Il paradosso dell’esistenza: “Il berretto a sonagli”

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Di Stefano Casarino

Un piccolo mondo di ipocrisia e falso perbenismo, una realtà borghese dal precario equilibrio che basterebbe poco per mandare in pezzi: ma quello è l’equilibrio che regge tutta quanta la società di inizio Novecento, in cui “certe cose” si possono anche fare, ma con la massima discrezione ed assolutamente non devono essere rivelate…

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Il berretto a sonagli – Eduardo e Luca De Filippo, 1979

Il paradosso dell’esistenza: “Il berretto a sonagli”

da Il fascino degli intellettuali

16 novembre 2016

Scritto esattamente cent’anni fa, ma rappresentato la prima volta il 27 giugno 1917 a Roma, Il berretto a sonagli è un testo fondamentale per la comprensione della poetica pirandelliana.

Il testo ebbe una genesi particolare: derivato, secondo una prassi abituale per Pirandello, da alcune novelle (per l’esattezza: La verità e Certi obblighi), venne originariamente scritto in siciliano col titolo A birritta cu’ i ciancianeddi e pensato per l’interpretazione del famoso attore Angelo Musco.

Quest’ultimo avrebbe voluto un’opera decisamente comica: ma l’autore preferì concentrarsi sugli aspetti a lui più consoni (i temi della maschera, della pazzia, dell’anticonvenzionalità: insomma, una riflessione lucida e drammatica sul paradosso dell’esistenza umana). L’incomprensione tra chi la scriveva (che Musco era solito chiamare Il Professore) e chi doveva interpretarla portò ad una versione accorciata in siciliano, che si mantenne breve anche poi nella trasposizione in italiano (la commedia è, difatti, di soli due atti), che Pirandello dovette integralmente riscrivere perché aveva perduto il manoscritto originale.

Certo, ancora oggi il pubblico ride parecchio, si diverte, particolarmente nel primo atto. Ma poi… i fatti prendono una piega inaspettata, si comprende che il personaggio che soffre di più, atrocemente, non è – come poteva sembrare ad apertura di sipario – l’offesa Beatrice, che è venuta a conoscenza della relazione adulterina del marito, il Cavaliere Fiorica (personaggio costantemente citato, ma che non compare mai in scena) con la moglie di un suo sottoposto, lo scrivano Ciampa (di cui Pirandello neppure ci dice il nome!), ma proprio quest’ultimo, che di tale relazione è sempre stato al corrente. Ed anche questo è perfettamente pirandelliano: l’incontro/scontro di realtà e apparenza, tra ciò che sembra e ciò che è.

Ciampa incarna perfettamente molti caratteri fondamentali dell’eroe pirandelliano: schiacciato da una condizione di vita umile, consapevole di essere in una condizione di evidente inferiorità sociale (una sorta di parente spirituale di un altro scrivano, il Belluca – altro personaggio citato da Pirandello solo per cognome – della geniale novella Il treno ha fischiato), lacerato tra l’amore per la moglie e il senso dell’onore, tra il sapere e il dissimulare, tra l’essere e il fingere.

Il tema delle “corna” di per sé fa ridere: non si ride più, però, quando si comprende che, se la vicenda viene resa di pubblico dominio, l’unica possibilità che resta a Ciampa è il “delitto d’onore”. Quel delitto d’onore che forse a noi oggi può apparire – ma ne siamo proprio sicuri? – una barbarie di un passato remoto, ma che era precisamente contemplato dall’art. 587 del Codice Penale («Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella» – si noti, veniva punito con una pena detentiva inferiore a quella per l’omicidio volontario per la quale viene prevista dall’art. 575 del Codice Penale come pena la reclusione da 21 anni all’ergastolo), norma poi abolita con la legge 442 del 5 settembre 1981.

Dall’avvertimento del comico (la moglie è l’amante del suo principale, Ciampa è cornuto) al sentimento del comico (Ciampa sa di esserlo, ma ama la moglie, non vuole perderla), per interpretare il dramma secondo le categorie pirandelliane del famoso saggio L’umorismo (1908).

Attorno alle due vittime di adulterio, Beatrice e Ciampa, ruotano però altri personaggi: il fratello di Beatrice, il Signorino Fifì, viziato rampollo di un’importante famiglia, dotato di scarse doti di comprendonio (ed è, infatti, costantemente dileggiato dagli altri), pronto a indebitarsi per il gioco, ma altrettanto pronto a ergersi paladino dell’”onore” familiare; il delegato Spanò, che è lacerato tra il suo dovere di pubblico ufficiale (che gli imporrebbe di accogliere la denuncia di adulterio presentata da Beatrice) e la volontà di non dispiacere a un personaggio così importante come il Cavaliere: una figura, questa del delegato, che ha tutti i tratti del funzionario corrotto, che neppure ha bisogno di denaro per esserlo, gli basta la consapevolezza di tutti i favori che già ha ricevuto e che gli hanno permesso di fare carriera.

E poi, ancora, la mamma di Beatrice, Donna Assunta, pronta anche a sacrificare la figlia, mandandola in manicomio, pur di salvare le apparenze e di mettere a tacere lo scandalo; e la serva Fana, vecchia balia di Beatrice, un’altra figura di sottoposta, che non sa cosa sia giusto fare, se prevenire le intenzioni di Beatrice mettendone al corrente il resto della famiglia o ubbidire alla volontà di quella Signora che ha tenuto in fasce.

Un piccolo mondo di ipocrisia e falso perbenismo, una realtà borghese dal precario equilibrio che basterebbe poco per mandare in pezzi: ma quello è l’equilibrio che regge tutta quanta la società di inizio Novecento, in cui “certe cose” si possono anche fare, ma con la massima discrezione ed assolutamente non devono essere rivelate… a meno che, chi lo faccia, non sia un pazzo, uno che si mette sul capo Il berretto a sonagli. Quando Ciampa proporrà questa salvifica soluzione a Beatrice, gliela presenterà così: «Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!»

Stefano Casarino

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