Il testamento – Capitolo 3: Mi s’avvolga nudo, in un lenzuolo

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Di Pietro Seddio

Nella concezione di Luigi Pirandello esisteva una connessione tra l’uomo e il personaggio e se questo viene a mancare, la stessa esistenza dell’uomo si spoglia completamente per diventare nudo ed allora a cosa servono i vestiti, gli orpelli. E quello che è più tragico il fatto che il povero morto non può ribellarsi, lascerà che mani lo tocchino, lo voltino, lo rivoltino e poi lo vestano così come gli altri hanno deciso.

Il testamento di Luigi Pirandello

Per gentile concessione dell’ Autore

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Il testamento di Luigi Pirandello
Capitolo 3
Mi s’avvolga nudo, in un lenzuolo

Allorquando l’anziana domestica Fana (“Il berretto a sonagli”) intuì la tragedia che si stava consumando nella casa del cavaliere Fiorica, e mentre gli astanti erano presi da una voglia di distruzione (con l’intento contrario), frastornata, incredula, esclamò:

Ah, che tremore per tutte le vene!

Quanti erano attorno alla salma di Pirandello molto probabilmente si trovarono nelle analoghe condizioni psicologiche intenti a continuare a leggere le severe disposizioni volute dal Maestro. Con tutta probabilità, con lungimiranza, evitò che tutti coloro che fossero stati presenti non si lambiccassero il cervello intenti a scegliere come vestire la salma.

Il solito vestito nero!
No, meglio lo smoking indossato in occasione del Premio Nobel.
E se lo si vestisse con la divisa d’Accademico?
Per carità, la odiava a morte. Su quella divisa, ormai sepolta chissà in quale armadio, si era espresso con crudele ironia.

Qualcuno se lo rammenta? I camerati fascisti, per quelle dichiarazioni, gridarono allo scandalo.

Ah, se è per questo…

Un testimone oculare aveva avuto modo di ascoltare il Maestro che parlò a proposito dell’Accademia alla quale era stato “costretto” aderire. Proprio Giulio Caprin questo riportò:

“Buffe, in questo buffo mondo anche le Accademia che si danno tante arie… Gli accade unici in fila nelle loro uniforme gallonate: con quegli alamari sul petto, li vedeva e vedeva se stesso, come una parata di scheletri”. 

Era un grosso enigma quello che dovevano risolvere e fu evidente che i pareri non risultarono concordi. Familiari ed amici intrecciarono una fitta discussione. E a proposito della divisa d’Accademico i più dissero:

Nemmeno a parlarne
Allora bisognerà rispettare le sue volontà.

Nella concezione di Luigi Pirandello esisteva una connessione tra l’uomo e il personaggio e se questo viene a mancare, la stessa esistenza dell’uomo si spoglia completamente per diventare nudo ed allora a cosa servono i vestiti, gli orpelli. E quello che è più tragico il fatto che il povero morto non può ribellarsi, lascerà che mani lo tocchino, lo voltino, lo rivoltino e poi lo vestano così come gli altri hanno deciso. Magari indosserà quel vestito odioso, quella larghe scarpe nere lucide, la cravatta orrenda. Oh no!, quella vestizione è una follia, una offesa al morto, perché prima di essere diventato tale, almeno è certo che è stato un uomo. E’ stato autorevolmente scritto che la morte del personaggio nell’opera del Maestro assume diversi significati e gradazioni. Certamente è morte sociale ed anche vera, fisica; tutte le morti (apparenti, presunte, della ragione) avvengono non si sa quel quale disastro misterioso e dal quale sarà difficile determinarne le cause. Per contro sono morti volute, cercate, anche esaltate, perché tutto venga portato sulla scena. Sviluppando questo importante concetto, Giovanni Macchia, ha così scritto:

Sulla tensione di questa sorpresa, che raggiunge confini addirittura invalidabili, Pirandello conta come un grande artificiere nei razzi luminosi e accecanti che fa esplodere dinanzi ai nostri occhi. Questi personaggi ripetono il tema dell’uscita. Uscita da dove? Dai loro cimiteri, dai manicomi, dalla morte dell’intelletto, dementi irriconoscibili, contesi, o dalle prigioni dei loro cortili chiusi e profondi come pozzi, ove i familiari riescono pure e vederli, di sotto in su, abbagliati dalla luce che cola dall’alto.

Sono pure apparenze (perché morti checontinuano ad essere tali) o spettri mai apparsi fin allora e che, una volta sul palcoscenico, vivi per pochi istanti, non appariranno più, o sono esseri reali, ritornati tra gli altri, ma quasi tutti, apparenze o realtà, sono sconvolti da una furia omicida, da un desiderio di vendetta covata per anni nella loro calma apparente o nella follia nata dal dolore del tradimento, e, silenti o rumorosi, inattivi o sanguinari, quasi tutti ricevono forza e determinazione da quella morte dell’anima da cui essi escono. Ma taluni vedranno soltanto nel delitto l’ultima occasione che possa ripagarli di tutto, dalla vergogna e dalla umiliazione che hanno subito.”  [1]

 [1] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Ed. A. Mondadori, pag. 181 e segg.

Analisi sempre profonde, intellettualmente ineccepibili che tendono, sempre, ad entrare nei meandri del mondo pirandelliano ed è chiaro che, allora, quanti erano accanto alla salma del Maestro, non poterono percepire le sottili intenzioni dell’autore sempre presenti nella sua mente ed allora, trovandosi di fronte a questa difficoltà oggettiva, erano lì, impalati, come tanti “pupazzi” per trovare una soluzione che potesse soddisfare le esigenze del Maestro e per contro non alimentare altre polemiche che per tutta la vita avevano seguito il Maestro.

Almeno ora che lo stesso potesse riposare in pace. Era l’auspicio che purtroppo, per quel destino sempre presente, non poté riposare nemmeno da morto. Come sempre le motivazioni che scaturiscono da quelle scarni, ma profonde, parole sono tante ed allora si cercherà di continuare questa analisi perché è giusto, a questo punto, scavare sempre più a fondo, come lui fece con i suoi personaggi ricordando gli antri delle caverne di quelle miniere siciliane che rimasero un punto di partenza e certamente di arrivo.

Uno dei temi di fondo dell’ispirazione che percorre la vasta produzione di Pirandello dai saggi alle novelle ai romanzi al teatro, è il suo appassionato amore per la verità.

Il problema della verità ricorre frequentemente nella sua opera per trovare spesso soluzioni relativistiche e scettiche, che sembrerebbero contrastanti con tale esigenza. Basti ricordare i titoli di alcuni suoi drammi emblematici al riguardo “Così è se vi pare”, “Ciascuno a suo modo” e il disperato dibattersi di molti suoi personaggi in contraddizioni insolubili.

In realtà la verità a cui Pirandello aspira non è quella dei concetti moralistici o delle convenzioni sociali, che egli ritiene dipendenti dalle diverse situazioni ambientali e individuali e quindi relativa, ma quella ben più autentica che deriva dal riuscire a vivere in maniera conforme alla genuinità della vita: la gioiosa esplosione di vitalità di Liolà che tutti amano per la sua schiettezza e che riesce ad avere la meglio sugli inganni che volevano avvilupparlo; la rinuncia all’identità del “Fu Mattia Pascal” , che ha voluto liberarsi del suo posto di marito e di bibliotecario, liberazione che egli sconta dolorosamente ma che lo lascia convinto che nella società tutti portano delle maschere; la perdita dei suoi beni e del suo stato sociale a cui approda Moscarda in “Uno, nessuno, centomila” dopo aver scoperto di essere visto dagli altri in maniera diversa da come lui si pensava.

Pirandello cerca una vita che sia adesione al divenire di contro a una Forma che la racchiude e che ne costringe e umilia l’impeto creativo: è’ il noto contrasto tra Vita e Forma che già il critico Tilgher notava ancora vivente Pirandello.

Vivere in questo modo è però anche cosa inquietante: in certi momenti la vita ci appare nella sua “nudità orrida”, nel suo immediato non consistere ed è allora che “l’esistenza quotidiana, sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore” ci rivela che la realtà è priva di senso e di scopo “nella sua crudezza insensibile e misteriosa”. Assillati dal senso della morte come “L’uomo dal fiore in bocca”, minato da una crudele malattia, non rimane che dimenticarsi di sé guardando la vita degli altri o abbracciare l’ascetismo come fa Moscarda per aderire al puro ritmo della vita:

“Così soltanto io posso vivere ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare e dentro mi si faccia il vuoto delle vane costruzioni”, 

vivere in ogni cosa fuori, assimilandosi alla realtà sensibile. Oppure si può anche in certi momenti felici abbandonarsi all’estatico stupore che la bellezza della natura suscita, come accade a Ciaula, il reietto puro di cuore, quando esce dalla buca della miniera e si mette piangere commosso alla scoperta della luna, consolante e splendente divinità:

“la luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti , dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte piena del suo stupore”. 

D’altra parte questo rinunciare all’identità non può di fatto avvenire perché la vita esige che tutti abbiano una maschera.

E’ questo che sostiene Ciampa nel “Berretto a sonagli”: ciascuno nella vita deve difendere la propria onorabilità e rispettabilità anche se fittizia. Solo il pazzo può permettersi di gridare la verità in faccia a tutti e può levare la maschera agli altri, perché non si può vivere senza una forma che ci protegga: “Ciascuno nella vita è pupo”. E così è anche per Ersilia in “Vestire gli ignudi”, che rivendica il suo diritto ad avere un “abitino”, nel suo caso quello di fidanzata abbandonata, per assicurarsi una sua dignità di fronte a tutti.

Ma la forma non è ricercata solo perché richiesta dalla vita associata, l’uomo anela ad essa per una ragione esistenziale, perché naturalmente tende all’essere e al consistere. Nella novella “Di sera, un geranio un “lui” in una camera muore e prova la ripugnanza dello svanire:

“del suo svanire nella cosa che resta là per sé , senza più lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera”, 

sparire, ma tentando ancora di consistere almeno per un istante:

“Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra: Anche un fiore che duri poco: ecco questo geranio”: 

un geranio che si accende improvvisamente nel giardino al passare di un’anima che tenta disperatamente di permanere ancora per un istante. Il desiderio di non essere più sottoposti allo scorrere della vita induce Enrico IV, nell’omonimo dramma, a recitare la parte del folle:

“Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti, aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia non cangiano più, non possono più cangiare capite?”.

Il piacere di appartenere alla storia che non può più mutare, di aver conquistato per sempre un’identità.

Ma come conciliare la Vita che è perenne rinnovarsi nel divenire e la Forma, che delimita e conchiude? Pirandello sembra risponder che tale conciliazione può avvenire nel regno umano dell’arte.

Nel dramma “Trovarsi” la protagonista Donata Genzi, attrice, rinuncia all’amore del giovane Ely perché lontano dal teatro sente il peso della monotonia della vita quotidiana che la opprime e che immiserisce la ricchezza dei germi che essa sente in sé.

Tornata al teatro è convinta di aver trovato nell’arte non solo la sua interezza di attrice, ma anche la sua interezza di donna:

“E’ tutta la vita in noi. Vita che si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione”. 

Il tema dell’arte ha sempre affascinato Pirandello che lo ha ripreso anche nel suo ultimo dramma “I giganti della montagna”, rimasto incompiuto, e che vede come protagonista Ilse e i suoi commedianti, che giungono nel paese di Scalogna ove il mago Crotone suscita fantasmi e visioni senza freno di razionalità a differenza di quanto invece fanno gli artisti che mantengono legami con la realtà.

Il problema dell’arte è presente nei saggi “L’umorismo” e “Arte e scienza” ove la creazione artistica è vista come un momento del processo creativo della vita: il soggetto si presenta all’artista senza che questi lo cerchi e cresce se il terreno dell’autore è fecondo.

E’ comunque ne “I sei personaggi in cerca di autore”, il dramma teatrale forse più famoso di Pirandello e forse quello che ci dà la chiave per penetrare nel rapporto tra Vita e Forma, che l’arte si ripropone come luogo per eccellenza privilegiato nell’esperienza umana.

I sei personaggi anelano ad esser forma, ad essere cioè eterni e più reali degli uomini, che hanno una forma sempre parziale e provvisoria, contraddetta dal flusso della vita cieco e inarrestabile. I personaggi dell’arte sono più reali perché la realtà degli uomini cambia sempre, cambia continuamente:

“ma la nostra no, signore!dice il capocomico all’autore Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né essere altra, mai, perché già fissata – così “questa per sempre (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell’accostarsi a noi!”. 

Nell’arte che è opera dello spirito si attua ciò che nel mondo della natura e nella società non può darsi: la realizzazione di una forma autenticamente verace ed insieme indistruttibile.

Ci vuole però un Autore che realizzi il miracolo di un sovra mondo la cui natura sia altra da quella del nostro pensiero e ci conferisca l’eternità a cui aneliamo.

Può sembrare assurdo ma tutte queste considerazioni giustificano le decisioni prese dal Maestro che dopo quella vita, per alcuni versi incomprensibile e complessa, ha sentito il bisogno di andarsene in silenzio svestendosi di ogni orpello sia materiale che spirituale per intraprendere il nuovo viaggio che forse gli avrebbe consentito di incontrare il Sommo che durante la vita aveva in un certo senso snobbato ma al quale più volte aveva rivolto il pensiero, ma era stato un pensiero intimo che nessuno era riuscito a decifrare e che rispecchiava il contenuto di quelle ultime volontà.

Pietro Seddio

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