Il turno – Capitolo 5

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Il turno - Capitolo 5

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V.

            – Nossignore, bestia! T’insegno io come si fa in questi casi. Làsciati servire da me.

            Ciro Coppa, tozzo, il petto e le spalle poderosi, enormi, per cui pareva anche più basso di statura, il collo taurino, il volto bruno e fiero, contornato da una corta barba riccia, folta e nerissima, la fronte resa ampia dalla calvizie incipiente, gli occhi grandi, neri, pieni di fuoco, passeggiava per il suo studio d’avvocato con una mano in tasca, nell’altra un frustino che batteva nervosamente su gli stivali da caccia. Le bocche di due grosse pistole apparivano luccicanti su le ànche, oltre la giacca.

            Pepè Alletto era venuto da lui per consiglio. Aveva ricevuto la mattina stessa una lettera del Borrani. Questi non intendeva sfidarlo per l’insulto e lo schiaffo a tradimento della sera avanti, perché – diceva – alla cavalleria suol ricorrere chi ha paura, e lui non voleva nascondersi dietro le finte e le parate, tenendo per burla una sciabola in mano: lo metteva pertanto in guardia: lo avrebbe preso a calci, ovunque lo avesse incontrato, foss’anche in chiesa.

            Pepè Alletto avrebbe voluto che il Coppa si recasse dal Borrani per fargli ritirare, con le buone o con le cattive, questa lettera. Non che avesse paura; non aveva paura di nessuno, lui: ma, ecco, a farla a pugni, come i ragazzacci di strada, si sa! per la sua complessione… così mingherlino… avrebbe avuto la peggio: di fronte a lui, il Borrani era un colosso. E poi, quando mai s’era inteso? calci, pugni, tra gentiluomini…

            – Làsciati servire da me! – ribattè il Coppa, fermandosi in mezzo allo scrittojo e indicando col frustino al cognato la scrivania. – Lì c’è carta, penna e calamajo. Siedi e scrivi. Con una botta di penna te lo riduco io a ragione.

            – Debbo dunque rispondere? – arrischiò timidamente Pepè.

            Ciro batté forte il frustino su la scrivania.

            – Ti dico siedi e scrivi, babbeo! Ti detto io la risposta.

            Pepè si alzò perplesso, come tenuto tra due, e andò a sedere sul seggiolone di cuojo davanti alla scrivania, su cui appoggiò i gomiti, prendendosi la testa tra le mani e sospirando. Poi disse:

            – Scusa… permetti? Vorrei, ecco… vorrei farti notare che la…

            – Che cosa?

            – La mia posizione è alquanto… non saprei… delicata. Perché io, jersera, per dir la verità… per tante ragioni… forse, ecco… non ero bene in me. Non vorrei ora compromettere…

            – Che compromettere! – esclamò il Coppa, spazientito. – L’insulto, l’hai raccolto? Sì: tanto è vero, che gli hai appoggiato uno schiaffo.

            – E basta! – osservò Pepè. – Lui doveva sfidarmi: non l’ha fatto; dunque…

            – Dunque lo farai tu! – concluse Ciro, aprendo le braccia.

            – Io? E perché? – replicò, stupito, Pepè.

            – Perché sei un cretino! perché non capisci nulla! – gli urlò il cognato. – Siedi e scrivi! Adesso vedrai.

            Pepè alzò le spalle, imbalordito; poi domandò con aria desolata:

            – Che debbo mettere in capo alla lettera?

            – Niente, né sciò né passa là! – rispose Ciro rimettendosi a passeggiare, concentrato in sé, e stirandosi con due dita i peli della moschetta. – Comincia così: La vostra lettera… – la vostra lettera…è degna d’una persona virgola… – la vostra lettera è degna d’una persona… che star dovrebbe… scrivi!… coatta… co-at-ta, tutt’una parola.

            – Lo so !

            – …che star dovrebbe coatta nei bagni e nelle galere virgola… anziché… an… ziché, con una sola c, libera e sciolta… tra il consorzio della gente civile punto ammirativo. Hai scritto?

            – Gente civile! scritto.

            – A capo. Ma se voi siete… ma se voi siete un mascalzone virgola… io sono un gentiluomo punto e virgola e non mi lascerò… trascinare da voi ad altro scandalo punto e seguitando. E poiché ho avuto la disgrazia… così! la disgrazia di sporcarmi la mano sul vostro viso virgola spetta a me… spetta a me per riguardo alla mia persona e al mio nome… hai scritto?… di rialzarvi dal fango virgola in cui vorreste appiattarvi punto e seguitando. Vi uso perciò la generosità… ge-ne-ro-si-tà… d’inviarvi due miei rappresentanti… col più ampio mandato virgola… i quali vi restituiranno la sozza lettera virgola… che con vigliacco ardire m’avete spedita stamani. Punto. Hai scritto? Adesso firmala: G. Nob. Alletto, nient’ altro. Hai firmato? Rileggimela.

            Pepè rilesse la lettera, ingegnandosi di dare alle parole la sonora sprezzante espressione del cognato.

            – Benissimo! – approvò questi. – Scritta come Dio comanda. Una busta, e scrivi l’indirizzo. Penserò io a fargliela recapitare insieme con la sua lettera. Non darti pensiero dei padrini: te li trovo subito io. Via i Salvo, via i Garofalo! buffoncelli, che non fanno al caso nostro. Tu va’ su da tua sorella Filomena che, poverina, da due giorni sta peggio del solito. Se il medico non me la guarisce subito, finirà che lo bastono. Basta. Io debbo recarmi al Tribunale; poi giù di corsa in campagna, a tirar gli orecchi a quel boja del gabellotto. Terre morte, perdio, che non ci si ripiglia il giogàtico… Che hai? che corno hai? Paura?… Mi guardi come uno stupido…

            Pepè si scosse, sorpreso da quell’uscita improvvisa, e sbuffò, seccato:

            – Nient’affatto! Paura?… La testa, Ciro! mi sento la testa… non so come, da jersera…

            – Di’ ch’eri ubriaco, figlio mio; ci farai miglior figura! – osservò Ciro con aria di sdegnosa commiserazione. – Va’, va’ su da Filomena. Io torno stasera, diglielo. Tu intanto sta’ su ad aspettare i due amici. Occhio vivo, e senza paura!

            Tolse da un cassetto della scrivania alcune carte e se n’andò, col cappello a cencio buttato su un orecchio e il frustino in mano, al Tribunale.

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