Prima pubblicazione: Ariel, anno I, numero 5, 15 gennaio 1898. «Sgorgarono dagli occhi di lei due grosse lagrime che non poterono scorrerle per le guance, e le invetrarono lo sguardo smarrito. Poco dopo le palpebre si richiusero. Ella non diede più altro segno di vita.» |
Incontro – Audio lettura – Legge Giuseppe Tizza
NOTA: A titolo di integrazione e, per così dire, di restauro diamo qui per intero – nella stesura che l’Autore che pubblicò in «Ariel» nel 1898 con titoli diversi dai definitivi – il testo di due novelle: Incontro e Disdetta, comprese rispettivamente nelle raccolte In silenzio (col titolo La veglia) e Il vecchio Dio (col titolo La disdetta di Pitagora); nella presente edizione, volume II, tomo I, pp. 149-169 e volume II, tomo II, pp. 770-780. Una volta di più siamo in debito di gratitudine nei confronti di Alfredo Barbina: cfr. il suo «Ariel». Storia d’una rivista pirandelliana, «Pubblicazioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», n. 7, Roma, Bulzoni, 1984.
4. Incontro – 1898
Scendendo in fretta la scala al bujo Marco Mauri alzò la mano in cui teneva il fiammifero e domandò a un signore che s’affrettava a salire:
– È lei il medico? Venga! Muore… muore, senza un medico…
Quel signore s’arrestò un tratto sul pianerottolo e guardò con le ciglia corrugate il Mauri che singhiozzava e gestiva senza poter più parlare, poi salì dietro a lui.
– Venga… – ripeté il Mauri, pervenuto al pianerottolo del secondo mezzanino, indicando la porta accostata. Entrò innanzi e condusse l’altro, per tre stanzette, alla camera da letto in fondo.
Alla vista della moribonda il nuovo arrivato, che respirava a stento, pallidissimo, ebbe come un singulto nel naso e socchiuse gli occhi, poi si accostò al letto e contemplò la giacente quasi inabissata nel letargo.
– Dottore, dottore… – pregò piano tra le lagrime irrefrenate, il Mauri. – Le dia subito ajuto, mi muore.
Quegli si voltò a guardarlo biecamente, poi sollevò cauto dal seno fasciato della giacente la vescica di ghiaccio.
– È qui… – riprese il Mauri premendosi forte l’indice d’una mano sul petto dalla parte del cuore, per indicare il luogo della ferita. – Qui… e par che la palla sia andata a conficcarsi sotto la scapola…
– Son già quattro giorni? – domandò l’altro, rivolgendosi a un vecchio sacerdote che se ne stava taciturno all’altro canto del letto.
– Sì, oggi è il quarto giorno, – rispose il Mauri, senza dar tempo.
Il vecchio sacerdote si levò da sedere come in preda a un’agitazione improvvisa, e squadrando il nuovo arrivato, che teneva tra le dita il polso deva moribonda, disse:
– Scusi, ma lei, signore…
– Caffeina, ce n’è? – lo interruppe questi.
Il Mauri si recò subito nella stanza attigua e rientrò tosto con una boccetta e una piccola siringa in mano.
– Eccola! – disse. – Stavo quasi per fargliela io una iniezione. Iersera gliene ha fatte due il medico curante.
Restò con la boccetta in mano guardando prima il vecchio sacerdote, il quale, turbatissimo, teneva gli occhi fissi sul nuovo arrivato, poi questi, che s’era nascosta la faccia con ambo le mani.
– È morta? – domandò forte, in un singhiozzo. – E morta? Ditemelo!
– No… no… – gli rispose accorrendo il prete ricordante. – Venga, venga con me… – E gli bisbigliò qualche altra parola nell’orecchio.
– Lui? – fece odiosamente il Mauri additando con l’indice teso il nuovo arrivato e lasciandosi trascinare nell’attigua stanzetta. – Lui? E che è venuto a far qui?
– Un’opera di misericordia… – gli rispose il prete parlando a bassa voce come per indurlo a parlar basso anche lui. – Un’opera di misericordia… Gli ho scritto io, invocando a nome di quella poveretta il suo perdono… Ed è voluto venir egli stesso in persona ad accordarglielo… Io La scongiuro: Ella se ne vada ora, se ne vada… non ha più nulla da far qui…
– No! – disse forte il Mauri abbandonandosi sul canapé e guardando fisso il prete, con occhi da matto. – Io non me ne vado… io rimango qui! – Sentendosi forzar la gola da un altro èmpito di pianto appoggiò i gomiti su i ginocchi e squassando la testa ruppe in nuovi singhiozzi.
Il vecchio sacerdote ritornò premuroso alla camera da letto, e accostandosi a colui, che teneva ancora la faccia nascosta tra le mani:
Grazie, dottor Clerici; Dio la benedirà… Lei salva un’anima col suo atto misericordioso…
– Lei mi ha scritto – disse Giacomo Clerici guardando il prete severamente – che costei moriva pentita e abbandonata… Chi è colui?
– Un disgraziato… – s’affrettò a rispondere il prete. – Non so chi sia, so che tanto io quanto la poverina abbiamo fatto di tutto per tenerlo lontano: non ci è stato possibile… Ma si affidi a me: ella muore pentita e ha chiesto ella stessa per mio mezzo il suo perdono… Già Lei gliel’ha accordato venendo…
Giacomo Clerici, rivolse gli occhi intorbidati dall’interno tumulto su la moribonda; le mirò prima le palpebre livide, serrate; poi la fronte, e il suo sguardo ne sentì quasi il gelo.
Lottavano in lui la imagine che egli aveva serbato della moglie e questa che ora ritrovava tanto mutata e in cos’ miserando stato, lottavano le due immagini, come se quella si ricusasse, tuttavia sdegnosa, al sentimento di pietà che questa gli ispirava, e non volesse distendersi su quel letto, colpita a morte, con quelle palpebre livide, con quella smunta effigie dolorosa.
Soltanto nei capelli le due immagini s’identificavano. Eran ben quelli di Fulvia, ancora, «la nube d’oro», com’egli nei primi anni del matrimonio li aveva chiamati; ma ora, così disciolti e sparsi sul guanciale, quanto rendevan più misero quel volto cangiato! quanto più triste, la fronte solcata nel mezzo da una ruga incisa come una lunga ferita mal rimarginata… Egli vi appuntò gli occhi, e in quel segno, che su la fronte della Fulvia da lui conosciuta sarebbe apparso come uno sfregio, e qui era testimonianza d’un lungo soffrire, lesse la trarotta vita di lei, il triste cammino fatto da quell’anima per cadere nella presente miseria.
Circa undici anni eran trascorsi, da che ella aveva abbandonato la casa maritale: in questo lasso di tempo, sbollito a poco a poco l’odio, egli si era saputo riconoscere per la massima parte cagione se la moglie era fuggita da lui. Ed ora la presenza di lei, che finiva così tristamente, gli dava immagine della vita a cui dopo il tradimento egli si era con vergogna ed orrore sottratto, ritirandosi in campagna e trasformandosi colà man mano fino al punto di poter dare ora a sè stesso la prova generosa e consolante della superiore equità conquistata dal suo spirito, coll’accorrere al letto di quella infelice a riconoscere il danno degli antichi suoi torti e ad accordarle il perdono.
Si chinò su la giacente e la chiamò due volte per nome, invano; fece per abbassarsi vieppiù su lei, poi si rizzò con un sospiro, posando su quella fronte la mano, invece delle labbra. Al contatto del gelo mortale pensò al rimedio non ancora apprestato.
– La boccetta, – disse rivolgendosi al vecchio sacerdote.
Questi si recò subito nella stanza attigua per farsela dare dal Mauri. Lo trovò riverso su la spalliera del canapè col volto affondato tra le braccia.
– Non gliela do! – gli rispose il Mauri di scatto mostrando la faccia stravolta coi capelli e la barba scompigliati.
– Meglio che muoia… senza vederlo… È una crudeltà! una crudeltà!
Ma si lasciò prendere dalla mano la boccetta, e si riversò novamente su la spalliera mormorando: – Vuol finirla, vuol finirla!
Alla puntura dell’ago sul braccio, la moribonda si scosse. Il Clerici terminò l’iniezione, abbassando il capo; poi si mostrò alla moglie.
– Fulvia!
Ella sbarrò gli occhi e fece quasi per rannicchiarsi, sgomenta, nel fondo del letto.
– Fulvia! – chiamò egli di nuovo. – Povera Fulvia…
Sgorgarono dagli occhi di lei due grosse lagrime che non poterono scorrerle per le guance, e le invetrarono lo sguardo smarrito. Poco dopo le palpebre si richiusero. Ella non diede più altro segno di vita.
Dalla stanza attigua si sentiva la voce del Mauri, che ripeteva:
– La ammazza… la ammazza…
Il Clerici, urtato, venne a dirgli:
– Ancora qui Lei?
– Non me ne vado! – gli rispose pronto il Mauri, voltandosi e rimanendo seduto. – Lo so, Lei può scacciarmi… Lei ha tutto il diritto di scacciarmi…
– E La scaccio! – lo interruppe con violenza il Clerici.
– No… M’insulti… mi bastoni… ma mi lasci star qui… Che le faccio io, ora?… Che ombra posso darle?… Mi lasci star qui… Lei non può piangerla, signore… La lasci piangere a me, perchè ella ha bisogno d’esser pianta, più che perdonata, ha bisogno di tante lagrime per quella sua povera esistenza spezzata. E Lei, lo comprendo, non può dargliene… Lei, mi perdoni… dovrebbe uccidere colui che dopo avergliela tolta, ha avuto cuore d’abbandonarla… non deve scacciar me che l’ho raccolta, che l’ho adorata e che per lei ho spezzato anche la mia vita… Per lei, io, Marco Mauri, sappia che ho abbandonato la mia famiglia… mia moglie… i miei figli…
Si levò in piedi con gli occhi stravolti, le braccia alzate e aggiunse: – Veda un pò se è possibile che Lei mi scacci!
Si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani fin quasi a spezzarsi le dita, mentre lagrime silenziose gli scorrevano per la faccia fieramente contratta e andavano a inzuppargli l’ispida barba nera qua e là un po’ brizzolata. A un tratto si arrestò su la soglia della camera da letto.
– Non entri! – gl’intimò il Clerici.
– No… non entro… Mi permetta di sporgere il capo di qua dall’uscio per guardarla soltanto… Non entrerò, come vuol Lei.
Continuò a passeggiare e, passeggiando, a sparlare come in un delirio, gestendo continuamente. Il Clerici sedette presso al tavolino, su cui ardeva la candela, e si prese la testa tra le mani, non sapendo più in che modo regolarsi con colui, e provando quasi uno stordimento di vergogna, che l’avviliva.
– Lei, signore, – parlava intanto il Mauri come tra sè medesimo – non ha nessuna ragione d’esser geloso di me: perchè, lo vede?, ella sta per morire… E lei è venuto a perdonarla perchè ha saputo che ella stava per morire… altrimenti non sarebbe certo venuto… Oh, lo comprendo… Io comprendo. Lei non può esser geloso di me perchè Fulvia, quand’io l’ho amata, non Le apparteneva più… Ora essa, guardi, appartiene più a me… Lei, signore, è stato veramente generoso a venire: ma deve essere generoso anche con me, poiché ella muore, e dinanzi alla morte non c’è più rivalità… E poi Fulvia non si è uccisa per Lei, sa? Si è uccisa per me. Perché è venuta da lei mia moglie a scongiurarla d’abbandonarmi; ed ella, poveretta, lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, mi ha abbandonato, è fuggita, se n’è venuta qui… Appena l’ho saputo, l’ho raggiunta; e allora la disgraziata, dopo avermi più volte respinto, mi si è uccisa… Capisce? Lei, signore, in questo momento prova una bella sodisfazione… oh magnifica!… la sodisfazione della propria generosità… Compatisca chi prova invece lo strazio d’un doppio delitto…
Si fermò innanzi al Clerici e gli tese una mano.
– Sia generoso, mi stringa la mano… mi dica: – Sì, pover’uomo ti voglio degnar di tanto! – Me lo merito, glie lo giuro. Quantunque io, sa? d’ora in poi non possa più metter piede laggiù, nel mio paese. Tutti, tutti mi griderebbero: – Sciagurato! Cinque figliuoli innocenti in mezzo alla strada… – Stia zitto, per carità! Guardi, se mi lanciasse uno sputo e mi dicesse Tieni! lavati la faccia! – debbo cavare il fazzoletto dalla tasca e asciugarmela così, guardi così… Perché mi merito anche questo… Ah, lo so… lo riconosco… Lei si vergogna di stringermi la mano? Ha ragione; ma crede che me ne offenda e me n’importi? Non m’importa di nulla, purché ella mi resti, purchè ella non muoia… Ah. qualunque cosa, qualunque cosa, purché ella non muoia! Lei non l’ha conosciuta, signore, mi perdoni… Lei non ha saputo apprezzarla, se lo lasci dire da me… Di tutto il tesoro di cui lei non ha saputo valersi, eccola qui una prova: io! mi vede? io che per acquistare questo tesoro ho dato la pace di tutta la mia vita… la mia fama d’onest’uomo perduta ormai nel concetto di tutti, anche di Fulvia sì… perché ho mentito con lei: le avevo detto ch’io ero solo, che non avevo legami di sorta… altrimenti ella non avrebbe mai risposto al mio amore… tanto vero che, appena scoperto il mio inganno, è fuggita… e ora, eccola lì… s’è uccisa… Ah lei, signore no, non ha dovuto indovinar neppure che cuore avesse quella donna… Glielo dimostro io. Ho voluto dirle la mia vita, perché conosco la sua: Fulvia stessa me l’ha narrata… senza mai accusarla, cercando anzi di scusarla… incolpando dei torti di Lei le donne, ch’ella odiava tutte profondamente in sé stessa… E quando, pochi giorni or sono, son venuto a raggiungerla qui, ha voluto scusare anche il mio tradimento, la mia menzogna, incolpando sè stessa, certi suoi vezzi involontarii, il malvagio istinto, com’ella lo chiamava, il bisogno cioè che sentono tutte le donne di piacere al marito della propria sorella… E anche quell’altro, quel vigliacco che, dopo averla sedotta, l’ha abbandonata, anche quell’altro ella scusava, mentr’io ne fremevo: diceva d’averlo stancato coi suoi timori… Ecco il concetto ch’ella aveva, signore, di noi uomini che la abbiamo ridotta in quello stato… Vada, vada a inginocchiarsi innanzi al letto di lei… e si faccia perdonare…
Il Clerici aveva conserte le braccia sul tavolino e vi aveva affondato la faccia. Quando da lì a poco, il prete ricordante si fece, sgomento, alla soglia della camera per chiamarlo, alzò la testa, poi balzò in piedi, ma non ebbe animo di accorrere al letto della morta, sentendo già i gridi e il pianto del Mauri accorso innanzi. Poco dopo, al pianto disperato di questo s’unì la preghiera dei defunti recitata dal vecchio sacerdote.
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