

        MARTA: – eh, lo so, avrei dovuto spingervi, stuzzicarvi, provocarvi – e allora sì! –

        VENZI: – no! ma almeno mostrare che avrebbe gradito –

        MARTA: – e perché io, mostrare? – Che ne sa lei se io, dentro di me, non gra­divo? –

        VENZI: – gradiva me? –

        MARTA: – quando lei venne da noi, era già fidanzato con Anna –

        VENZI: – avrei buttato all’aria il fidanzamento, se avessi potuto scorgere in lei il minimo segno –

        MARTA: – come poteva scorgerlo, se non mi passò nemmeno per la mente?

        VENZI: Avrebbe sposato Berri? dica – avrebbe sposato Mordini? – Viani sì, Viani certo, non lo neghi !

        MARTA: La finisca, Venzi, non abusi della mia pazienza; la ascolto perché la compatisco.

        VENZI: Ma se gradiva –

        MARTA: – mi studiavo appunto di non mostrarlo, perché gelosa, dentro di me, del mio stesso sentimento, che qualcuno lo scorgesse –

        VENZI: – anche quello che gliel’ispirava? –

        MARTA: – ma doveva accorgersene da sé, quello che me l’ispirava, senza ch’io glielo mostrassi! – Se mai nessuno se ne potè accorgere, io ne sono ora con­tenta, perché è segno che m’avrebbe voluta come io non credo che una donna debba essere! – Lo vedo bene, lo vedo bene, come voi vorreste che fosse una donna! Ecco: come l’avete ridotta: – una mostruosa vergogna. – Il vostro stesso vizio, e niente altro! Tant’è vero che ora crede, nella sua inaudita im­pudenza, anche di poter fare a meno di voi! – Oh, non sbalordisca a sentirmi parlare così! Non sono mica una santa di quelle che fingono di non saper nulla, io! Sono così, appunto perché so. E Dio m’è testimonio di quanto m’è costato di schifo e d’orrore saperlo e vederlo e supporlo tutti i giorni negli occhi e nei modi delle donne! Oh Dio, anche delle vecchie! – Avevano una faccia, Dio, che poteva esprimere tutto, la gioja se la sentivano, il dolore se lo sentivano, la maraviglia d’esser vive: se ne sono fatta una maschera dove è dipinta solo una cosa, la più laida: il vizio, l’oscenità! – E lei vorrebbe che fosse così la sua donna?

        VENZI: No! no!

        MARTA: L’ha detto!

        VENZI: Non potendo essere come lei ho detto!

        MARTA: Ah sì? – e allora, sconcia, sfrontata, viziosa? Me, intanto, perché sono come sono – nessuno prima mi volle! E dovrei essere io, ora, a indurre Anna, è vero? a esser diversa; e allora non sarei più cattiva; e la mia bontà non avrebbe più effetto di male! – Ma vede, vede a quale assurdità la conduce codesto suo accecamento? – Dio sa se c’è in me superbia; se io mi sento, dentro di me, in tutto, quello che veramente penso che dovrebbe essere una donna! Mi rimprovero, tutti i momenti, tante cose! Ma non dovrebbe essere questo, per voi uomini, il premio? una donna, veramente donna, accanto? il premio che nessuno deve sapere, il premio che non si dice: che soffre, in se­greto, della gioja che dà, e in questo suo soffrire è anche la sua gioja – gioja sì, gioja sofferta, da cui nasce ancora la vita? il riserbo, la prudenza – quella vera, del cuore che tiene il segreto, perché ha visto e sa, sa tutta la vita del­l’uomo che gli si confida; e in questo segreto del cuore non c’è più bisogno di nulla che stia fuori, allora: né legge, né giudizio degli altri; perché può as­solvere in sé, anche un delitto; come condannare, invece, quello che gli altri approvano! L’amante e la madre, l’amante che si fa madre, e che dice dopo, battendo la spalla, come si batte a un bambino: «Ora basta; sii uomo: non ve­dere, in me e in te, questo soltanto!». – (Troncando d’improvviso, perché av­verte ora che il Venzi, sentendola parlare così, si sarà messo a piangere.) No, no, vada via, Venzi; vada via, non pianga! Non so che cosa m’abbia fatto dire! – Lei m’ha cagionato un vero dolore, perché non ha saputo rispettare in me neppure quello stesso sentimento, che Dio può dire se ho mai fatto nulla perché sorgesse in lei. – Vada, vada! – Dovrebbe capire che per me è mo­struoso.

        VENZI: Lo capisco, lo capisco!

        MARTA: Come tutto quello che ha potuto pensare di me.

        VENZI: E lei non capisce, che ciò che ne penso adesso, invece, viene ad essere peggio, tanto peggio per me?

        MARTA: Ma è lei, allora, non sono io, che cangia tutto in male! – Eh, ma non lei soltanto, qua, a quanto pare, se anche quella poverina… Dio mio! Dio mio! – E io non so più, ora, davvero, non so più come debba fare qua… quello che debba fare, se la mia presenza, l’essermi prestata con tanta cura e tanto affetto, ha potuto far pensare… – Non dico per me, no; ch’io me ne sia offesa, no, no – ma seppure non facendolo per male, questo male è nato nel cuore di quella poverina… Ah Dio, che cosa!… che cosa, Dio… che cosa… – Se ne vada, se ne vada, per carità… È quasi sera… Mi lasci pensare…

        VENZI: Mi vuol dare la mano?

        MARTA: Ma sì, eccola… Se ne vada, però… (A un atto di Venzi:) No, Dio, lasci!

        VENZI: Non gliela bacio, no, non gliela bacio! Mi perdoni. Esce dall’uscio a sinistra. La penombra s’addensa sempre più, Marta è per­plessa, se andare, o no, nella camera di Elena. Lunga pausa. Entra dall’uscio a sinistra Fausto.

        FAUSTO: Qua al bujo?

        MARTA: Stavo pensando…

        FAUSTO: Venzi usciva di qua?

        MARTA: Sì. Abbiamo discorso…

        FAUSTO (alludendo a Elena): Non si è ancora svegliata?

        MARTA: Volevo andare a vedere. Ma non credo. Mi avrebbe chiamata.

        FAUSTO: L’ho trovato, sa? alla clinica.

        MARTA: Ah! il dottore? – Verrà?

        FAUSTO: Deve fare ancora un’operazione, ha detto. Non potrà essere qua che tra due ore. Ho avvertito l’infermiera. (Pausa.) Ma accendiamo! Fa una tri­stezza, così… (Dà luce alla stanza, poi, guardando Marta:) Lei è triste, si­gnorina. Mi dica la verità: crede che stia male veramente? (Allude a Elena.)

        MARTA: No, vede, riposa ancora… Bisognerebbe però che stesse sempre, sem­pre tranquilla… e io temo purtroppo…

        FAUSTO (dopo aver atteso un po’): Che cosa?

        MARTA: No, niente. – Vado, vado a vedere piano piano se non si è svegliata… Esce dall’arco infondo: attraversala camera di Fausto; ne apre con cautela l’uscio e scompare. Fausto rimane un momento assorto a pensare, poi si guarda attorno come per una suggestione della immobilità degli oggetti cir­costanti, e dice, quasi con disgusto:

        FAUSTO: Questa casa… (Pausa, torna a pensare.) Che Venzi le abbia detto…?

        LA VOCE DEL CAMERIERE (dietro l’uscio di sinistra): Permesso?

        FAUSTO: Avanti.

        Entra il cameriere e, contemporaneamente, dall’altro uscio della camera di Fausto, entrano Marta ed Elena. Questa è in una vestaglia rossa, che la fa apparire più pallida, e con le babbucce ai piedi, come una che si sia levata di letto. Marta la sorregge.

        MARTA: No, no, di là no, non te lo permetto! Fin qua, e basta!

        FAUSTO (accorrendo): Ah, ti sei levata?

        ELENA: Sì, sì, me ne starò qua, me ne starò qua… non vado oltre!

        MARTA: S’è voluta levare; e non deve!

        FAUSTO: Sii buona, Elena…

        ELENA: Ecco: me ne starò qua sul tuo letto… (A Marta:) Va bene così? Potete contentarmi!

        MARTA: Ma sì; certo! purché tu ti stia a letto! (L’accompagna al letto e l’aiuta a stendervisi.)

        FAUSTO: Ecco, brava, così! (Poi, volgendosi al cameriere che aspetta:) Che vo­lete?

        IL CAMERIERE: Venivo ad avvertire che giù è pronto, per la cena.

        ELENA: No no, Fausto: giù no! Qua, qua: fai apparecchiare costà: per Marta e per te!

        MARTA: Ma no, che ti salta in mente? Io vado a casa.

        ELENA: No, qua! qua! Fammi questo piacere! Qua, Marta!

        MARTA: Vado a prendermi il cappello in camera tua… (Fa per avviarsi.)

        ELENA (levandosi dal letto): E allora, ecco, io mi levo dal letto, se tu non ri­mani!

        MARTA: Ma no, via, sei una bambina: lasciami andare!

        ELENA: Non ti lascio andare, no! Devi rimanere qua. Guarda, ho tanta paura, questa sera, se tu te ne vai…

        MARTA: Ma ritornerò più tardi, cara!

        ELENA: No, no, resta qua, con Fausto: e io, qua dal letto, vi sentirò parlare…

        FAUSTO: La faccia contenta, signorina. Tanto, a casa, la signora Anna avrà già avvertito. (Al cameriere:) Apparecchiate qua, su quel tavolinetto. (Indica a destra dell’arco.)

        ELENA: Per due! per due!

        CAMERIERE: Sissignora, per due. (Prende il tavolino, lo colloca in mezzo della stanza ed esce. )

        MARTA (ad Elena): Ma tu intanto, subito a letto! (Di nuovo l’accompagna e l’ajuta a stendersi.) Aspetta, prendo la coperta dalla tua camera. (Va e rientra poco dopo con la coperta. Intanto l’apparecchio telefonico squilla sulla scri­vania. Fausto accorre.)

        FAUSTO (risponde al telefono): Pronto! (Breve pausa.) Sì. (Pausa.) Ecco: la chiamo subito! (A Marta, tenendo in mano il ricevitore:) Signorina, venga: la chiamano da casa.

        MARTA: Me? (Accorre.) Forse Anna non è ancora andata.

        ELENA: Bene, così potrai avvertire tu stessa.

        FAUSTO (cedendo a Marta il ricevitore): Ecco.

        MARTA (parlando al telefono): Pronto! – Io, io: di’, mamma. – Ascolta. Lunga pausa. Nel frattempo il cameriere rientra con un gran vassojo su cui sarà l’occorrente per apparecchiare la tavola, e una tovaglia sotto il braccio. Mentre dura la telefonata apparecchierà per due. – Ma no, che mi dici? (Atto di stupore, che quasi la spinge a posare il ricevi­tore.) Sì, sì, certo, mi sorprende moltissimo… – Ho capito, ho capito, ma io… (Ascolta: altra pausa piuttosto lunga.) Ma no! Così per telefono, scusa? – No, in questo momento non potrei venire. Sì, sono qua da Elena… Come t’ha detto Anna… – Ma che vuoi che venga a fare, no! No, no, non vengo. (Pausa.) – Ma di’ così: che me ne farete parola quando rincaserò, e… Ah, sa che tu mi stai telefonando? – E allora di’ che non posso mica rispondergli per telefono su un tale argomento… – Ma sì, ringrazialo e digli che ci penserò… che daremo una risposta… Sì, ecco, così. Addio. (Posa il ricevitore, e subito dopo rimane assorta a pensare, come sospesa e turbata.)

        ELENA: Che cos’è?

        MARTA: Una cosa così buffa! E proprio oggi, poi… Mi piace la mamma che… Come se non avesse tempo a dirmelo.

        ELENA: Io ho capito, sai?

        MARTA: Che hai capito?

        ELENA: Che a casa tua è andato Guido Migliori a chiedere la tua mano.

        MARTA (sorpresa e in apprensione): Com’hai fatto a capirlo?

        ELENA: Ma perché, l’ultima volta che fu con noi, m’accorsi bene che già do­veva aver fatto un pensiero su te. – Tu no?

        FAUSTO: Sì sì, me n’accorsi anch’io!

        MARTA: Ma anch’io, Dio mio! Si fa presto ad accorgersi di certe cose. Non m’aspettavo, però..

        Il cameriere rientra col primo servito appoggiando il vassojo sulla scrivania.

        FAUSTO (porgendo da sedere a Marta): Ecco, segga intanto, signorina.

        ELENA: Marta, vuoi che te lo dica? Guido Migliori non è per te! È buono sì, ma così sciocco, così sciocco, poverino!

        MARTA: Ah, non è certo un fiore d’intelligenza…

        FAUSTO: Ecco, sì; le devo dire anch’io la mia opinione, Guido veramente non mi pare il partito più conveniente per lei.

        MARTA: Deve avere anche qualche anno meno di me…

        ELENA: È ricco.

        FAUSTO: Anche un bel giovane.

        ELENA: Ma non basta, scusa, per Marta! Un bel giovane… Ce ne sono tanti, bei giovani!

        Pausa. Nel silenzio, si deve avvertire che sopravviene uno strano imbarazzo in tutti e tre.

        FAUSTO: Chi sa che la prima idea non gli sia venuta la sera del nostro arrivo…

        ELENA: L’idea però dimostrerebbe che non è poi uno stupido, mi pare, tra voi tutti tanto intelligenti…

        (Pausa.)

        MARTA (lentamente, con gli occhi nel vuoto): Eppure, forse… sì, sarà bene, forse, che io accetti…

        FAUSTO: Vuol dire «bene» veramente, per lei, signorina? Io ci penserei.

        ELENA: Sì, sì, Marta: bisogna che tu ci pensi, ci pensi… – Te lo dico io, Marta…

        MARTA: Me lo dici tu? Ma non piacerebbe a te che Marta finalmente…

        ELENA: Sì! Ma con uno degno di te! Mi piacerebbe tanto! – Tu puoi aspettare… Aspetta, aspetta… E chi sa!

        MARTA (troncando): No, cara: vedrai, vedrai che dirò di sì. (A questo punto, dall’uscio di sinistra s’udrà:)

        LA VOCE DI VENZI: Si può?

        FAUSTO: Ah tu? Vieni, vieni, Venzi.

        VENZI: Ah, bene… A cena, qua?

        ELENA: E io qua, Venzi! Non vedo, ma sento!

        VENZI: Buona sera, signora Elena. I miei complimenti.

        ELENA: Di che?

        VENZI: Eh, vedo che sta meglio, anche non vedendo! (A Fausto porgendogli una chiave:) Ti porto la chiave dello studio. Come viene il giovine domattina, le carte da mandare al notajo, subito, sono preparate sulla mia scrivania.

        FAUSTO: Sì, va bene.

        VENZI: Lascio detto giù che se avrai bisogno di me, mi telefonino. E… buona cena a tutt’e due!

        Si sente squillare di nuovo l’apparecchio telefonico sullo scrivania. Venzi, lì vicino, stacca il ricevitore.

        MARTA: Oh Dio, di nuovo!

        VENZI (rispondendo al telefono): Pronto!

        MARTA (^strappandogli il ricevitore dalla mano): No, lasci. È per me!

        VENZI: E come lo sa lei, scusi?

        MARTA: È per me!

        ELENA: Guido Migliori, Venzi, chiede la mano di Marta! – Rispondi di no, Marta, di no, di no: che la finiscano!

        VENZI: Ma si sa! Di no! Non può mica rispondere altrimenti!

        MARTA (al telefono): …ma che buona parola vuoi che ti dica, scusa, mamma: è ridicolo! – No, no, e basta! – (Posa il ricevitore, e guarda fieramente Venzi.) Non ho, difatti, in coscienza, da rispondere altrimenti.

        VENZI: Ma naturalmente, naturalmente! Come ho detto io! – (Ridacchia.) Ah ah – figurarsi! Guido Migliori… Buona sera! Buona sera! E se ne va, ridacchiando ancora. Si rifa nel silenzio, più grave, l’imbarazzo di prima. Marta e Fausto, seduti di fronte, non sanno più come proseguire la cena, dove guardare, che cosa dire. A un tratto, Elena, che s’è levata di letto silenziosamente, appare – pallidissima – nel vano dell’arco.

        ELENA: State insieme, tutti e due, così bene… Come starete, come starete quando io non ci sarò più… Marta e Fausto accorrono a lei costernatissimi.

        MARTA: No, Dio, Elena, che dici? che pensi?

        FAUSTO: Elena! Elena! Come puoi pensarlo?

        ELENA: Vi vedo, vi vedo, come sarete!

        MARTA: No, Elena! Levati dalla mente questa cosa orrenda!

        ELENA: Ma io lo voglio! lo voglio!

        MARTA: Che vuoi? Sei pazza! Tu sei qua! Tu guarirai!

        FAUSTO: Devi vivere! devi vivere!

        ELENA: Volete che viva? Tu vuoi che viva, Marta, vuoi che viva?

        MARTA: Ma sì, cara, certo! Io darei la mia vita per farti vivere!

        ELENA: No, basta che tu sposi, basta che tu sposi!

        MARTA: Sì, sì, Guido Migliori, non dubitare; lo sposerò, lo sposerò!

        ELENA: Non per me, sai! Io ti credo, io ti credo! E per levare dalla testa a que­sto vile uomo il pensiero che m’ha infitto qua come un chiodo e che mi sta facendo impazzire! morire, morire!

        MARTA: Sì, sì!

        ELENA: Per dimostrargli che non è vero! che è un’infamia! un’infamia quello che pensa di te! Perché tu sei buona, sei buona, come ti credo io, Marta mia! buona, buona… (E se la carezza tutta.)

        MARTA: Ma sì, sì, cara! come tu mi credi! Stai tranquilla, stai tranquilla! Così ti fai male… Stai tranquilla, cara. E sicura, sicura! Perché io sono, sì, vera­mente, come tu mi credi.

Tela.

1927 – L’amica delle mogli – Commedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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