Attore e personaggio: valenze e pratiche sceniche nel teatro di Pirandello

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Di Laura Montanti

Nella distinzione tra personaggio e autore c’è, comunque, l’implicita dissoluzione del ruolo dell’attore, tradizionalmente utilizzato come intermediario tra personaggio e autore.

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Il teatro di Pirandello
Questa sera si recita a soggetto, rappresentata a Torino e Milano dalla Compagnia Guido Salvini, 1930. Immagine da Teatro del Novecento.it

Attore e personaggio:
valenze e pratiche sceniche nel teatro di Pirandello

da Spiragli

Pirandello si affaccia nel panorama letterario italiano scrivendo poesie, saggi, romanzi e novelle. È sotto l’influenza del Verismo che egli matura i temi propri della sua produzione narrativa. Quegli stessi temi che si incontrano nelle sue novelle, nelle quali, però, si riscontrano anche elementi che assumono già valore simbolico particolare. Si assiste, infatti, in questo periodo, ad un contrasto dei personaggi che generalmente vivono esperienze contraddittorie tra realtà esterna ed interiorità. [1] Le ambientazioni, poi, di certe novelle vengono decisamente rivissute dai personaggi in chiave psicologica, come, ad esempio, in Ciaula scopre la luna, dove il paesaggio esprime un’angoscia esistenziale di valenza universale.

[1] R. Alonge, Pirandello dalla narrativa al teatro, In «Comunità», XXII, 1968.

Parallelamente a questa produzione narrativa, Pirandello comincia a porsi degli interrogativi sull’arte e sulle tecniche di esecuzione dei moduli artistici, narrativi o teatrali che siano. Già nel saggio L’azione parlata, l’autore agrigentino riconosce la specifica differenza tra narrazione e azione scenica. Pirandello, in questa fase, pur intuendo (ma non definendo) una teoria del teatro, è già consapevole dei limiti degli autori di teatro che, a quel tempo, concepivano la scena in termini romantici. Da qui ha origine il suo atteggiamento polemico nei confronti della «letteratura» nel teatro, di cui era caratteristica quella unità di linguaggio tra i vari personaggi che smentiva l’«azione parlata», cioè il dialogo/contrasto tra situazioni, sentimenti e caratteri diversi e persino opposti.

Parlando dell’arte, Pirandello la identifica con la vita: «Non il dramma fa le persone, ma le persone il dramma». [2]

[2] L. Pirandello, L’azione parlata, ne «Il Marzocco», Firenze, 7 maggio 1899; ora In Saggi e scritti vari, Milano, Mondadori, 1960, pagg. 981-984.

Chiara è la polemica nei confronti del teatro di D’Annunzio, costruito come una finzione, laddove i personaggi sono trasportati dall’opera narrativa nella dimensione del teatro, perdendo in questo modo la loro «identità drammatica». Pirandello trova l’identità artistica dei personaggi fuori da ogni retorica precostruita. Successivamente, solo attraverso le esperienze teatrali, svilupperà il concetto della dicotomia personaggio/attore, mostrando, però, di avere scelto definitivamente il teatro come forma d’arte necessaria alla verifica di quella che era stata soltanto un’impostazione teorica. Attraverso la prassi teatrale, avrebbe cercato di risolvere anche il problema dell’interpretazione del dramma da parte degli attori.

Nel saggio del 1908, dal titolo Illustratori, attori e traduttori lo scrittore manifesta la sua disapprovazione nei confronti della figura dell’attore, appunto, il quale opera una mediazione necessaria, ma «illecita», tra autore e pubblico. L’attore viene definito come «una soggezione inovviabile»: «Sempre, purtroppo, tra l’autore drammatico e la sua creatura, nella materialità della rappresentazione, si introduce necessariamente un terzo elemento imprenscindibile: l’attore». [3]

[3] L. Pirandello, Illustratori, attori e traduttori. in «Saggi e scritti vari», op. cit., pagg. 209-214.

L’attore, secondo Pirandello, non potrebbe giudicare veramente l’opera che interpreta e non riuscirebbe, poi, a dare piena vita al suo personaggio; dovrebbe, infatti, spogliarsi della propria individualità e sentire il personaggio come l’autore lo ha sentito, l’autore che, già, di per sé, ha dovuto compiere uno sforzo per immedesimarsi nel personaggio da lui creato. Pirandello, in sostanza, vorrebbe che non l’attore fosse il protagonista del dramma, ma il personaggio variamente interpretato, che, in questo modo, potrebbe vivere di una sua multiforme vita, secondo le diverse situazioni ed «emozioni».

Egli ritornerà sull’argomento nel 1922, nella conferenza dal titolo Teatro nuovo e teatro vecchio, tenuta a Venezia. Citando l’esempio di Goldoni, ribadisce il concetto della perenne attualità del teatro, quando esso si richiami alle mutevolezze e all’umanità perenne della vita. Goldoni, appunto, allontanandosi dai moduli delle maschere della commedia dell’arte, ancorava i personaggi strettamente ai caratteri umani e alle loro vicende, mostrando di fare «teatro nuovo».

Pirandello, dal 1916 in poi, inizia la vera carriera teatrale e abbandona ogni postulato teorico per dedicarsi, quasi unicamente, alla prassi del lavoro scenico e alla composizione drammatica. Le resistenze che in un primo tempo mostrò di avere nei confronti del teatro (al quale «fu tirato per i capelli», come scrisse Diego Fabbri) testimoniano tale atteggiamento critico per una forma d’arte che, pur sempre, aveva variamente rappresentato l’etica del mondo borghese. Poi, invece, riscoprì il teatro come il luogo più adatto per rappresentare la frantumazione dei miti che reggevano la morale borghese.

Egli continuerà, da questo momento, a proporre e riproporre, in modo a volte martellante e ossessivo, la problematica riguardante l’identità/opposizione tra personaggio e attore: identità/opposizione che poi è rimasta irrisolta. A proposito di tale contraddittorio rapporto tra autore ed interpreti, il Nostro introduce, nel saggio sopra citato, l’idea della tecnica come parte vitale del processo creativo. Soltanto con la tecnica gli attori possono avvicinarsi al livello dei personaggi.

Pirandello traspose le sue teorie sulla recitazione della produzione teatrale, specialmente nei Sei personaggi in cerca d’autore, in Ciascuno a suo modo e in Questa sera si recita a soggetto, opere queste che rappresentano la trilogia del «teatro nel teatro». Attraverso le numerose didascalie, poste a commento dei vari intermezzi e atti teatrali, «suggeriva» ai possibili registi (ovvero capocomici. come si chiamavano in quel tempo) il modo concreto migliore per resuscitare il testo scritto e rivitalizzare il dramma che in esso era racchiuso. Se il teatro è dinamismo e contraddizione. Il testo scritto dell’autore (testo che ormai risultava essere un fatto compiuto) non poteva essere riprodotto sulla scena senza quei necessari cambiamenti di natura tecnico-scenica ed interpretativa che avrebbero dovuto consegnare il dramma alla dimensione propria del teatro, alla vita.

Il problema che Pirandello sollevò, rivolgendosi soprattutto al pubblico, fu quello di spezzare le barriere artificiose della comunicazione teatrale (la cosiddetta «quarta parete») per coinvolgere il pubblico e restituire al teatro il senso della rappresentazione, «mettendo in scena» la vita e i suoi multiformi aspetti.

L’attore, così facendo, si viene a trovare in una condizione di inferiorità nei confronti del personaggio, come appare chiaramente in Sei personaggi, finisce con l’essere esso stesso un personaggio, come avviene in Questa sera si recita a soggetto. Così assistiamo ad una vera e propria sopraffazione operata sugli attori, i quali si trovano coinvolti in mezzo a due forze dispotiche: i fantasmi dei personaggi che pretendono di impadronirsi di loro e il regista che li invita ad essere aperti e ricettivi.

È nel «personaggio» che Pirandello mostra di ricercare la chiave di volta del suo sistema di simbolizzazione della vita. Dichiarandosi contrario al concetto di «arte simbolica», intesa come rappresentazione allegorica e quindi «favola che non ha per se stessa alcuna verità né fantastica, né effettiva», Pirandello intende liberare il personaggio dalla struttura realistica, cioè dalla vita = finzione, che è una condanna esistenziale e, perciò, limita resistenza piena del personaggio. [4] In questo modo, cioè, la «vita» rappresenta un ostacolo all’esplicitarsi della «forma del personaggio» come piena e compiuta realizzazione della «fantasia dell’autore».

[4] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in «Maschere Nude», vol. I, Milano, Mondadori, 1958, pagg. 6-7.

È chiaro che siamo di fronte ad un vero e proprio annientamento della funzione teatrale intesa come rappresentazione mimetica del personaggio: egli, lungi dall’essere .manipolato» o reinventato dalle tecniche teatrali dell’attore, è, invece, restituito integralmente alla sua forma artistica, alla fantasia che lo ha creato rendendolo autonomo da ogni azione predeterminata, da ogni «movimento» imposto.

Nella distinzione tra personaggio e autore c’è, comunque, l’implicita dissoluzione del ruolo dell’attore, tradizionalmente utilizzato come intermediario tra personaggio e autore. È, quindi, logico pensare che non c’è più posto per l’attore, in una situazione di questo tipo, se non nel caso in cui esso diventi personaggio, cioè annienti se stesso, il suo ruolo, per dissolversi nel personaggio. Questo è, in fondo, ciò che Pirandello vuole significare quando nella prima scena, gli Attori della Compagnia col Direttore Capocomico, col suggeritore e i macchinisti, vengono allontanati dalla scena, traendosi in disparte. I Sei Personaggi non debbono essere confusi con gli Attori della Compagnia.

Nelle didascalie, introdotte dall’autore nella commedia, si precisa, infatti, che la disposizione degli uni e degli altri dovrà essere indicata «come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace ed idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle… s’interpreterà, così, anche il senso profondo della commedia. I personaggi non dovranno, infatti, apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori». [5]

[5] Ibidem, pag. 29. da “Spiragli”, 1990, n. 1 – Saggi e Ricerche

È interessante, soprattutto, la figura del Capocomico che, secondo Pirandello, non deve essere più considerato come un capo degli attori, ma un intermediario tra l’autore e gli attori stessi: in questo caso, egli tiene a sottolineare l’assoluta fedeltà che richiede la parte, soprattutto per quanto riguarda i suggerimenti didascalici dell’autore. Mentre gli Attori sono, in fondo, degli automi (anche se ambiscono ad interpretare la loro parte, in un certo modo, ma sostanzialmente condizionati dalle loro stesse vocazioni drammatiche, o addirittura dai loro limiti artistici), il Capocomico è l’elemento della coscienza artistica, o quanto meno dell’«intelligenza del testo», in quanto, di fronte alle banali prevaricazioni degli Attori, e alla loro sostanziale inscienza del testo, egli si preoccupa di individuare ciò che è vivo liberandolo da ciò che è ripetitivo e, quindi, privo di ogni vitalità. Se si confrontano, infatti, le didascalie, poste con una certa dovizia nel testo, e le decisioni o i suggerimenti che il Capocomico viene assumendo nella sua opera di «regista» nei confronti degli Attori, si potrà capire come, in realtà, Pirandello giudichi il Capocomico come l’unico capace di «mediare» l’Autore e quindi di fare realizzare il dramma pienamente.

Da ciò emerge chiaramente il fatto che Pirandello ha inteso privilegiare e «rappresentare» la psicologia dei personaggi, a scapito della figura dell’attore. In seguito, però, come ho accennato prima, l’autore agrigentino ripenserà al ruolo dell’attore e lo individuerà nella pratica del suo teatro, ritrovando l’attore, appunto, come personaggio vivo e autonomo (autonomo persino dal suo autore). Solo così l’attore può rientrare con piena legittimità nel suo ruolo: diventa personaggio, cioè inventa se stesso di fronte alle stesse macchinazioni fisse e irripetibili dell’autore.

La cosiddetta trilogia pirandelliana del «teatro nel teatro», già citata, è imperniata su questo concetto dell’attore/personaggio e del teatro/vita. Mi piace, però, a questo punto, soffermarmi un po’ sull’opera teatrale che, più delle altre, nella Trilogia, sottolinea tale interessante scoperta, operata da Pirandello, sul ruolo dell’attore nel suo teatro. Mi riferisco a Questa sera si recita a soggetto, del 1930. La rappresentazione prende origine da un pretesto scenico (l’asserita anonimità dell’autore della commedia), dal quale si sviluppa un dialogo, piuttosto vivace, tra il Capocomico e il pubblico.

Dopo avere precisato il senso vero del «recitare a soggetto» e formulato il concetto di «fissità artistica», il Capocomico introduce l’esile trama dell’opera, nella quale si assiste alla rappresentazione di un sacrificio doloroso e ineluttabile. Si tratta, infatti, del sacrificio e del martirio cui sono condannati i personaggi di Pirandello, i quali hanno tutti bisogno di un luogo chiuso, di prova, in cui essere giudicati e, sovente, massacrati. [6]

[6] G. Macchia, Il personaggio sequestrato, in «Pirandello: l’uomo, lo scrittore, il teatrante», Milano, Mazzotta 1987, pag. 106.

Gli attori, dunque, recitando a soggetto e, verso la fine della rappresentazione, senza più neanche servirsi delle direttive del Capocomico, vivono realmente il dramma dei personaggi da essi interpretati, fino a sentirlo come il proprio dramma, quasi fino a morirne (vedi la Prima Attrice, nel ruolo di Mommina). Attraverso la rappresentazione del tema della gelosia e dell’onore intaccato, la scena finale del dramma, si sviluppa come in un tribunale, perché il vero teatro, come dice Giovanni Macchia, è un tribunale dove si ascolta e poi si giudica.

Pirandello riesce, inoltre, mirabilmente ad eliminare lo «spazio» ed il «luogo» propri del teatro, annientando i ruoli e dilatando lo spazio teatrale fino al coinvolgimento del pubblico («rappresentazione simultanea nel ridotto del teatro e sul palcoscenico»). [7]

[7] L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in «Maschere Nude», vol. I, Intermezzo, Milano, Mondadori, 1958, pagg. 260-261.

L’azione viva e vitale degli attori e del pubblico, che con essi interagisce, contrasta, così, con l’azione formale del teatro. Sembra quasi che Pirandello raccolga l’intuizione shakespeariana per cui «tutto il mondo è teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori». [8]

[8] W.Shakespeare, Il mercante di Venezia, in «Tutte le opere», a cura di Mario Praz, Firenze, Sansoni 1964, pag. 417.

Si assiste, in definitiva, a questa nuova possibilità scenica per l’attore che, da un lato, rappresenta se stesso e, dall’altro, rimuove l’opera d’arte dalla fissità artistica, sciogliendone la forma in movimenti vitali e dandole una vita diversa e varia a seconda della rappresentazione e dell’attore stesso. La vita del teatro è, per Pirandello, la vita stessa dei personaggi rigenerati nell’azione teatrale.

Il vecchio teatro, in Questa sera si recita a soggetto, ne esce a pezzi. La finzione, che era tutto, si frantuma sul volto di un attore che simula la morte, mentre prova una gran voglia di ridere. «Il teatro appare per quello che è: un luogo dove recitare una parte». [9]

[9] I. Farina, Il «foyer e la platea». Tematica e tecnica della finzione in «Questa sera si recita a soggetto», «Rivista italiana di drammaturgia», nn. 15-16, Roma, Istituto del dramma italiano, pagg. 77-78.

Che questa problematica pirandelliana sia, ancora oggi, fertile di sviluppi sul piano tecnico e rappresentativo lo dimostra il fatto che diversi registi del nuovo teatro novecentesco (da Reinhardt a De Lullo, da Castri a Patroni Griffi) hanno ben inteso il suggerimento di Pirandello reinventando la vita del suo teatro, o modificando alcune parti dello stesso testo per scoprirne invenzioni e situazioni nuove, per sottrarre i drammi dall’archivio della memoria, prolungandone l’esistenza attraverso l’esperienza diretta della vita.

Laura Montanti
Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 36-42

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