«Il turno» è, per dichiarazione dell’autore, gaio. E alla lettura, nonostante il limite macchiettistico, ci si potrà divertire per il suo ritmo effervescente e sulla scena sarà facile la tentazione di recitarlo con un’accentuazione comica e farsesca, da commedia italiana di seconda serie. |
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Sezione Tematiche – Alberto Bertino – Perché leggere «Il turno» di Luigi Pirandello.
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Il turno – Introduzione
Il turno è il secondo romanzo di Pirandello, quello con cui l’autore, dopo l’exploit d’esordio con L’esclusa, cerca la necessaria conferma alla sua vena narrativa. È un romanzo anomalo, tecnicamente un romanzo breve o racconto lungo, come l’autore stesso mostrò piuttosto di considerarlo nell’edizione Treves del 1915, insieme alla novella Lontano in un volume che porta il sottotitolo Novelle di Luigi Pirandello. In quella premessa, sacrificata nelle successive edizioni, scrive che i «due racconti», appartengono alla prima giovinezza, ««l’uno gajo, se non lieto, e triste l’altro». Aggiunge che non li ha ritoccati, per conservarne quello che gli sembra il pregio maggiore, e cioè «la schietta vivacità della rappresentazione, al tutto aliena d’ogni intenzione letteraria», auspicando che in futuro proprio questi due testi, e segnatamente il secondo, possano addirittura apparire «almeno per certi aspetti, assai più degni di considerazione di tanti altri lavori più maturi e ambiziosi».
È così? Oggi in verità quell’accostamento risulta improbabile e dunque non ulteriormente proponibile. Se una delle due opere si intitola Lontano, significa che l’altra, per simmetria e movimento dialettico, potrebbe intitolarsi Vicino?
Vicina, anzi vicinissima è sicuramente la materia trattata dallo scrittore. Nel 1894 ha pubblicato la sua prima raccolta di novelle, Amore senza amori e in quello stesso anno si sposa con Maria Antonietta Portulano, la figlia di un socio del padre, educata dalla famiglia e dalle suore di San Vincenzo in un clima di rigido puritanesimo isolano. L’anno dopo, nel 1895, scrive Il turno, una fantasia sul tema del matrimonio, sui suoi rischi, sull’imprevedibilità dei suoi esiti. Per evitare fraintendimenti, lo dedica alla moglie. Una dedica che il tempo si incaricherà di dimostrare inopportuna e che perciò giudiziosamente sarà lasciata cadere.
«Gajo, se non lieto»? Può darsi. È, nell’eventualità, la gaiezza dubbia delle poesie di Mal giocondo, un ossimoro che non ispira buoni versi ma in compenso documenta un’inquietudine profonda, sentimentale e culturale. Pirandello forse si illude ancora di poter scindere la sfera del privato da quella pubblica, l’esperienza personale dall’ideologia. E per capire che cosa esplicitamente pensi, a questa data, o pressappoco, basta leggere l’articolo Arte e coscienza d’oggi, dove le certezze tradizionali della fede ma anche quelle della filosofia e della scienza vacillano e la coscienza relativistica ormai dilaga nella società contemporanea.
Pirandello scherza su un campo minato, quello della sessualità che obbligatoriamente deve confluire nel matrimonio. Fuori, è illegale e punita; dentro, a quanto pare, infelice. L’esclusa affrontava, nella corda drammatica, questa materia al femminile. Il turno la moltiplica nel raggio degli utenti e la smorza, nei toni della satira e del grottesco.
Un precedente letterario potrebbe essere Malaria di Verga, nelle Novelle rusticane. Qui incontriamo un paesaggio, fisico e metafisico, segnato dalla maledizione del sole e dalla malattia, nella specie della malaria. Protagonista un «Ammazzamogli», epiteto nella forma inappellabile di un destino: ha già quattro esperienze coniugali alle spalle e tira a procurarsi la quinta. Si tratta di un uomo ormai vecchio e grinzoso, ma che aspira a una donna giovane e appetitosa; fa l’oste, e l’osteria, si sa, senza una donna non attira i clienti. Per giunta, nei pressi ci sono la ferrovia e il treno, che se li porta via.
Nelle pagine verghiane manca quasi la socialità, di cui il legame matrimoniale è un primo e insufficiente elemento. Nel Turno pirandelliano entra il dato sociale: entra a passo di balletto, un balletto sovreccitato e depresso, un po’ delirante.
È il delirio, in primo luogo, di chi pretende di ragionare, di organizzare la vita negli schemi rassicuranti della razionalità.
È la posizione di Marcantonio Ravì, un padre che ha fatto i suoi calcoli per garantire l’avvenire della figlia. Il suo calcolo è questo: Stellina non dispone di risorse finanziarie per sposarsi chi vuole. Dovrà dunque pazientare. Sposerà il vecchio Don Diego, che è ricchissimo, l’uomo più ricco del paese. Don Diego, come il personaggio di Malaria, è al quinto matrimonio. Qual è il problema? Ha settantadue anni. Più che un matrimonio, sarà un’adozione. Quanto potrà ancora tirare avanti? Due, tre anni? A quel punto, Stellina rimarrà libera e ricca, e potrà sposarsi il suo principe azzurro, per esempio, se lo desidera, il giovane Pepè Alletto, senza il becco di un quattrino e scialbo ma di rango nobile. D’altra parte, senza il fondamento economico che te ne fai della libertà?
Un bel programma, per il quale il Ravì, come Socrate, ma meno saggio di lui, se ne va in giro per convincere i paesani dell’efficacia della sua strategia. Li sfida: «Ragioniamo!». Per reazione, gli ridono in faccia. A ogni buon conto, ecco un caso, gustosissimo e imperdibile, di gossip, per il villaggio intero, borghesia siciliana e popolino.
A ridergli in faccia, prima di chiunque altro, è Pirandello stesso, il ragionatore che punisce se stesso. Tutto il suo itinerario seguirà questa falsariga: un furore raziocinante, un’ebbrezza dimostrativa, per dimostrare un fallimento che era nelle premesse, sbagliate.
Le cose sono assai più complesse e contraddittorie di come non appaiano nella semplificazione del ragionamento. Marcantonio Ravì opera al fine della felicità di sua figlia, basandosi su un teorema inconsistente, e dunque decretandone l’infelicità. In vista della realizzazione del suo progetto, l’altro, il futuro suocero è niente più che uno spiacevole inconveniente, che però presenta un vantaggio fondamentale. È un vecchiaccio, che non creperà mai abbastanza presto. Il progetto cristiano di Ravì, e della figlia in conseguenza, è che l’altro tolga il disturbo e consenta di essere rapinato, lasciando l’eredità.
Di fronte al calcolo interessato di Marcantonio Ravì, don Diego Alcozèr sarà pur ridicolo, ma è più umano. Sorvoliamo sul passato di quest’uomo al tempo di Ferdinando II, re delle due Sicilie: passato di cavaliere forbito, spadaccino, ballerino. Adesso è una larva, ma è colto, conosce a memoria Catullo e Orazio, che cita in latino. Esattamente, è un epicureo, detesta la solitudine e ama circondarsi di giovani, a costo di esserne deriso. Di notte, gli spiriti delle sue defunte mogli vengono a visitarlo e gli procurano degli incubi. Lui le confonde l’una con l’altra: ha perso il conto. In sostanza, ha paura di morire. Scopriamo che ha una sua filosofia. Anche lui come il suo predecessore Pentagora ne L’esclusa, è convinto di avere, dopo tanti matrimoni!, dei palchi sviluppatissimi di corna sulla testa da poter fare la scalata sino al cielo. Ma ormai non gliene importa nulla. Sa che la vita è una «sciocca fantocciata», che non riserva altro che riso e pianto. E siccome è vecchio e non ha più il tempo di fare tutte e due le cose insieme, preferisce ridere, cedendo agli altri il privilegio di piangere.
Anche questo è un bel programma, e forse più solido dell’altro. Formulato da quello che dovrebbe essere lo zimbello dell’intera comunità, la creatura di cui si aspetta con impazienza la morte, realizziamo che anche lui, dal suo punto di vista, ha le sue ragioni, e le difende bene. Si intravede un tipo fondamentale di Pirandello, di cui saranno variazioni, anche con ampio distanziamento, lo scrivano Ciampa del Berretto a sonagli, e il professore Agostino Toti di Pensaci, Giacomino! Insomma, in questo romanzo, romanzo breve o racconto lungo che sia, si muove già un teatro: lo spirito drammatico di Pirandello fa le sue prove, con energia giovanile.
La società, la società di questa Girgenti cupa e fatiscente, è una gabbia che produce angoscia a tutti quelli che la abitano, nessuno escluso. Ciascuno è proteso al suo interesse materiale, che confligge con quello del prossimo. I padri si affannano per il bene dei figli, decretandone l’infelicità. I figli rispondono con ingratitudine e rancore. La porta chiusa è il simbolo di questa impossibilità di amare, di questa difficoltà di comunicare, determinando l’esclusione e, nei casi estremi, l’autoesclusione. Con la simbologia della figura esclusa, non a caso, Pirandello ha firmato la novità del suo esordio nell’universo del romanzo.
Stellina non vuole uscire dalla sua stanza, per protesta contro il padre prevaricatore. In seguito, quando la stanchezza, i regali e la condivisione del calcolo la indurranno a sposare il vecchio Alcozèr, di nuovo si barricherà nella sua stanza, per orrore del partner. Analogamente, la vecchia madre di Peppe Alletto, donna Bettina, maniaca dell’ordine, dell’igiene e inflessibile nell’orgoglio di casta, ha ripudiato, con eccesso alla siciliana, la figlia che ha deciso, contro la sua volontà, di sposare l’avvocato Ciro Coppa.
Quest’ultimo introduce precocemente l’altra nota dominante nella tastiera pirandelliana. È anche lui un ragionatore, ma estremo, che, a differenza di altri, ci mette anche una violenza, in termini di fisicità. Caricatura dell’uomo forte, è lui che determina il duello, è lui che affronta spavaldo gli avversari, che educa i figli in maniera spartana. È lui – veniamo al punto – che è geloso, in maniera feroce e insensata. Geloso, prima, della moglie, anche se non ne ha alcun motivo. La moglie è rassegnata, morente e sepolta viva. Ma lui è geloso lo stesso. Geloso persino del fatto che, in punto di morte, la donna chieda di confessarsi. Perché ha bisogno di confessarsi? Quali peccati confesserà al prete?
C’è da chiedersi? Pirandello mostra di conoscere e di utilizzare, con un’enfasi che potrebbe suonare anche retorica, questo sentimento e questo meccanismo della gelosia, che invece sarà la patologia conclamata della moglie Maria Antonietta, a questa data ancora fresca sposa. Ha fatto a tempo a rendersi conto di questa vulnerabilità o la spartizione delle responsabilità è più complessa e affonda indivisibile nel tabù di una cultura e di una società?
Un’ossessione trafigge il personaggio, e lo condanna. Dopo la morte annunciata della moglie, il fanatico Ciro Coppa, scavalcando il cognato Pepè Alletto, gli ruba Stellina, che nel frattempo è scappata di casa, abbandonando l’odiato marito.
Il quale ormai, per parte sua, è più che contento. Ha avuto modo di sperimentare che peste sia la donna che incautamente ha sposato, ma subito si lancia, oltre ogni previsione, a progettare un nuovo matrimonio, il sesto! Un record. Si sposerà infatti con la figlia di Carmela Mendola, la vicina di casa più accanita, in difesa della moralità ma in realtà per invidia, nel deprecare a suo tempo la vergogna delle nozze con Stellina.
Naufraga dunque il programma di Marcantonio Ravì, per effetto dell’acredine sociale e della sfortuna. E muore l’uomo che scoppiava di salute, quel Ciro Coppa che è diventato geloso della nuova moglie, sempre senza motivo, e per questa sua debolezza ha voluto castigare se stesso, sino a che un colpo apoplettico, in pieno tribunale, nell’esercizio delle sue funzioni di avvocato e davanti al procuratore del re, gli ha risolto il problema, chiudendo il cerchio.
Naufraga anche la famiglia come istituzione, nella trama di parentele modificate e ridicolizzate, di vedovanze a catena, di ripudi, di ex suoceri, ex generi.
La morale è questa: che l’Ammazzamogli sopravvive, nonostante le attese di morte nutrite nei suoi confronti dalla collettività e in particolare dai concorrenti diretti, mentre muore all’improvviso chi sembrava un leone e prometteva di campare cent’anni.
La vita è imprevedibile e il caso imperversa, a suo piacere. Chi ragiona ha un sosia, che è il pazzo. Ma in questa società afflitta dai pregiudizi, dall’isolamento e dalla violenza sociale, la pazzia è un contagio, un patrimonio collettivo, che ci si rinfaccia a vicenda con recriminazioni.
Il turno è, per dichiarazione dell’autore, gaio. E alla lettura, nonostante il limite macchiettistico, ci si potrà divertire per il suo ritmo effervescente e sulla scena sarà facile la tentazione di recitarlo con un’accentuazione comica e farsesca, da commedia italiana di seconda serie. È successo nel 1981 in un film con la regia di Tonino Cervi e la partecipazione di pur valenti attori quali Turi Ferro, Vittorio Gassman, Laura Antonelli e Paolo Villaggio. Ma il testo pirandelliano è altra cosa e nasconde pieghe segrete. Quella che lo percorre è un’allegria apparente, come, rispettate ovviamente le differenze, possono essere allegre le Operette morali di un Leopardi. Se è umorismo, è umorismo nero.
Non si capisce per che cosa si faccia il turno, in concorrenza. Non per l’amore, che non premia nessuno degli aspiranti. I personaggi, come pupazzi, animati da una vitalità amara, in quest’opera giovanile e minore ma presaga, stanno in attesa davanti alla porta, ma il sospetto è che il turno, ambiguo, per chi suona la campana, sia per qualcos’altro.
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