Il turno – Capitolo 10

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Il turno - Capitolo 10

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X.

            Quante spine da quel giorno ebbe il letto per il povero Pepè!

            – Mi dica, dottore, quando potrò alzarmi? Non ne posso più!

            Ma il medico non gli dava retta: si tratteneva da lui pochi minuti, costernato di ben altro: del grave rischio che correva in quel momento la signora Filomena. E il Coppa che non se ne voleva dar per inteso, pretendendo dal medico la guarigione della moglie, come se, avendo sofferto e speso tanto per lei, si credesse in diritto di non perderla! Da una settimana non chiudeva occhio, non prendeva se non qualche raro cibo, lì accanto al letto, forzato dalla stessa moglie, da cui non distraeva lo sguardo un solo minuto. Credeva veramente di lottare così contro la morte, e non gli pareva possibile che questa gli portasse via la moglie da sotto gli occhi mentre egli teneva lì ferma, vigile, agguerrita in difesa di lei la propria volontà. Non ascoltava nessuno, per non allentare d’un attimo quella tensione violenta di tutte le forze del suo essere, a guardia dell’inferma. E se il medico gli diceva qualche cosa:

            – Non so nulla, – gli rispondeva invariabilmente. – Fate voi: il responsabile siete voi. Io sto qua. Non mi lamento di nulla.

            Ma alla fine il medico chiese un consulto e, avuta dai colleghi l’assicurazione d’aver fatto quant’era possibile per l’inferma, volle declinare ogni responsabilità. La signora Filomena era spacciata.

            Ciro Coppa scacciò via il medico svillaneggiandolo; poi, sembrandogli che lì, in quella casa, dove la scienza di fronte alla morte si era data per vinta, la difesa della moglie fosse già compromessa, tratto dall’armadio un abito della moglie:

            – Tieni, subito, vèstiti, – le disse. – Ti guarisco io! Andiamo in campagna: aria aperta, passeggiate… Lo insegnerò io a questi ciarlatani impostori come si salvano i malati! Vuoi che t’ajuti a vestirti? Per carità, Filomena, non avvilirti! non farmi questo tradimento! Tu mi vuoi bene… Io…

            Un nodo di pianto gli strozzò improvvisamente in gola la voce. La moglie aveva chiuso gli occhi con lenta pena alla disperata esortazione di lui: due lagrime le sgorgarono dalle pàlpebre e le rigarono il volto. Gli fe’ cenno d’accostarsi al letto. Ciro accorse angosciato, vibrante dallo sforzo con cui soffocava la violenta commozione. E allora la moribonda gli passò un braccio intorno al collo e con la mano malferma gli carezzò i capelli.

            – Fammi una grazia, – gli mormorò. – Un confessore…

            Ciro, chino sul seno di lei, ruppe in un pianto furibondo, come se il cordoglio, mordendolo, l’avesse arrabbiato.

            – Non hai più fiducia in me, Filomena – ruggì tra i singhiozzi irrompenti. Poi, levandosi scontraffatto, terribile: – E che peccati puoi aver tu su la coscienza, da confidare sotto il suggello della confessione?

            – Peccati, e chi non ne ha, Ciro? – sospirò la moribonda.

            Egli uscì dalla camera con le mani afferrate ai capelli. Ordinò alla serva di chiamare un prete.

            – Vecchio! Vecchio! – le gridò; e scappò via di casa per non assistere a quella confessione.

            Per circa due ore, alla Passeggiata, andò in su e in giù sotto gli alberi, scervellandosi a immaginare i peccati, che la moglie in quel momento confessava al prete.

            Che peccati?… che peccati? Peccati di pensiero, certo… peccati d’intenzione… Chi aveva mai veduto sua moglie?… Cose antiche? peccati antichi!…

            E passeggiava con le mani avvinghiate alle reni, il volto contratto dalla gelosia e gli occhi che schizzavano fiamme. .

            Nella notte, Filomena morì.– Pepè volle a ogni costo alzarsi per vedere un’ultima volta e baciare in fronte la sorella. Ciro si era chiuso nella camera dei figliuoli mandati dalla nonna, e buttato su un lettuccio, mordeva e stracciava i guanciali per non urlare.

            Il giorno dopo ordinò che si apparecchiasse la tavola, e mandò a riprendere i figliuoli dalla nonna. La vecchia serva lo guardò negli occhi, temendo che fosse impazzito.

            – La tavola! – le gridò Ciro di nuovo. – E apparecchia anche il posto per la tua signora.

            Volle che tutti, Pepè e i due figliuoli, sedessero con lui a desinare.

            – Qua comando io! – gridava, battendo i pugni su la tavola, e brum! bicchieri, posate, ballavano. – Qua comando io! Pensate che dispiacere avrebbe Filomena, se sapesse che per causa sua oggi i suoi figliuoli restano digiuni! Mangiamo!

            Fece prima la porzione alla moglie, come al solito. Poi volle dare il buon esempio, mangiando lui per primo; ma, appena portatosi alle labbra il cucchiajo, sbruffava, si cacciava in bocca il tovagliolo e, addentandolo, gridava con voce soffocata:

            – Filomena! Filomena!

            Però, appena i figliuoli sbalorditi si mettevano a strillar con lui: brum! altri pugni su la tavola.

            – Zitti, perdio! Qua comando io! Mangiate! Non fate dispiacere, ragazzi, a vostra madre! Ella è qua, qua che ci assiste… qua che ci vede tutti… qua che soffre, se non vi vede mangiare per una giornata, ragazzi miei… Mangiate! mangiate!

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Il turno – Indice
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Capitolo 2
Capitolo 3
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Capitolo 10
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Capitolo 21
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