Il singolare rapporto tra Pirandello e il figlio Stefano

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Di Paolo Mauri

Nell’agosto del 1921 Stefano si sfoga per lettera con la moglie Olinda. Le racconta che il padre ha a teatro qualche difficoltà […] «Figurati come sto combinato io che, a priori e senza possibilità di scampo, sono bollato: uno che è il figlio di Pirandello ma che poi certo non può essere Pirandello!».

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Pirandello e il figlio Stefano
Stefano Pirandello,  (Roma, 14 giugno 1895 – Roma, 5 febbraio 1972). immagine da La Repubblica Palermo.

Il singolare rapporto tra Pirandello e il figlio Stefano

da La Repubblica Archivio

Il nome di Stefano Landi oggi non dice molto: un letterato italiano nato nel 1895 e morto nel ’72, con all’attivo un romanzo, Il muro di casa, vincitore anche di un Premio Viareggio negli anni Trenta e più volte ristampato da Bompiani, e diversi lavori teatrali: I bambini, che sono il suo esordio, L’uccelliera, La casa a due piani… Il nome di Stefano Landi non dice molto se non si aggiunge, come è giusto fare subito, che il suo vero cognome era Pirandello e che nel rapporto e nell’inevitabile confronto con il padre la sua vita letteraria bruciò senza un vero e duraturo successo.

Oggi, in tre volumi (pagg. 480, Bompiani) ci riconsegna Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, con una prefazione dei curatori che tende al riscatto di un personaggio «ingiustamente obliato», ma soprattutto con una monumentale biografia di quasi quattrocento pagine che, attraverso lettere e documenti familiari spesso inediti, ricuce una storia corale, con attori di prim’ordine.

Intanto la famiglia Pirandello: Luigi e la moglie Antonietta, preda, come si sa della follia e ricoverata, dal 1919, in una clinica dove rimase per lunghissimi anni fino alla morte, i figli Stefano, Lietta e Fausto, che sarebbe diventato un pittore di gran livello. A Ugo Ojetti, nel 1914, Luigi scrive: «Già forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritatamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io… Non c’ è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingoiato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia. Non ho una casa solo, un inferno solo; ma due case, due inferni: uno qua, a Roma, l’altro a Girgenti».

Stefano si avvia intanto a diventare un volontario nella prima guerra mondiale: verrà fatto prigioniero e resterà a Mauthausen per lunghissimi anni, soccorso dal padre che gli inviava cibo, libri e persino, una volta, cinquecento sigarette fatte a mano da lui e dalla Mamma. La metafora del prigioniero si addice bene a Stefano: in qualche modo non può uscire dalla sua condizione di figlio e per di più, come accadrà in seguito, con mansioni di segretario e qualche volta addirittura di “negro”. Prigioniero della grandezza di un’ opera che vede nascere e crescere, mentre tenta di muovere i primi passi nella stessa direzione, di calcare, da autore, gli stessi palcoscenici.

Il padre lo segue con trepidazione: è convinto della sua bravura, lo vorrebbe veder trionfare e intanto cerca di procurargli un posto in un giornale, ma non sarà facile. Amendola lo assume al Mondo ma pochi mesi dopo, in seguito ad una riduzione del personale, Stefano è di nuovo a casa. Ojetti, sollecitato per un posto al Corriere della Sera, deve dire a Luigi che ha già troppi redattori letterari e che vorrebbe in realtà sfoltirne il numero. Di fatto Stefano ebbe soprattutto collaborazioni al Tevere diretto da Telesio Interlandi (lo stesso che poi firmò La Razza), alla Tribuna, alla Stampa e ad altri giornali minori: vi pubblicava articoli e novelle, genere che allora andava molto.

In una lettera lo studioso e saggista Arturo Farinelli gli dice: «Ho letto ed ora amo la tua commedia. L’impressione generale è ottima. C’è tanta umanità ne’ tuoi personaggi e tanto senso di dolorosa realtà che il lettore, specialmente se poeta, è conquistato. Per alcune scene – le prime – occorrerà la forbice (…) ma il dramma è creato». Farinelli si riferisce probabilmente ad una delle commedie scritte durante la prigionia, cioè I bambini o L’uccelliera, e coglie benissimo l’impronta di Stefano, scrittore teso a sanare le ferite umane, al contrario del padre che invece vi mette, per così dire, del sale.

Nell’autunno del 1920 Luigi inizia a scrivere i Sei personaggi in cerca d’autore e Stefano viene spesso chiamato ad ascoltare quel che via via va componendo. Questo rapporto di intimità con la creazione paterna lo metterà in grado di scrivere anche al suo posto: accadrà, come dice esplicitamente in un memoriale, per certi soggetti cinematografici che sono sì di Pirandello, ma non sono mai scritti direttamente da lui, e per alcuni articoli per giornali, a cominciare dal Corriere.

Stefano Pirandello con il padre Luigi

Nell’agosto del 1921 Stefano si sfoga per lettera con la moglie Olinda. Le racconta che il padre ha a teatro qualche difficoltà perché il suo teatro è considerato d’eccezione e dunque gli impresari non lo mettono nel repertorio. «Figurati come sto combinato io che, a priori e senza possibilità di scampo, sono bollato: uno che è il figlio di Pirandello ma che poi certo non può essere Pirandello!». Certe volte si ha l’impressione che i ruoli tra i due siano addirittura scambiati: quando Luigi è depresso è Stefano, soccorrevole, a scrivergli che deve riprendersi e pensare solo alla sua arte: «Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita e di noi che siamo le creature?. .. Tu hai sempre dominato te stesso e la tua sorte».

E se il padre, come si è detto, cerca di aiutare il figlio scrivendo agli amici per procurargli collaborazioni o lavoro (Silvio D’Amico, Ojetti e altri ancora), Stefano fa di più: scrive a Mussolini perché spinga il padre, depresso, a lavorare. Siamo nel ’32. Il Duce ha il ruolo di una sorta di re taumaturgo. «Pirandello, da qualche anno, perde interesse alla vita: da un giorno all’altro può cedere alla tentazione di finirla in maniera tragica o, peggio, clamorosa… Bisogna costringerlo di nuovo al lavoro. Oggi in Terra può farlo soltanto: V. E. manifestandoglielo come un desiderio. Conosco mio Padre, so che egli sarebbe sensibilissimo all’attesa di V. E. ».

Nel ’35 esce, come si è detto il romanzo Il muro di casa che gli frutterà un premio Viareggio. In febbraio Luigi aveva scritto a Marta Abba: «Stefano se n’è stato tutto il tempo in casa e senza nemmeno leggere i giornali, a finire il suo romanzo, che, se Dio vuole, è finito». Il 17 agosto del ’36 Stefano sta scrivendo un articolo per la Nacion che apparirà firmato dal padre e si sfoga, per lettera, con la moglie: «Non so come fare! Dovrei forse abbandonare l’idea di rabberciare l’articolo e buttarmi a farne uno tutto di mia invenzione: cosa che ormai mi ripugna tanto: dare della mia sostanza viva al nome letterario di mio Padre. Ma credo che non potrò fare altro».

Luigi muore il 10 dicembre del ’36 in seguito ad una polmonite. Lascia incompiuti I Giganti della Montagna, ma Stefano raccoglie dalle sue labbra la traccia dell’ultimo atto. Tre giorni dopo viene cremato e Stefano racconta a Corrado Alvaro: «Avessi visto, un pugno di cenere. Come se fossero passati mille anni». Stefano in un primo momento accetta di scrivere una biografia del padre, ma poi, qualche giorno dopo, rinuncia: «Non posso, non posso. Mio Padre è tutto fluido in me; se ne scrivo, mi si pietrifica e lo perdo».

Già, la vita che ti diedi… E’ un po’ come se il padre si fosse ripreso la vita data al figlio, che della sua identità, appunto di figlio, non riuscirà mai, neppure dopo, a disfarsi. E anche oggi il suo teatro riappare non firmato da Stefano Landi, che sembra il nome di un personaggio da commedia, ma da Stefano Pirandello.

Paolo Mauri
13 ottobre 2004

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