Il turno – Capitolo 4

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Il turno - Capitolo 4

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IV.

            Circa due mesi dopo si celebrarono in casa Ravì le nozze tanto combattute.

            Don Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali; non per avarizia, ma perché veramente era ancor nuova, sebbene di taglio antico, custodita per tanti anni con la canfora e col pepe nella cassapanca di noce stretta e lunga come una bara. Giù per il cortile le grosse papere non lo riconobbero in quell’insolito arnese, e coi lunghi colli protesi lo inseguirono fino al portone strillando come indemoniate.

            «Eh eh, le anime delle defunte mogli!», pensò don Diego, arricciando il naso; e, correndo, se le cacciava dietro con le mani. – Sciò! sciò!

            Marcantonio Ravì aveva largheggiato molto negli inviti, volendo, almeno in apparenza, il consenso popolare. Nessuno gli levava dal capo che la disapprovazione di tutti gli amici e conoscenti non fosse per invidia della fortuna che toccava alla figlia. E aveva preparato un lauto trattamento a maggior dispetto degli invidiosi.

            Don Diego fu molto complimentato. Ma non era vecchio per nulla, e accolse con la sua solita risatina fredda tutti quei complimenti.

            Per Stellina, parata di bianco e di zagare, nella pompa della festa, la commiserazione sorgeva spontanea, di nascosto, dopo le congratulazioni che ciascuno degli invitati le porgeva per convenienza, ma senza troppa effusione, per timore non dovessero sfrenar in lei qualche scoppio di pianto.

            Presto il Ravì cominciò a notare un certo impaccio nella sala. L’aspetto di Stellina raggelava la festa. Invano cercò di promuovere comunque un po’ di brio, incitando ora questo ora quello. Di tutti i convitati solo a Pepè Alletto, venuto coi tre fratelli Salvo (Mauro, Totò e Gasparino), riuscì alla fine a comunicare un po’ di fuoco.

            – Don Pepè, spetta a voi. Mi raccomando.

            Pepè sentì in questa raccomandazione la conferma di quel curioso discorso tenutogli tempo addietro. Sorrise, guardò la mesta sposina che gli parve più bella nello splendido candore dell’abito nuziale, e «Perché no?» disse tra sé. Si mise al pianoforte, sonò, cantò, poi spinse gli altri a ballare e finalmente riuscì a ravvivare il festino. Tutti gliene furono grati, e più di tutti don Marcantonio. Stordito nell’allegria da lui stesso promossa, egli ora guardava don Diego, il vecchio sposo, come per compassione; e gli altri, come per dire: «Compatitelo, poveretto; il vero sposo poi, qua, sarò io».

            E nel chiudersi della festa, di cui fu l’anima, anzi l’eroe, tutti i convitati lo ammirarono tanto e tanto lo lodarono sia per il ballare, sia per come comandava le danze e come sonava il pianoforte, che a un certo punto, irresistibilmente, gli scappò detto:

            – So anche il francese…

            Se non che la tempesta, fin lì stornata, scoppiò a un tratto, inaspettatamente. Don Diego, per mostrarsi galante, volle porgere un bicchierino di rosolio alla sposa. Poverino: fu una cattiva ispirazione: le mani gli tremavano, anche per l’emozione: e così gliene versò qualche gocciolina su la veste, poco poco… Se le donne che le sedevano accanto avessero fatto le viste di non accorgersene, Stellina avrebbe forse saputo contenersi ancora; ma quelle invece, no: tutte premurose le si chinarono attorno coi fazzoletti a pulire, e allora, Stellina, si sa, ruppe in singhiozzi, cadde in una violenta convulsione di nervi.

            Tutti accorsero a lei. Si gridava:

            – Largo! Largo! Slacciatela!

            Due giovanotti la sollevarono su la seggiola e la portarono in un’altra stanza. Don Diego rimase avvilito, col bicchierino in mano, più tremante che mai: buttava il resto sul tappeto, adesso! Invano don Marcantonio si sbracciava a rimetter l’ordine, a tranquillar gl’invitati, ripetendo: – L’emozione, si sa! l’emozione! – Nessuno gli dava retta, tutti erano addolorati della sorte della povera Stellina, i cui pianti e, più penose dei pianti, le risa convulse, giungevano attraverso gli usci chiusi.

            Pepè Alletto, pallido, mortificato, s’era lasciato cadere su una seggiola e, con gli occhi socchiusi, si faceva vento col fazzoletto. Due lagrime, che non erano di vino, gli rigarono il volto fino ai baffi immelanconiti.

            – Che hai, Pepè? – gli domandò Mauro Salvo, vedendolo in quell’atteggiamento.

            Pepè levò il capo e, aprendo forzatamente le labbra a un sorriso vano, rispose con voce malferma:

            – Niente… mi sento… non so…

            – Hai bevuto?

            – Mi ha fatto tanta pena, – disse Pepè, non degnando di rispondere a quella domanda volgare.

            – Hai ragione, sì, – riprese l’amico. – Anche a me, ma andiamo intanto: t’accompagnerò a casa. Vedi? Già se ne vanno tutti…

            Volle prenderlo sotto braccio; Pepè si ritrasse, risentito:

            – Ma no, lasciami, grazie! mi reggo benissimo.

            – L’emozione! Scusate tanto… Grazie dell’onore… L’emozione!… Buona sera, e grazie… Scusate… – diceva a questo e a quello il Ravì, distribuendo saluti, strette di mano e inchini nella saletta.

            Gl’invitati andarono via in silenzio, giù per la scala, come tanti cani bastonati. Era già sonata la mezzanotte; i lampionaj avevano spento i fanali, e la via lunga, deserta, era a mala pena rischiarata dalla luna che pareva corresse dietro un leggero velario di nuvole.

            – Chi sa che tragedia stanotte! – sospiro a voce un po’ alta, appena fuori della porta, Luca Borrani, uno degli invitati.

            Pepè Alletto, nel passargli accanto col Salvo, colse a volo la sconveniente allusione, e gli gridò sul muso:

            – Porco!

            Il Borrani, botta e risposta:

            – Va’ là, Pulcinella! – E uno spintone.

            L’Alletto alzò allora il bastone e giù, su la testa del Borrani; quindi, all’improvviso, uno schiaffo. Ne nacque un parapiglia, un trambusto indiavolato: braccia e bastoni per aria, schiamazzo, strilli di donne, lumi e gente a tutte le finestre delle case vicine, abbajar di cani, e tutte quelle nuvolette che correvano nel cielo.

            – Che è stato? che è stato?

            Giù per la via la folla agitata si allontanava confusamente, vociando. E la gente accorsa coi lumi alle finestre rimase a lungo incuriosita a spiare e a far supposizioni e commenti, finché la folla non si perdette nel bujo, in lontananza.

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