Legge Giuseppe Tizza.
«Una bella giovine. Aveva, raccolto in una mano, un minuscolo fazzolettino di filo azzurro, ricamato; teneva l’altra, sfavillante d’anelli, su la guancia destra, come per nascondere il rossore e il bruciore d’un terribile schiaffo.»
Prime pubblicazioni: Il Messaggero della Domenica, 8 giugno 1919, poi in Il carnevale dei morti, Battistelli, Firenze 1919.
Jeri e oggi
Voce di Giuseppe Tizza
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La guerra era scoppiata da pochi giorni.
Marino Lerna, volontario del primo corso accelerato di allievi ufficiali, avuta la nomina a sottotenente di fanteria, dopo una licenza di otto giorni trascorsa in famiglia, partì per Macerata; ov’era il deposito del reggimento a cui era stato assegnato: il 12.mo, brigata Casale.
Contava di passar lì qualche mese per l’istruzione delle reclute, prima d’esser mandato al fronte. Invece tre giorni dopo, mentre si trovava nel cortile della caserma, fu improvvisamente chiamato, non seppe da chi; e su per le scale si trovò insieme con gli altri undici sottotenenti arrivati con lui a Macerata dai diversi plotoni.
– Ma dove? Perché?
Su, in sala. Dal colonnello.
Rigido sull’attenti, coi compagni, davanti una tavola massiccia, ingombra d’incartamenti, fin dalle prime parole di quel colonnello dei carabinieri, che teneva in sostituzione il comando della caserma, comprese poco dopo che doveva esser giunto un ordine di partenza per loro.
Con gli occhi ancora abbagliati dal sole di giugno che splendeva giù nell’ampio cortile, non riuscì in prima a discernere, nel bujo di quella tetra sala, se non l’argento della montura al collo della divisa del signor colonnello, il roseo d’una lunga faccia cavallina tagliato da un grosso pajo di baffi, e il biancheggiar delle carte sulla tavola.
Per un tratto, smarrì nello scompiglio tumultuoso dei pensieri e dei sentimenti il senso delle parole proferite con voce dura e urtante. Si sforzò di prestar attenzione e, sissignori, era proprio così: l’ordine di partenza era per la sera del giorno appresso.
Già al deposito si sapeva che il 12.mo occupava al fronte una tra le più aspre e difficili posizioni, sul Podgora; e che i più giovani ufficiali vi erano stati mietuti in parecchi assalti infruttuosi. Bisognava, dunque, correr subito a colmare quei vuoti.
La tensione dell’animo, appena il colonnello licenziò quei dodici giovani, si sciolse in ciascuno di loro, per un istante, in un curioso stordimento, quasi di delusa ebbrezza. Subito se ne distolsero per abbandonarsi a un eccesso di disinvoltura rumorosa; da cui però, un momento dopo, tornarono a riprendersi con uno studio di mostrare l’uno all’altro che quella loro disinvoltura non era punto affettata.
Si trovarono, a ogni modo, tutti d’accordo nella decisione di correre al telegrafo per annunziare ai parenti con parole animose la partenza.
Tutti, meno uno. Proprio quell’uno tra gli ottanta del plotone allievi ufficiali che da Roma era stato assegnato con Marino Lerna al 12.mo reggimento: un tal Sarri; proprio quel tal Sarri che a Marino Lerna era tanto dispiaciuto d’avere a compagno, quasi che la sorte avesse voluto tra gli ottanta camerati del plotone romano scegliergli quello appunto che gli era più antipatico.
Ma veramente quel Sarri non aveva nessuno, a cui telegrafare la sua partenza. In quei tre giorni passati insieme a Macerata, Marino Lerna, pur non riuscendo a mutare in fondo l’opinione che n’aveva, s’era sentito tuttavia un po’ meglio disposto verso di lui, forse perché da solo a solo il Sarri aveva smesso quell’aria sprezzante che lo aveva reso a Roma inviso a tutti i compagni del plotone. Marino Lerna aveva creduto di capire che lo sprezzo del Sarri derivava da un proposito, ch’era in lui quasi bisogno istintivo, di non confonder mai il suo sentimento con quello degli altri, dimostrando in tutti i modi ch’egli sentiva, non pur diversamente, ma l’opposto, senza punto curarsi dell’altrui stima. Era forse, insomma, antipatico più per professione che per natura, e aveva l’orgoglio delle antipatie che suscitava. Poteva permetterselo, perché molto ricco e solo al mondo.
Da Roma s’era portata a Macerata una donnina allegra, che manteneva da circa tre mesi, ben nota ai compagni del plotone. Contava anche lui di rimanere al deposito forse più d’un mese e voleva in questo tempo cavarsi del tutto – diceva – almeno il gusto più facile, quello bestiale dell’altro sesso, sicuro com’era che non sarebbe certamente mancato per lui di morire in guerra, tanto l’idea di seguitare a vivere, dopo la guerra, nell’enfasi d’una patria piena d’eroi, gli era intollerabile.
Marino Lerna, mentre con gli altri si dirigeva al telegrafo, vedendolo restare indietro, si trattenne.
– Tu non vieni?
Il Sarri scrollò le spalle.
– No… volevo dire… – riprese il Lerna per riparare, un po’ imbarazzato, alla sciocca domanda. – Volevo chiederti un consiglio.
– Proprio a me?
– Non so… guarda: tre giorni fa, partendo da Roma, assicurai mio padre e mia madre…
– Tu sei figlio unico?
– Sì, perché?
– Ti compiango.
– Eh, lo so, per i miei. Li assicurai che non sarei partito per il fronte se non tra qualche mese, e che prima di partire sarei andato a salutarli per…
Stava per dire «per l’ultima volta». S’interruppe. Il Sarri lo capì; sorrise.
– Ma dillo pure, per l’ultima volta.
– No, ecco, speriamo di no; faccio le corna. A salutarli, diciamo, ancora una volta, prima di partire.
– Bene. E poi?
– Aspetta. Mio padre si fece promettere, che se per caso m’avessero negato la licenza, lo avrei avvertito a tempo perché potesse venir lui con la mamma a salutarmi qui. Ora, noi partiamo domani sera alle cinque.
– Se prendono questa sera il treno delle dieci, – seguitò il Sarri, – domattina alle sette possono essere qua per passare con te quasi tutta la giornata.
– Dunque, me lo consigli? – domandò Marino Lerna.
– Ma no! – esclamò il Sarri, senza esitare. – Scusa, hai avuto la fortuna di partire senza pianti…
– No, per questo, la mamma ha pianto!
– E non ne sei contento? Vorresti vederla piangere ancora? Ma di’ che parti stasera e salutali di qui! Sarà meglio per te e per loro.
Poi, vedendo che il Lerna restava lì incerto e perplesso:
– Ciao, eh – gli disse. – Vado ad annunziarla a Nini, io, la partenza. Sarà da ridere. Mi ama! Ma quella, se piange, la scazzotto.
E se n’andò.
Marino Lerna s’avviò al telegrafo ancora perplesso se seguire o no quel consiglio. Al telegrafo ritrovò i compagni che avevano tutti telegrafato gli addii, senz’altro; e fece come loro; ma poi, ripensandoci e parendogli d’aver fatto un tradimento alla povera mamma, al babbo, spedì un nuovo telegramma d’urgenza, nel quale li avvertiva che se prendevano il treno delle dieci di sera, avrebbero fatto in tempo a salutarlo prima della partenza.
La mamma di Marino Lerna era una dura donnetta all’antica, come ne conserva ancora la provincia.
Eretta sul busto armato di grosse stecche, ossuta, un po’ legnosa, pur senz’esser magra; in un’ansia continua, tra sospetti e diffidenze, voltava di qua e di là gli occhietti aguzzi di topo, irrequieti.
Adorava tanto quel suo unico figliuolo, che per lui, per non staccarsi da lui già studente d’Università, aveva lasciato gli agi della sua casa antica, le abitudini patriarcali della sua vita in un villaggio degli Abruzzi; e da due anni era andata a stabilirsi nella Capitale ove si sentiva sperduta.
Arrivò la mattina del giorno appresso a Macerata in tale stato, che subito il figlio si pentì d’averla fatta venire. Ma lei protestava di no, appena scesa dal treno: di no, di no; senza poter più staccare le braccia dal collo del figlio, piangendogli sul petto:
– Non me lo dire, Rinuccio… non me lo dire…
Il padre le batteva intanto, serio serio, una mano sulla spalla. Perché era uomo, lui. E non piangeva, lui.
A Roma, poco prima di partire, aveva avuto un certo discorso con un signore sconosciuto, il quale aveva anch’esso un figliuolo al campo fin dal primo giorno della guerra e due altri più piccoli in casa. Un certo discorso, sì. Niente. Un discorso tra due padri, ecco.
– Senza piangere…
Però, nello sforzo di trattenere il pianto a ogni costo (sforzo che gli appariva evidentissimo dagli occhietti lustri, febbrili), la sua magra personcina molto curata aveva ora una ridicola solennità artificiosa, che faceva pena, forse più di quell’abbandonato cordoglio della madre.
Era senza dubbio esaltato; accennava a quel suo misterioso discorso con quel signore sconosciuto, come per nascondervi un proposito che aveva intanto un ben curioso effetto: quello di fargliela vedere, come da fuori, a lui stesso, la sua esaltazione mascherata di calma, e di fargliene forse provare ora rimorso, ora fastidio, di fronte alla nuda schiettezza, alla commozione forte e muta del figlio che soffriva del pianto della sua mamma e le faceva coraggio più con le carezze che con le parole.
Fu pur troppo, come il Sarri aveva previsto, uno strazio inutile.
Accompagnati i genitori all’albergo, Marino Lerna dovette scappar subito in caserma, dove fu trattenuto fin quasi a mezzogiorno. E appena finito lì, nella stessa camera dell’albergo, il desinare (perché la mamma con quegli occhi disfatti dal pianto non fu possibile portarla al ristorante; e poi non si reggeva più sulle gambe), appena finito il desinare, dovette di nuovo ritornare in fretta in furia alla caserma per le ultime istruzioni. Cosicché il padre e la madre non poterono rivederlo che pochi momenti appena, prima della partenza.
Ma un bel discorso, un bel discorso lungo e ragionato si provò a fare il padre alla moglie, come rimasero soli. Cose peregrine le disse in quel discorso, provandosi spesso a ingollare e passandosi la manina tremicchiante sulle labbra: che non si doveva piangere così, perché non era mica detto che Rinuccio… Dio liberi… i casi potevano esser tanti… il reggimento, per ora, poteva anche esser mandato in seconda linea, se si trovava agli avamposti, come dicevano, fin dal primo giorno della guerra… e poi, se tutti i soldati che andavano al fronte fossero morti, addio… più facile era che fossero feriti… qualche feritina lieve… a un braccio, per esempio… Dio lo avrebbe assistito, il loro figliuolo… perché fargli così la jettatura con quel pianto? Eh… eh… a vederla piangere così, Rinuccio si sarebbe impressionato; certo che si sarebbe impressionato… Ma la madre diceva che non era lei. Gli occhi… gli occhi… che poteva farci? Per il senso che le facevano tutte le parole, tutti gli atti del suo figliuolo: un senso strano e crudele, di ricordo.
– Ogni parola, capisci? mi fa l’effetto che non me la dica ora, ma che me la diceva…Così! Mi resta impressa, come se lui già non ci fosse più… Che posso farci?… Dio… Dio…
– E non è jettatura, questa?
– No! che dici!
– Dico che è jettatura! E io mi metterò a ridere, vedrai che io mi metterò a ridere, quando partirà.
Se avessero seguitato ancora un poco, avrebbero litigato. C’era già acuta, fustigante l’impazienza per il ritardo del figliuolo. Ma Dio, come non capivano i superiori che quegli ultimi momenti dovevano essere riserbati a una povera mamma, a un povero padre?
L’impazienza diventò smania insopportabile, allorché tutti i compagni di Marino cominciarono a venire alla spicciolata e in gran fretta all’albergo, con le carrozze che si fermavano lì davanti ad aspettare il bagaglio per ripartir subito verso la stazione. Ecco, l’attendente dell’uno portava già la cassetta; l’attendente dell’altro, lo zaino, il cappotto, la sciabola; e via tutti a precipizio, in carrozza, di gran trotto.
Marino, uscito per ultimo dalla caserma, era corso a ritirare un pajo di scarpe imbullettate, da campagna, ordinate il giorno avanti; e aveva fatto tardi.
Più che un distacco, fu uno strappo, una furia, un precipizio. C’era il rischio di perdere il treno. Difatti, arrivò col padre e la madre alla stazione, che già chiudevano gli sportelli delle vetture: si cacciò in una, da cui i compagni si sbracciavano a chiamarlo; e subito il treno partì fra un tumulto di gridi, di pianti, d’augurii, tra uno svolazzio di fazzoletti e cenni di mani e di cappelli.
Quando il signor Lerna, che aveva agitato il suo fino all’ultimo, ma senza nessuna convinzione, quasi stizzito che non gli avessero dato il tempo di farlo bene, si voltò, ancora mezzo intronato, a cercarsi accanto la moglie, non la trovò più: l’avevano trasportata, svenuta, nella sala d’aspetto.
Una gran quiete, ora, nella stazione. Non c’era più nessuno. Solo, nel vano abbagliante del lungo e stanco pomeriggio estivo, i binarii lucidi, e un lontano ininterrotto stridio di cicale.
Tutte le carrozze avevano già ricondotto in città la gente venuta a salutare i partenti; e non se ne trovò più nessuna davanti la stazione, allorché la mamma di Marino Lerna, alla fine rinvenuta, fu in condizione d’esser trasportata all’albergo.
Il guardasala, impietosito, si profferse d’andare al prossimo garage per far venire l’omnibus automobile, che doveva esser già di ritorno.
All’ultimo momento, quando la signora, sorretta, quasi portata di peso, vi aveva già preso posto, e l’omnibus stava per avviarsi, venne di furia a montarvi una giovine bionda, sbucata chi sa da dove, con una gran paglia fiorita di rose in capo, molto scollata e vestita alla bizzarra; occhi e labbra dipinti; ma che piangeva anche lei perdutamente.
Una bella giovine.
Aveva, raccolto in una mano, un minuscolo fazzolettino di filo azzurro, ricamato; teneva l’altra, sfavillante d’anelli, su la guancia destra, come per nascondere il rossore e il bruciore d’un terribile schiaffo.
La Nini, che il sottotenente Sarri s’era portata da Roma, tre giorni addietro.
Il padre di Marino Lerna capì subito di che genere fosse quella biondina lì.
Non capì la madre che, vedendosi di faccia un’altra donna che piangeva come lei, non seppe tenersi da domandarle:
– È moglie la signora?
Quella, col suo fazzolettino da bambola sugli occhi, fece subito di no col capo.
– Sorella? – insistette la madre.
Ma a questo punto il marito intervenne col gomito a fare, sotto sotto, un segno alla moglie.
La giovine notò forse quel segno: comprese, a ogni modo, che l’inganno di quella vecchia signora sul suo conto non poteva durare a lungo, e non rispose.
Ma un’altra cosa, anche più triste, comprese, mentre seguitava a piangere. Comprese che lei ora impediva a quella vecchia mamma di piangere, perché quella vecchia mamma, ora, provava onta a confondere le sue lagrime con quelle di lei.
Erano lagrime, per tanto, anche le sue; e lagrime d’una pena più rara assai di quella così comune e naturale d’una mamma.
Non era stata soltanto del Sarri ultimamente, a Roma, la Nini; era stata anche di altri compagni di lui in quel plotone allievi ufficiali; e chi sa, fors’anche di colui, per cui quella vecchia mamma ora piangeva.
A mezzogiorno, era stata a tavola con loro, con dieci di loro. Una tavolata di diavoli. Glien’avevano fatte di tutti i colori, e lei li aveva lasciati fare, perché si stordissero come tanti matti, quei poveri ragazzi in procinto di partire per la guerra. Avevano voluto finanche scoprirle il seno, là, alla vista di tutti, in trattoria, perché era famoso tra loro quel suo piccolo seno, quasi ancora virgineo, dai tuberi eretti; e gliel’avevano voluto battezzare, matti, con lo champagne; e lei li aveva lasciati fare e toccare, baciare, premere, stringere, strappare, perché se lo portassero, sì, vivo lassù, quell’ultimo ricordo della sua carne d’amore; lassù dove forse a uno a uno tutti que’ bei giovani di vent’anni sarebbero morti domani. Aveva tanto riso con loro, e poi, sì, Dio mio… poi, baciandoli per l’ultima volta… Ma le era arrivato da parte del Sarri quel terribile schiaffo sulla guancia destra. E no, no: non se n’era avuta per male…
Via, avrebbe potuto dunque lasciarla piangere senz’offendersene, quella povera vecchia mamma. La lasciava piangere, certo; ma non piangeva più lei, ora, povera vecchia mamma, che n’aveva chi sa quanto bisogno.
E allora, ecco che lei si sforzò di trattener le sue lagrime, per lasciare scorrere quelle della madre. Ma invano. Quanto più si sforzava di trattenerle, tanto più impetuose esse le rompevano dagli occhi, premute anche dalla ragione crudele per cui cercava d’impedirsi lo sfogo. E alla fine, trangosciata, non potendone più, scoprì il volto, proruppe in singhiozzi, gemendo:
– Per carità… per carità… non posso farne a meno, signora… Questo mio pianto… Posso piangere anch’io, signora… Lei, per suo figlio… e io… non per suo figlio propriamente… per uno ch’è partito con lui, e che mi ha anche percossa, perché piangevo… Lei per uno solo… io per tutti… posso per tutti… anche per suo figlio, signora… per tutti… per tutti…
E tornò a nascondersi la faccia, non resistendo al duro cipiglio di quella madre, che stava ora a guardarla col rancore geloso che hanno tutte le mamme per le donne come lei.
Troppo schianto aveva provato la madre alla partenza del figlio. E ora troppo bisogno aveva d’un po’ di tregua e di silenzio. Colei glielo turbava non solo, ma anche gliel’offendeva. Il pensiero che il figliuolo non sarebbe stato esposto al pericolo prima di due giorni le concedeva quella tregua. Ella poteva dunque esser dura; e fu dura. Per fortuna, il tragitto dalla stazione alla città era breve. Appena giunta, scese dall’omnibus senza neanche volgere uno sguardo a quella là.
Il giorno appresso, durante il viaggio di ritorno, alla stazione di Fabriano, la signora Lerna, mentre col marito se ne stava affacciata al finestrino d’una vettura di prima classe, rivide la giovane, che cercava di corsa un posto nel treno. Era in compagnia d’un giovanotto; recava tra le braccia un fascio di fiori, e rideva. La signora Lerna si volse al marito e disse forte, in modo da farglielo sentire:
– Oh, guarda là, quella che piangeva per tutti! La giovane si voltò, senz’ira, senza sdegno.
– Povera mamma buona e stupida, – le disse con quello sguardo. – E non capisci che la vita è così? Jeri ho pianto per uno. Bisogna che oggi rida per quest’altro.
Jeri e oggi – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Jeri e oggi – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
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