««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
VII.
Pepè rimase a riflettere nello studio, passeggiando.
«Vediamo, vediamo…», diceva a se stesso, per chiamare a raccolta le proprie forze e persuadere i nervi agitati a calmarsi. Ma nel cervello, chi sa perché, gli s’accendevano guizzi di pensieri alieni; contraeva tutto il volto. – Per una sciocchezza! – esclamò alla fine, esasperato, alzando un braccio.
Subito, sorpreso dalla sua stessa voce, si guardò attorno, per timore che qualcuno avesse potuto sentirlo, e fece un rapido mulinello col bastone.
Non aveva paura, lui.
Era vero però che si trovava in quel frangente – col rischio anche di lasciarci la pelle… (eh sì, tutto era possibile!) – per una sciocchezza. Poteva bene far le viste di non avere inteso quelle parole del Borrani. Che glien’importava, in fondo? che c’entrava lui? Ci s’era messo quasi per ridere, in quell’avventura, non perché avesse preso sul serio il discorso del Ravì, quella mezza promessa sottintesa, senz’alcun valore. Sì, ma intanto, ecco: ridendone, scherzando, egli era adesso sul punto di battersi per quella donna. E qualche diritto, ora, sul serio cominciava ad acquistarlo su lei… Perbacco, rischiava la vita! Non aveva mai tenuto in mano una sciabola; non sapeva nulla, proprio nulla, di scherma. Si vide addosso il Borrani, alto robusto e impetuoso, con l’arma in pugno, terribile; sentì mancarsi il fiato, e scappò via dallo studio, all’aria aperta, smanioso di veder gente.
Per istrada però, quasi avesse gli occhi abbagliati, non riuscì a distinguer nulla: una gran confusione, come se la gente e le case tremolassero tutte nel sole. Le orecchie gli ronzavano. S’avviò in fretta, istintivamente, verso casa. Entrando per Porta Mazzara nel sobborgo Ràbato, subitamente gli venne al pensiero la madre, e s’intenerì fino alle lagrime.
– Povera mamma!
La trovò, al solito, in giro per le ampie camere con un piumino spennato in una mano, un rosario nell’altra: labbreggiava avemarie e spolverava, accostandosi ora a questo ora a quel vecchio mobile d’antica foggia, come per andargli a confidare quelle sue preghiere.
Della pulizia di casa donna Bettina s’era fatta quasi una fissazione; tanto che, sentendo sonare il campanello della porta, non mancava mai di gridare, anche dalla stanza più intima e remota:
– Nettatevi le scarpe!
Ma, ripulendo di continuo l’antica mobilia, come attendendo alle più umili faccende domestiche, serbava sempre un contegno dignitoso, come se non sapesse quel che faceva. Teneva annodata sul capo un’enorme treccia finta, ma di capelli suoi, già da molto tempo caduti, color nocciuola, in stridente contrasto con quei pochi argentei che le erano rimasti intorno alla fronte. Reggeva questa treccia un pizzo nero, annodato sotto il mento. La palma e il dorso delle mani piccole e bianche, inanellate, erano protetti da un pajo di guanti senza dita; le spalle da uno scialletto di seta nera, ormai inverdito. Celare agli altri e sopportare con la massima dignità la miseria, come ogni altra sventura della vita, era studio costante di donna Bettina, la quale, per esempio, a non pochi sacrifizii s’era costretta perché un pajo d’occhiali legati in oro, le accavalciasse il bel naso aristocratico.
Nel volto, se non più nel corpo, serbava ancora la traccia dell’antica bellezza, che tante e tante fiamme aveva destate nella gioventù mascolina dei suoi tempi. Di lei s’era invaghito anche, perdutamente, ma con poca fortuna, don Diego Alcozèr. Era allora anche ricca, oltre che di nobile casato e così bella! Maritata giovanissima a don Gerlando Alletto, in trent’anni di matrimonio, ne vide però d’ogni colore. Ma tutto ormai ella aveva perdonato al marito defunto, tranne una cosa sola, di cui pareva non si potesse dar pace; che egli cioè la avesse sempre chiamata, per mero capriccio, Sabettona.
– Scempiaggine! – soleva dire. – Perché io sono sempre stata così: bassina e fina fina.
Vedendo entrare il figlio, non interruppe la preghiera né si distolse d’accostarsi alla grande mensola, verso la quale era avviata. Solo quando ebbe passato il piumino sul piano di marmo di quel mobile, si volse a Pepè e fe’ cenno di domandargli, con una mossettina del capo, e socchiudendo un po’ gli occhi, che cosa avesse.
– Nulla, – le rispose Pepè.
Ed ella gli sorrise, senza smettere di pregare e di compire il giro della casa col piumino spennacchiato in mano.
Pepè la seguì con gli occhi, frenando a stento la commozione che lo spingeva ad accorrere verso la madre e a stringersela forte forte al petto.
«Se io venissi a mancarle!», pensò.
Ah, egli sapeva bene che colpo sarebbe stato per la sua santa vecchietta! Sentì rimorso del fastidio che aveva fin allora provato di certe esigenze amorose della madre, la quale voleva perfino che si coricasse ancora, come da ragazzo, nella stessa camera con lei.
«Sì, sì, sempre con te, mammuccia mia!», diss’egli a se stesso. E sentendo di non poter più dominarsi, andò a chiudersi in una camera.
Parecchie volte la madre, a tavola, vedendo che Pepè non mangiava e stava invece a guardarla insistentemente, gli domando:
– Che hai?
– Nulla… nulla… – le rispose sempre, con tenerezza, Pepè.
Allora donna Bettina alzò un dito della mano a metà inguantata, e lo minacciò sorridendo:
– Io lo so! – gli disse. – S’è maritata, è vero?… con quel vecchiaccio stolido…
Pepè arrossì, poi scosse malinconicamente il capo:
– No, – le rispose, – non ci pensavo affatto…
– Bene, bene… – approvò la madre. – Non ci pensare… Non era per te… Poi la troverai, quella che sarà per te. Per ora non vorrai lasciar sola questa tua vecchia mamma, non è vero?
Pepè non seppe trattenersi più: angosciato, prese una mano della madre e se la strinse forte su le labbra:
– No, no, – le mormorò sopra, carezzandola con l’alito e baciandola, – mai, mai, mamma mia!
Si alzò di tavola. Disse che voleva tornar da Filomena per vedere se stesse meglio, e uscì di casa. Donna Bettina, sentendo nominar la figlia, si turbò. Non voleva saper più nulla di lei. Quando s’era guastata col genero, appunto per causa di lei, per il supplizio ch’egli le infliggeva, le aveva ingiunto di lasciare i figli e di venirsene a casa sua. Naturalmente Filomena s’era rifiutata, e allora ella le aveva detto che, finché stava col marito, sarebbe stata come morta per lei. Scurita in viso, seguì con gli occhi il figlio, senza domandargli nulla.
Ciro tornò tardi dalla campagna.
– Son venuti i padrini? – domandò per prima cosa a Pepè, e volle sapere le condizioni del duello. – La sciabola? Avrei preferito la pistola o la spada. Basta. Rimani a cena con noi.
Dopo cena, sapendo che Pepè non era buono neanche a maneggiare un temperino, lo fece ridiscendere con lui nello studio per insegnargli un colpo sicuro.
– Sono un po’ fuori d’esercizio; ma, all’occorrenza… Tieni! – raffibbiò, togliendo da un angolo due frustini e porgendone uno a Pepè. – Fa’ conto che siano sciabole.
Su la scrivania ardeva il lume, che rischiarava a mala pena lo stanzone. Nella casa, tutt’intorno, silenzio di tomba.
Pepè era al colmo dell’avvilimento: quel frustino in mano e la saccenteria spavalda del cognato che l’atteggiava in guardia dandogli colpetti sulle gambe, gli parevano uno scherzo fuori di luogo. Ciro intanto gridava, spazientito, senz’intendere che col suo gridare lo imbalordiva peggio. Si dispose anche lui in guardia di fronte a Pepè e cominciò a insegnargli il colpo infallibile. Dàlli e dàlli, alla fine si riscaldò sul serio, s’imbestialì e, gridando: – Mi rammento dei tempi antichi! – si slanciò in un assalto furibondo contro il povero cognato che, riparandosi la testa con le braccia, si chinò sotto la furia delle fischianti frustinate, gridando ajuto e misericordia.
Accorse col lume in mano la sorella:
– Ajuto! Ajuto! S’ammazzano! Ciro! Pepè!
– Zitta, bestia! Zitta! – le urlò ansante e raggiante il marito, lasciando Pepè che guaiva. – Non vedi che stiamo scherzando?
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