Il nido – Audio lettura

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Legge Giuseppe Tizza
«L’arte! l’arte!… che ne intendeva Livia? Le cure, i pensieri che essa dava eran così forti, dunque, da vincere e far completamente dimenticare ogni altra cura, ogni altro pensiero, ogni altro affetto? Aveva essa dunque potere di tra­sformar così, d’un subito, radicalmente un uomo?»

Prima pubblicazione: La Tribuna illustrata, rivista mensile, anno VI, n. 11, novembre 1895, con illustrazioni di Serafino Macchiati.

Il nido
Immagine dal Web

Il nido

Voce di Giuseppe Tizza

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Attorno alla testina bionda della gracile e dolce bambina che gli sedeva a fianco, intenta a guardar fuori, per il finestrino della vettura chiusa, Ercole Orgera, assorto, avvolgeva come un ideal nimbo di pensieri e, carezzandole con mano lieve i capelli aurei, morbidissimi, un po’ ricciutelli su la nuca sco­perta, considerava la sua vita infelicissima e l’avvenire di lei, fiorellino inno­cente, nascosto, che sbocciava or ora alla vita!

             Lietta, infastidita un po’ da quel leggiero, continuo brancicamento su la nuca, si volse al padre, e gli disse in un sorrisetto:

             – Ttatti quieto !

             Ercole sorrise al sorriso della bambina, senz’intendere la molestia che le re­cava.

             – Dico, ttatti quieto…

             La vettura andava al passo per il largo serpeggiante viale che conduce al Gianicolo. Erano i primi giorni d’aprile, e l’aria era tepida, soavissima.

             La bambina pareva rassegnata a guardar fuori soltanto per il finestrino della vettura, come se già comprendesse che non poteva uscire in compagnia del babbo altrimenti che così: in vettura chiusa. Questo pensava Ercole, e tal pen­siero, come se fosse nato entro la testina della figlioletta, lo intenerì quasi fino alle lacrime. Ah sì, soltanto così, furtivamente, poteva egli andar fuori con la bambina sua! E fosse ella rimasta piccina sempre così!

             Se la tolse su le ginocchia, se la strinse forte al petto e la baciò più e più volte, dicendole:

             – Figlia mia bella! Tu starai sempre col babbo tuo, è vero? sempre col babbo tuo?

             – Ci… ci… – rispose confusa tra i baci Lietta, pur avvezza a quelle improv­vise espansioni d’affetto del padre. – E la mamma… – aggiunse subito dopo, buona buona.

             – E con la mamma, sì!

             Il matrimonio di Ercole Orgera con la cugina Elena Ferlisi era andato a monte, molti anni a dietro, per futilissimi motivi, per uno sciocco puntiglio della promessa sposa, la quale, poco tempo dopo, come per improvvisa risolu­zione della sua testa un po’ balzana, era andata a nozze con un tal Mari, fio­rentino, già quasi vecchio, e, per giunta, di paraggio inferiore a lei.

             Ercole ne aveva immensamente sofferto; tanto che non era bastato a conso­larlo il favore veramente straordinario con cui era stato accolto in quei giorni il suo secondo romanzo L’incredula.

             Logorato e ben diverso da quel che era prima, s’era tuttavia, alla fine, riavuto dal grande dolore. Tre anni appresso, aveva sposato Livia Arciani.

             Dopo la pubblicazione dell’Incredula non era più apparso di lui né anche un rigo. Con iscuse bizzarre e ingegnose egli aveva cercato di coonestare innanzi agli occhi proprii e a gli altrui lo sciopro e la neghittaggine in cui era caduto. A poco a poco, in seguito, s’era anche allontanato dalla società che prima era solito di frequentare, rintanandosi quasi nell’oblio più profondo di se mede­simo e degli altri.

             Gli amici avevano attribuito la cagione di questo mutamento alla moglie, che fu per ciò da loro soprannominata l’Orsa. Nessuno la aveva mai avvicinata, nessuno aveva mai parlato con lei. Ma parlava ella forse? Pareva, a guardarle specialmente gli occhi, che ella non dovesse aprir mai le labbra, se non per profferir qualche sì o qualche no incerto e sospettoso. Pareva covasse sempre dei lugubri pensieri; ma quali e perché?

             Livia aveva accolto senz’ombra d’entusiasmo la proposta fattale dal padre di sposare Ercole Orgera, che ella non conosceva né di nome né di figura. Il padre le aveva detto che egli era un letterato, autore di romanzi, un uomo colto, insomma, e bene in vista.

             «E perché viene a sposar me?», s’era domandata Livia, che si riconosceva non bella e quasi del tutto incolta. Per la dote? Non certo per la ingenuità o pe’l naturale ingegno: egli forse non gliene aveva punto sospettato… Ma tanto meglio! Voleva dire che ella gliel’avrebbe dimostrato a tempo e a luogo. E aveva detto di sì.

             Gli sponsali erano stati celebrati senza veruna pompa, e, dopo un breve viag­gio di nozze, la nuova coppia aveva preso stanza in Roma.

             A poco a poco la confidenza reciproca s’era attizzata al fuoco amoroso. Livia aveva dovuto convenir con se stessa, che il marito, sì, a trattarlo intimamente, non era come ella lo aveva dapprima immaginato: non le incuteva punto soggezione, dei suoi talenti non faceva mai sfoggio, e aveva innegabilmente dei modi squisitissimi di pensare e di sentire, però forse più riflessi che spontanei. Di quel che pensasse e sentisse per lui, Livia, all’incontro, non gli aveva mai lasciato intraveder nulla. Era così, più che chiusa, cupa di natura, ed avendo subito riconosciuto in sé una forza di volontà di gran lunga superiore a quella del marito, l’aveva messa in atto fin da principio, specialmente nel modo di comportarsi innanzi a lui. Osservava tutto, e taceva, senza mostrarsi mai sospettosa o diffidente; non le sfuggiva una sola parola di lui; lo cingeva insomma, senza tuttavia parere e senza dargli il menomo disagio, di costante vigile e silenzioso assedio.

             Fin dai primi mesi del matrimonio, Ercole s’era lasciato sfuggire la confidenza sul suo passato amore. Livia non aveva domandato altre spiegazioni e notizie su quel fatto e intorno a quella donna, che sapeva lontana, a Firenze. Il modo con cui Ercole le aveva narrato quella storia non aveva fatto nascere in lei alcuna curiosità; né ella, quand’anche, gliene avrebbe dimostrata. Nessun desiderio del pari aveva mai manifestato d’apprendere e conoscer l’artista nel marito. Ercole non s’era più rimesso all’arte. Perché dunque occuparsene? Ella, in fondo, non arrivava a comprendere come si potesse pigliar sul serio la professione di scrivere dei libri.

             Con l’andar del tempo, anche Ercole pareva si fosse messo a pensarla così. S’era stretto in familiarità col suocero campagnuolo, e s’era dato alla caccia e a badare a la villa recata in dote dalla moglie, ai cavalli e finanche a l’alleva­mento del bestiame.

             – Attenderei tanto più volentieri ad allevare un bambino! – aveva egli detto più volte alla moglie scherzosamente. – Ma tu non vuoi darmene…

             Anche Livia allora avrebbe desiderato tanto un figliuolo, che fosse venuto a smuovere un po’ l’acqueità stagnante della loro vita, agitata solo di tanto in tanto, così, fuor fuori, da qualche proposito eccentrico del marito; un lungo viaggio all’estero! andare a stabilirsi in altra città!… Propositi vani, ranocchi che si tuffavano in uno stagno, riuscendo solo a promuover dei zeri placidamente perdentisi alle rive.

             Così, in perfettissima calma e nell’attesa continua e vana, erano già trascorsi otto anni dal loro matrimonio, quando era pervenuta a Ercole, da Firenze, una lettera lacrimevole della cugina Elena Mari. Ella scriveva che le era morto il marito e che era rimasta quasi in miseria: chiedeva aiuto per i suoi due fi­gliuoli che avrebbe voluto collocare in un ospizio d’orfani, a Roma, e in coda alla lunga lettera, piena di particolari su la sua vita coniugale infelice e sul marito defunto, esprimeva profondo, amarissimo rammarico per la sua passata sventatezza e, insieme, la fiducia d’aver già ottenuto perdono da Ercole, soggiungendo infine: «Il danno, come vedi, è stato tutto mio!».

             Ercole aveva letto insieme con Livia quella lettera inaspettata: per la moglie non aveva segreti. Nell’aprir quel misero foglietto, neanche listato a nero, in testa al quale era scritto semplicemente il suo nome seguito da un punto ammirativo, s’era turbato, e aveva guardato la moglie che gli stava accanto, in piedi.

             – Chi può scrivermi così?

             – È semplicissimo: guarda la firma! – gli aveva risposto, con apparente calma, Livia, chinandosi per leggere insieme.

             – Elena…

             – Non ti ricordi più chi sia? Tua cugina…

             – Possibile?…

             Il domani Ercole, per espressa volontà della moglie, aveva spedito quattrocento lire alla vedova Mari, senza un rigo d’accompagnamento.

             Circa tre mesi dopo, s’era rimesso d’improvviso, febbrilmente, a scrivere, a scrivere, a pensare all’arte, come se l’estro gli si fosse a un tratto riacceso, dopo sì lungo letargo. S’era impegnato con un’importante rivista di letteratura e di scienza per un nuovo romanzo, che andava scrivendo affrettatamente, man mano che si pubblicava: due o tre capitoli, un foglio di stampa della grande rivista, ogni quindici giorni – enorme fatica, specie per lui che aveva perduto da tanto tempo l’abitudine dello scrivere! E s’era impegnato nello stesso tempo per altri lavori con altri giornali. Era avvenuta, insomma, quasi un’esplosione di tutte le sue energie, come per nuovo flusso vitale.

             La moglie dapprima n’era rimasta meravigliata, non sapendo come spiegarsi questo repentino cambiamento. Lo vedeva fino a tarda notte lavorare nello scrittoio; e poi, di giorno, imbrigato sempre, assorto, finanche a tavola… Certe notti, venuto a letto da un’ora appena, tornava ad alzarsi.

             – Che fai? – gli domandava ella. – Tu impazzisci.

             – Eh sì, davvero – le rispondeva egli, tentando di sorridere. – Ma se non rie­sco a pigliar sonno!…

             – Scriverai domani…

             – No, è inutile che me ne stia qui a menar smanie… Tu non puoi capir che cosa sia… Sono stato tanto tempo senza concluder nulla… Adesso l’estro m’è tornato…

             L’arte! l’arte!… che ne intendeva Livia? Le cure, i pensieri che essa dava eran così forti, dunque, da vincere e far completamente dimenticare ogni altra cura, ogni altro pensiero, ogni altro affetto? Aveva essa dunque potere di tra­sformar così, d’un subito, radicalmente un uomo? Egli ormai non esisteva quasi più per lei! Ed ella era rimasta sola, esclusa, come abbandonata dietro una porta misteriosa, della quale, profana e ignara come si riconosceva, non avrebbe mai potuto varcar la soglia…

             «Sarà per poco! Si stancherà presto!», pensava intanto per confortarsi.

             Ma Ercole non si stancava, né accennava a stancarsi. Era, sì, divenuto molto pallido in volto e fosco; ma resisteva.

             Alla fine, il prolungato abbandono e l’aria sempre costernata e pensierosa del marito cominciarono a pesare e ad inasprire Livia.

             – Di’ un po’, si guadagna forse qualche cosa ammazzandosi a scrivere come tu fai?

             Ercole s’era turbato a questa domanda e aveva risposto quasi balbettando. Livia ne fu colpita: s’aspettava invece una risposta sdegnosa, poiché sapeva d’aver detto una volgarità, anzi aveva voluto dirla a posta per pungerlo.

             – Scrivo per scrivere, cara. Tu non puoi comprenderlo – diss’egli.

             – No, davvero non lo comprendo!

             – E allora non parlarne!

             Ah, impossibile illudersi ancora! No: egli non aveva più per lei la menoma considerazione; quanto ad amarla non l’aveva forse amata mai; ma anche quel po’ d’affetto, che le aveva qualche volta dimostrato, era adesso svanito!

             A poco a poco il sospetto cominciò a farsi strada nel cuore e nella mente di Livia; e infine ella intravide la cagione a cui doveva attribuire la rinata, quasi vertiginosa attività del marito, le preoccupazioni, le brighe, il pallore di lui, tutto il cangiamento improvviso, insomma, della loro esistenza. Tradita! Troppo tardi: Lietta era già nata.

             Al primo impeto di Livia egli aveva tenuto fronte negando. Ma in tutta la sua persona era impressa evidentemente la menzogna: nelle spalle curve sotto l’accusa, negli occhi foschi, odiosi, nel volto pallidissimo, fin nelle dita irrequiete e nelle labbra convulse.

             Ella lo aveva sorpreso nello scrittojo, e aveva cominciato col domandargli notizia dei due orfani ricoverati all’ospizio.

             – E che ne so io?… Ti prego, lasciami lavorare.

             – E… della madre, non ne sai neanche nulla?

             – Che vuoi che ne sappia?

             – Ah, no? Ne so io qualche cosa, invece… Non fingere, non fingere di scrivere, adesso!

             – Debbo consegnare in giornata queste cartelle… Non ho tempo da badare alle tue domande…

             – Eh già! Se no, come le darai da mangiare, poverina…

             – Livia! Che intendi dire?

             – Ti meravigli? Ma di’ che non è vero!

             – Tu sei pazza! Non ti capisco!

             – Pazza? Ma nega, nega se puoi. E perché tremi? Ella è venuta qui apposta, è ritornata a te, ora che le ha fatto comodo… Negalo!

             – Ti proibisco…

             – Che cosa? Non mi fai paura! Sono una sciocca? Oh, ma tanto sciocca poi no! Di’, era lei, è lei il grande estro che t’è tornato? E glie n’ho offerto io il mezzo! io! Non so però chi sia più vile di voi due!

             – Senti, ti compatisco come pazza; ma vattene! io ho da lavorare…

             – Ma che pudori ha la tua coscienza? Mi rubi il cuore, e poi non osi portarmi via il danaro in casa di colei?

             – Ah perdio, Livia!

             – Oseresti anche mettermi le mani addosso?

             – Esci! esci! subito! via!

             E l’aveva spinta fuori della stanza, chiudendovisi a chiave tutto tremante.

             Livia era partita lo stesso giorno per il suo paese, con l’intenzione di confessar tutto al padre, di finirla per sempre col marito. Ma durante il breve viaggio era ritornata con la mente su la inconsulta risoluzione; aveva riflettuto che così ella avrebbe reso la libertà assoluta al marito, senza vendicarsene; avrebbe forse compromesso il padre, senza scemare di nulla la propria infelicità. No, no! Bisognava agire altrimenti!

             La sera stessa era ritornata a Roma, senza farsi vedere dal padre.

             Aveva atteso invano, tutta la notte, il marito.

             Il domani, una nuova scena, più violenta. Ercole aveva negato un’altra volta. Poi più nulla, fra loro due. S’eran separati di letto.

             Da una vecchia zia di Ercole, sorda ed epilettica, la quale da trent’anni, offrendo lo spettacolo della sua miseria limosinante, andava sbandendo per le case dei conoscenti d’esser stata spogliata dal fratello, nonostante i benefici che spesso riceveva dal nipote (il «letterato», com’ella lo chiamava, deridendolo con la bocca sdentata), Livia aveva appreso che dalla relazione del marito con la Mari era nata una bambina.

             Ella pianse allora in segreto le sue lacrime più amare, sentì allora più atroce che mai lo strazio della gelosia.

             E difatti, lì, adesso, in quelle tre stanzette modeste, in fondo alla via Cola di Rienzo ai Prati, era per Ercole la vera casa, non più questa signorile di via Venti Settembre: qui Livia piangeva di nascosto e si struggeva dentro; lì sorrideva e scherzava Lietta; lì la colpa, irritando, rendeva più appassionato l’antico amore; lì, infine, egli ritrovava l’imagine della sua vita, come sarebbe stata onestamente, senza le due cagioni d’amarissimo rimpianto: il matrimonio d’Elena col Mari, il suo con Livia Arciani. E oltre quest’imagine confortata e sorrisa dalla sua bambina, un altro pensiero ammansava un po’ gli scrupoli di Ercole: che egli, cioè, lavorava e si dava attorno faticosamente per recar l’im­beccata al suo nido nascosto; che egli infine nudriva soltanto di sé il nido suo, la sua bambina.

             E quante sere, nell’ora in cui era solito di rincasare, con la mente assorta nei suoi lavori in corso, non si era egli avviato istintivamente verso la solitaria via dei Prati! Poi, colpito a un tratto dall’aspetto di quella via, e risovvenendosi, era tornato sui propri passi, e rientrato nell’altra casa, come entro a una prigione.

             Elena Mari, benché ormai sui trentacinque anni, serbava ancora nel volto e nella persona l’altera bellezza, di cui in gioventù s’era tanto invaghito il cugino. Ma l’anima sua, in quattordici anni di basse e tristi lotte contro se stessa, nella smaniosa, soffocante angustia dei mezzi, aveva perduto quella fiamma ardentissima, di cui sfolgoravano prima gli occhi suoi e vibravano le sue risa. Per far tacere la voce che era un tempo come la balda guida della sua giovinezza fiorente e capricciosa, e che adesso le rinfacciava continuamente la vergognosa viltà della sua posizione, ella delle miserie durate si faceva come un’arma di difesa contro la propria coscienza, e ne traeva, ne acquisiva quasi un diritto a un po’ di riposo, fosse pure a danno altrui. Tuttavia ella non poteva, come Ercole, vedere e assaporar quasi l’illusione dell’onestà in quella vita che menavano insieme di furto. Lietta, che per Ercole era la figlia, il cui sorriso poteva sedare ogni tempesta, era invece per lei un’esistenza di più, fuori e oltre la famiglia, consistente, a gli occhi suoi, nei due orfani chiusi all’ospizio. E sempre, fissando lo sguardo su la testina bionda di Lietta, il pensiero di Elena volava a quegli altri due figli, bruni e pallidi; e sempre la loro immagine richiamava alla mente quella del padre, che ella aveva in vita molto amareggiato, e il cui ricordo, trattenuto dai rimorsi, non riusciva forse ancora a seppellire.

             Elena provò nell’angoscia uno strano sollievo, allor che apprese dalle labbra tremanti di Ercole, che la moglie di lui aveva scoperto la loro relazione. Le parve d’uscire da un nascondiglio. Adesso l’aspetto e l’umor dell’amante s’accordavano meglio con i suoi sentimenti: Ercole non rideva più come prima, dimentico d’ogni cosa, carezzando la sua bambina.

             Ogni domenica ella si recava, modestamente vestita, a visitare i due orfani all’ospizio, e portava loro qualche regaluccio comprato, non con i denari del­l’amante, ma con quelli dell’esigua pensioncina lasciatale dal marito e messa da lei scrupolosamente da parte.

             In casa faceva tutto da sé: le sue belle mani s’eran pur troppo abituate da un pezzo ai più aspri e ruvidi servizi. Di quando in quando veniva a visitarla, a scroccarle qualche soldo la vecchia zia sorda ed epilettica: la spia veniva di nascosto da Ercole; intendeva sbarcarsela un po’ con la moglie, un po’ con l’amante, che era pur sua nipote. Da qui e da lì portava via sempre qualcosa, e quando non poteva altro, alloccava qualche dolciume alla piccola Lietta, senza farsi scorgere dalla madre.

             – Vieni, siedi qui… – diceva a Elena. – Ti pettino. Dov’è il pettine: Andava, cacciava il naso in tutti i cassetti della stanza, frugando con le mani

             secche tremanti dall’istinto predace, si dava una guardatina allo specchio, e ritornava col pettine.

             – Siedi qui… Brava!… Oh capelli da regina!…

             – Senza smorfie, zia!

             – Come dici? Smorfie? Tu non te li vedi… Sono i capelli di tua madre, buon’anima! Ah se non fossi rimasta così presto sola, chi sa che matrimonio avresti fatto!… Guarda che fiume d’oro… guarda!… Quella lì, tre peli in testa, uno, due e tre…

             – Zitta, zitta, zia!

             – Una zoticona, lasciami dire! Ha danari… dicono! dev’esser vero, altrimenti, sì! perché se l’è presa Ercole? Ma che se ne fa di quei danari? Veste come una poveretta… Dio, Dio! Una vesticciola… Io mi vergognerei, nella mia miseria, di portarla addosso…

             Ercole veniva da Elena ogni giorno, su l’imbrunire; più che per lei, ormai, veniva per la bambina: ella lo sentiva, lo vedeva, e non ne provava alcun rammarico; comprendeva che lui era in condizione peggiore della sua: senza casa, non potendo convivere con la figlia e con lei.

             Parlavano qualche volta della moglie, velatamente. Ma il contegno fermo e sprezzante di Livia non si prestava a lunghi discorsi. Ercole non l’aveva ve­duta piangere, né anche una volta.

             – Che fa? – domandava Elena.

             – Nulla… io non so!… – rispondeva egli, infoscandosi in volto.

             Livia si recava di tanto in tanto, per qualche giorno, dal padre. La prima volta ch’egli la vide partire, circa sei mesi dopo la violenta spiegazione, credette ch’ella fosse andata dal padre per aiuto; e attese tre giorni in orribile so­spensione d’animo qualche disgustosa scena col suocero. La sera del terzo giorno ricevette invece da questo un lieto, cordialissimo invito a raggiunger la moglie, per stare insieme qualche settimana in campagna. A pie della lettera del suocero grossolanamente vergata, Ercole trovò un rigo di sottilissima scrittura, senza firma: «Il babbo non sospetta di nulla. Rispondi che non puoi venire».

             Tanta alterezza, tanta prudenza, dopo l’aspettazione angosciosa d’uno scan­dalo, turbarono, commossero profondamente Ercole. E d’allora in poi, il rimorso cominciò a tarmare più assiduamente la sua passione per Elena, d’al­lora in poi non trovò più quel calor di parole e di baci, con cui quasi voleva nell’amante far rivivere l’imagine morta dell’antica fidanzata vivace e capricciosa. Elena gli apparve allora quasi fuori dai veli del passato, quella che ve­ramente s’era ridotta, e come ella stessa neanche più si curava di non apparire. Sì, l’amore era già spento; l’illusione caduta; ma dal bruco morto era pur nata la farfalla: Lietta. In quelle tre stanzette ormai, per Ercole, non crescevan che spine; sì, ma su queste spine aliava la farfalla, e solamente per essa Ercole avrebbe ancora voluto che vi sorgesse pure, di tanto in tanto, qualche fiore.

             – Che hai, figliuola mia? Chi t’ha fatto piangere? – domandò Ercole una domenica a Lietta, avendola trovata con le lacrime a gli occhi.

             – Mamma piange… – rispose Lietta singhiozzando e lasciandosi asciugar gli occhi dal padre, che se l’era tolta su le ginocchia.

             – Piange? Perché?

             – Ho da parlarti – disse Elena, con gli occhi rossi.

             Ercole rimise a terra la bambina, e seguì l’amante nell’attigua stanza.

             – Ah quel che m’è toccato di subire stamane! – cominciò Elena, passandosi una mano sugli occhi e su la fronte. – Al Collegio s’è scoperta senza dubbio la nostra relazione…

             – Come mai?

             – Stamane, nel corridoio ove ci ricevono, noi madri, nessuna delle conoscenti volle rispondere al mio saluto, anzi… una anzi, la Britti, col suo bambino, si scostò da me e dai miei figliuoli, appena noi sedemmo al nostro solito posto… Tu intendi?… 1 miei ragazzi lo notarono… notarono il mio smarrimento… il tremore di rabbia… Ma che sarà accaduto? Poi, all’uscita, il padre rettore ha fatto le viste di non accorgersi di me…

             – Non ti sei ingannata? – domandò Ercole, tanto per confortarla col dubbio.

             – No, no… anche i miei ragazzi l’hanno notato… Ora io tremo per loro, capisci? Che m’importa di me? Soffro e dico: doveva esser così!… Ma se quei due poveri innocenti ne dovessero pianger loro le conseguenze? Dio, ne impazzirei! Tutt’oggi ho pensato: Che avverrà, quand’essi usciranno dal collegio? Bisogna pure che sappiano, che vedano un giorno o l’altro… E io come farò? Lietta sarà cresciuta anche lei, allora… e penserà… Tu non ci hai riflettuto? No, e lo capisco: per te esiste Lietta soltanto… Che t’importa di quei due? Ma il mio cuore è diviso… E quei due mi sembrano più disgraziati di questa…

             Ancora entrambi ignoravano il peggio; ignoravano che la mattina stessa di quel giorno un giornaletto ricattatore aveva schizzato il suo veleno su l’Ospi­zio degli orfanelli, parlandone come d’una comodità inestimabile per le giovani vedove in cerca di consolazione, e ne aveva portato ad esempio una, i connotati e i particolari della quale corrispondevano perfettamente alla figura e alla vita intima di Elena, aggiungendo che sarebbe stato utilissimo costruire (sempre per la comodità delle suddette madri vedove) un dipartimento annesso all’Ospizio, ove ricoverare i bastardelli.

             La domenica seguente, poi, Elena, terminata la visita, fu invitata a salir nel gabinetto del vecchio padre rettore. Ne uscì dopo circa mezz’ora col volto in fiamme dalla vergogna e dall’ira, esasperata, avvilita, vacillante.

             – Io sono un vecchio e un sacerdote, – le aveva detto il rettore – mi consideri dunque come il suo confessore, e mi permetta di darle qualche consiglio, come ad una penitente.

             Le aveva mostrato il giornaletto fangoso, le aveva detto dello scandalo suscitato, le aveva infine parlato dei figli… Quant’era durato quel supplizio? Ella non aveva saputo risponder sillaba, un sì soltanto alla domanda insistente del vecchio: – Me lo promette? me lo promette? –. Sì; ma che aveva promesso?

             La sera narrò tutto ad Ercole.

             – Chi vuoi schiaffeggiare? Non capisci che mi comprometteresti di più? E ti sporcheresti le mani! No, no, bisogna finirla piuttosto…

             – Finir che cosa? E mia figlia? Pretendi ch’io non la veda più? Cacciano i tuoi figli dal collegio? Ebbene, penserò io a loro! Come? Si vedrà! C’è rimedio a tutto… So questo soltanto, che la nostra bambina non deve soffrirne! Tu sei mia, ormai! questa è la mia casa! qui c’è mia figlia! Tutto il resto non m’importa…

             – Importa a me: son figli miei anche quelli! – esclamò Elena. – Tu devi intendere anche questo…

             – Eh sì! E infatti – rispose Ercole – t’ho detto: provvedere io, in caso, a loro! Ne accetto in tutto e per tutto la responsabilità.

             Elena attese invano quattro, cinque giorni la consueta visita serale dell’a­mante. «Non viene» pensava «per prudenza: fa bene!» Al sesto giorno però apprese dalla vecchia zia che egli era a letto, ammalato.

             – Solo, se vedessi, come un cane; fa pietà!

             Difatti, nei primi giorni, Livia, non credendo alla gravità della malattia, non s’era voluta far vedere dal marito. Che pietà poteva egli ispirarle? Non s’era forse logorato per quell’altra?

             Né s’ingannava su la causa del male: Ercole s’era davvero ammalato per eccesso di lavoro, per quasi assoluta mancanza di riposo e di giusta nutrizione; per la cupa, costante preoccupazione in cui lo teneva la sua vita falsa e smembrata. La proposta di Elena, l’ira contenuta contro l’autore dell’articoletto scandaloso, avevano determinata a un tratto la caduta.

             Al settimo giorno Livia, chiamata dalla cameriera sconvolta da alcuni segni di delirio nell’infermo, era finalmente accorsa, vincendo ogni ripugnanza del­l’amor proprio. Appena entrata in quella camera, ove non metteva piede da tanto tempo, s’arretrò quasi inorridita alla vista del marito. Dio, come s’era ridotto! Il volto di Ercole pareva una maschera di cera: egli teneva gli occhi semichiusi e apriva di tanto in tanto le labbra esangui, tra i baffi e la barba scomposti, a un orribile sorriso, mostrando i denti pari, serrati, un po’ ingialliti: accompagnava il sorriso con un gesto della mano scarna, quasi trasparente, le cui cinque dita brancicavan nel vuoto.

             Al primo terrore seguì nel cuore di Livia un impulso d’odio per la donna che le aveva ridotto in tale stato il marito; e già in quell’odio penetrava la compassione per lui.

             Ercole schiuse gli occhi e fissò la moglie senza riconoscerla. Ella trattenne il respiro, il moto delle palpebre, in penosissima attesa. L’infermo poco dopo ri­chiuse lentamente gli occhi, emettendo un gemito più di stanchezza che di dolore. Sì, in tutti i lineamenti di quel volto disfatto, nelle braccia, nelle mani abbandonate sul letto, più che il dolore, infatti, era impressa la stanchezza, un’estrema stanchezza! Ella sedè in silenzio accanto al letto, presso la testata, per non farsi scorger da lui, temendo non lo avesse a turbare la sua vista. Ve­deva la mano scarna levarsi di tratto in tratto con le cinque dita brancicanti; indovinava il sorriso delle labbra esangui, e sentiva un brivido di sgomento alla schiena. Che significava quel gesto? Perché sorrideva e levava la mano? Alfine Livia credette d’aver trovato la cagione: il suo pensiero volò, senza de­signazione di luogo, a un’altra casa non mai vista da lei, ma ben nota al marito: vi cercò una bambina; ma non poté figurarsela: un’ombra odiosa, indecisa di donna le si parava sempre dinanzi – quell’altra, la madre della bambina! Ah sì, senza dubbio, in quel muto delirio egli credeva di carezzare la testa della sua figlioletta, e sorrideva. Livia sentì allora come uno struggimento non peranche provato, scevro d’odio per il marito, anzi pieno d’un sentimento angoscioso di generosità. Ella era la tradita, la nemica per lui; eppure, ecco, era lì, in quella camera, accanto al letto ove egli giaceva, pronta a prestargli le più diligenti cure, pronta a rendere il bene per tutto il male ricevuto! Gli occhi le si riempirono di lacrime.

             Da quel giorno non abbandonò più la camera dell’infermo. Riempiva di pensieri, di riflessioni le lunghe veglie penose. In certe ore della notte, vinta dalla stanchezza, appoggiava leggermente la guancia sugli stessi cuscini ove s’af­fondava la testa di lui, e la freschezza del lino e la insolita vicinanza le cagionavano, nel silenzio, quasi nel mistero del sonno, un piacere e un turbamento ineffabili.

             No, ella non poteva più vivere senza di lui; non poteva più durarla in quello stato; non era ammissibile per lei che egli, appena guarito, ritornasse a quel­l’altra, ed ella a la stessa vita di prima. No, no! E intanto, come impedirlo? Non aveva egli altrove la sua famiglia? Certe notti non aveva egli mormorato, nell’incoscienza del sonno, il nome di Elena? – Ah, Elena! – Tre volte lo aveva udito sospirar così, piano, come nel passaggio da un sonno all’altro, con la solita espressione di stanchezza infinita. Come strapparlo a colei? Ah, non era più possibile! Presso quella donna era la figlia! Come strappare al padre la sua figliuola?

             Da un pezzo a Livia era balenata un’idea di vendetta, che poi nell’abbatti­mento e nello sconforto aveva riconosciuta disperata, inattuabile. Convinta che il marito non sarebbe mai tornato a lei, finché la figlia fosse rimasta presso l’amante, aveva immaginato di costringerlo a portar via da colei la bambina, e condurla con sé nella sua casa. Ecco, sì, questo sarebbe stato l’u­nico mezzo per riacquistarlo. Ma era possibile che la madre cedesse la figlia, rassegnata a non vederla mai più? Non che sperarlo, era follia soltanto immaginarlo. Nella sua casa, è vero, accanto al padre, la bambina avrebbe avuto ben altro avvenire: Ercole le avrebbe potuto dare il suo nome; ella, Livia, le avrebbe dato la sua dote; sì, sì, e le avrebbe anche voluto bene più che se fosse stata figlia sua; tanto bene da farle dimenticare la vera madre… Sì, mala madre poteva lasciarsi lusingare da quell’avvenire? cedere a un’altra donna, alla moglie dell’amante, la figliuola?

             Queste amare riflessioni rivolgeva ella accanto al letto dell’infermo, quando un giorno venne misteriosamente a visitarla la vecchia zia di Ercole. La mandava Elena smaniosa di aver notizie.

             – Come va, come va, povero Ercole?

             – Sempre a un modo… Un tantino meglio, forse.

             – Ah sì? Bravo! Mi dai una grande consolazione.. Malattia lunga, però, m’immagino, eh? Ma niente pericolo, Dio ne scampi, è vero?

             – No no; almeno i medici lo assicurano. Ha bisogno assoluto di riposo. La vecchia storse la bocca sdentata e dimenò la testa.

             – Riposo… eh sì! È una parola! I medici prescrivono sempre giusto quel che non si può avere: ai poverelli, brodi consumati; a tuo marito riposo! E, dico, scommetto che non sai perché tuo marito s’è ammalato… Ha avuto una scena con quell’altra… Sì! Lo scandalo… Non sai nulla?

             – Nulla – disse Livia. – Che scandalo?

             – Del giornale… Non sai? Hanno stampato un articolo sulle magagne dell’O­spizio degli orfani, ti dico, coi fiocchi!, dove si dicevano vituperii di tutte le madri, e di Elena poi…

             – Ed Ercole? – domandò Livia tra sgomenta e ansiosa.

             – E che volevi che facesse? Quella lì, inviperita, s’è sfogata con lui, naturalmente. Ho saputo tutto dalla serva… Gli ha fatto una scenata. Ercole ha dovuto inghiottire amaro, e zitto! Si sa, c’è di mezzo la piccina… Ma tu confortati intanto, e senti quello che ti dice la tua vecchia zia: non è storia che dura! Già metti che lei pretendeva, per non dar luogo ad altre ciarle, che egli non le andasse più in casa, come dire, non vedesse più la figlia. Perché, lei, capisci? ha quegli altri due poveri innocenti all’Ospizio… lo sai, e ha paura dopo questo fatto non glieli caccino via, seguitando le chiacchiere. Ercole, dal dispiacere, dalla bile, ci s’è ammalato. Quella lì adesso da un canto ha rimorso, s’in­tende; dall’altro, poi, pensa che la sua condizione non è più sostenibile, che insomma bisogna provvedere… chi sa!… finirla, ecco, probabilmente. Lui per ora si oppone; ma quella lì ha da pensare ai due orfanelli, intendi? E questi vedrai, ti salveranno.

             La vecchia ciarliera seguitò a lungo sullo stesso tono; ma Livia non la ascoltava più. Ah dunque il suo progetto non era così fuor dal possibile com’ella s’era costretta a credere? E se quella donna non voleva abbandonar la figlia, poteva pretendere che invece la abbandonasse Ercole? Non avevano tutti e due gli stessi diritti su la bambina? Ah, chi sa! forse Ercole aspettava soltanto un cenno da lei, e sarebbe subito corso a prender la bimba, per cui tanto soffriva! Ed eccolo liberato per sempre da quella donna!

             A poco a poco intanto, mercé le rigorose cure e l’assoluto riposo, Ercole cominciava a migliorare. La prima volta ch’egli s’accorse della presenza di Livia nella camera, chiuse gli occhi come per fuggire la realtà. Durante la malattia s’era sentito circondato di cure amorosissime: le doveva dunque a lei? Lo aveva vegliato lei con tanta abnegazione, lei assistito con tanta tenerezza?

             Un giorno finalmente, sull’alba, mentr’ella se ne stava seduta al capezzale, sentì inaspettatamente la mano del marito cercare e stringer la sua. Levò stupita il capo che teneva appoggiato al guanciale di lui, e lo guardò; egli piangeva con gli occhi chiusi.

             – Ercole, che hai?… – balbettò commossa, non riuscendo neppur lei a frenar le lacrime.

             Egli le strinse più forte la mano, senz’aprir gli occhi. Poi le disse:

             – Grazie… Perdonami.

             – Sì… sì… Non agitarti… Ho compreso tutto.

             – Perdonami – ripeté Ercole.

             – Sì, sì, t’ho già perdonato… Ora sta’ calmo… So quello che desideri. Ercole aprì gli occhi, come per accertarsi sul volto di Livia se aveva inteso

             bene.

             – Tu vuoi vederla, è vero? – aggiunse ella con un fil di voce, chinandosi su lui.

             – Oh, Livia, tu… – sclamò egli, fissandola quasi impaurito.

             – La vorresti qui, è vero? Ebbene, senti: io ci ho pensato… Non darti pena… sono contenta; l’avrai qui, se vuoi, per sempre! Intendi? Qui, qui, in casa nostra… Sì, lo comprendo: ormai non può essere altrimenti. Ma io ne sono contenta. Tua figlia sarà anche mia figlia d’ora in poi; va bene così?… Calmati, calmati; ne riparleremo… Ci ho pensato a lungo, qui, accanto al tuo letto. Poi ti dirò… Adesso, zitto! riposa; io me ne vado…

             La prima volta ch’egli poté reggersi in piedi fu condotto da Livia nella stanza attigua all’antica loro camera da letto.

             – Le collocheremo il lettuccio qui, ti piace? Cosi starà accanto a noi. Andrò a comprarglielo io stessa; un bel lettuccio, vedrai!

             – Già l’ha… – sfuggì ad Ercole.

             – No, uno nuovo, uno nuovo! – disse Livia, fingendo di non accorgersi del turbamento di lui. Poi soggiunse: – Ah, dunque dorme sola?

             – Sì, sola.

             – Desidero tanto di vederla… forse quanto te. Quando andrai a prenderla?

             – Appena potrò. Bisogna che pensi, che veda… Non è facile. Ma ci riuscirò; dev’esser così.

             Nel cuore di Ercole lottavano l’ansia di rivedere la figlia dopo circa due mesi di lontananza, e lo sgomento della scena da sostenere con Elena.

             Era già uscito due volte con Livia in vettura, ma non si sentiva ancora la forza, il coraggio di affrontare l’amante.

             – Andrai oggi? – gli domandava Livia.

             – No, oggi no, andrò dimani. Figurati quanto mi preme! Ma mi sento debole…

             Livia non era meno in ansia di Ercole. Non trovava requie sotto il pensiero che egli dovesse vedere ancora una volta quella donna. Finalmente, dopo una settimana d’esitazione, l’Orgera si decise.

             Salito in vettura, chiuse gli occhi e costrinse il cervello a non pensare. «Dirò quel che mi verrà alle labbra sul momento; inutile preparar le parole!»

             Pervenne in fondo alla via Cola di Rienzo in tale stato di prostrazione, che a stento poté smontare.

             – Aspettami – disse al vetturino.

             Salì penosamente la lunga scala, quasi al buio, sostando spesso per la incalzante agitazione. Su per gli ultimi gradini non aveva più fiato.

             – Ercole! – gridò Elena appena lo vide, posandogli le mani su le spalle. – Dio! come sei pallido! – aggiunse sbigottita.

             – Aspetta, aspetta… – mormorò egli ansimante, lasciandosi cader di peso, quasi in deliquio, su una seggiola.

             – Ma come sei venuto? Mio Dio, che hai avuto? Ah, come t’ho aspettato! Sei stato male assai?… Lo vedo, lo vedo… Il cuore mi parlava. Ah, che giornate, se sapessi! Due mesi! Di’, nessuno ha avuto cura di te?

             – Lietta! Dov’è Lietta? Chiamala.

             – Sì; ma ti senti meglio? Lietta! non vieni a vedere il babbo tuo? Vieni. Sì, è qui, è tornato!

             Lietta accorse con le manine levate e si gettò fra le braccia del padre, che se la strinse al petto lungamente, baciandola senza fine.

             – T’ha aspettato, caro angelo mio! ogni giorno. Ogni giorno a domandarmi: «E babbo?». «Domani, verrà domani.» «Non viene?» «Verrà, sì, non dubitare.»

             – Figlia mia cara, mi vedi? son qui, son venuto!

             Lietta guardava stupita il padre come se non lo riconoscesse più, così can­giato, pallido, smunto.

             – Vedi che il babbo tuo è stato malato? – le disse Elena. – Malato, povero babbo! Non sai dirgli nulla? Fagli su una carezza.

             Lietta alzò una manina al collo del padre e lo baciò su la guancia. Ercole se la strinse di nuovo al petto,

             – Vuoi venire col babbo tuo, adesso? Ti porterò in vettura; vuoi venire? Sempre con me, sempre!

             – Parlami, raccontami – gli disse Elena. – Che hai avuto? Non mi dici nulla?

             – Ora ti dirò… – le rispose Ercole, ridiventando ad un tratto pallido come quand’era entrato, e più fosco.

             – Che hai da dirmi? – domandò ella, colpita dall’accento e dall’aspetto di lui. – Conduco di là Lietta?

             – Sì, è meglio.

             Uscita la bambina, Elena chiuse l’uscio e, rivolgendosi all’Orgera, con le ciglia aggrottate, gli disse:

             – Sai, ho capito! Ti sei rappacificato con tua moglie?…

             – Sì, – rispose Ercole guardandola negli occhi.

             – Ah, e sei venuto a dirmelo? Bravo! Ti ha perdonato? Lo sospettavo… Ma a che patto? E perché sei dunque venuto? Non dovremo più vederci? Rispondi.

             – No – disse Ercole cupo, e pur con un sorriso impercettibile, nervoso: – Come vuoi che…

             – E sei venuto per dirmi questo? Dopo tanta attesa? Come!… Ti sei imbecillito! Abbandonarmi così? E Lietta? Che ne farai di Lietta?

             – Lietta verrà con me.

             – Che dici? Sei pazzo? Verrà con te? dove?

             – Con me, in casa mia…

             – In quale casa? In casa di tua moglie! Ah vi siete accordati a questo patto? su la figlia mia? E tu, tu hai potuto…? Hai avuto il coraggio di venir da me per strapparmi la figliuola? E hai potuto credere un momento che io te la dessi? Vattene, vattene! Non posso più vederti qui; vattene, o ti scaccio!

             – Chi scacci? – gridò rabbiosamente Ercole: – Come puoi tu…? Ma già, è inutile risponderti… Vuoi ragionare? Non vuoi. M’insulti… Dammi Lietta e me ne vado.

             – Sei pazzo? Ah tu non me la strapperai; avrò più forza di te! È figlia mia, com’è figlia tua, capisci?

             – Non con la forza, con la ragione – incalzò Ercole. – Vuoi ragionare? Lasciami dire, ascoltami…

             – Non sento ragioni! Ragioni d’un pazzo! Vieni a dirmi: «Ti tolgo la figlia, e vuoi che ragioni con te! Ma, Dio mio, è giusto, è onesto?

             – No, senti… Va bene… Piano! Ti sembro pazzo… ma lasciami dire… rispondimi… Ti dirò io quel che è giusto e quel che è onesto. Lascia star Dio! Di Lietta tu che ne farai? Perché parli? Pel suo bene? No! Tu parli per odio contro una donna che noi abbiamo insieme ingannata, tradita… E ti par giusto, ti pare onesto?

             – Ma che dici? Non vuoi intendermi! Io parlo per mia figlia che mi vorreste portar via… È giusto, è onesto?

             – E che pretendi? Pretendi che non la veda più io invece?

             – Ma no, ma chi te lo vieta? È qui; vieni e la vedrai. Te lo vieta tua moglie, non io.

             – Tu, tu me lo vieti ora; perché non è più possibile ch’io seguiti a venir qui.

             – Ed è colpa mia? Vuoi startene con tua moglie? Ebbene, io non ti chiedo di meglio: tu con lei, io con mia figlia!

             – Sì! E che ne farai?

             – Quel che Dio vorrà.

             – Lascia star Dio, ti dico! – gridò Ercole. – Qui si tratta dell’avvenire di mia figlia! Non lasciarti vincere dall’egoismo, dal tuo odio… Parliamo della bambina; di lei dobbiamo parlare.

             – Ma come puoi pensare che Lietta viva senza di me? Io l’ho messa al mondo, le ho dato il mio latte, la mia vita, l’ho cresciuta, l’ho tenuta sempre con me! Ah speri che mi dimentichi? Ma è possibile? Deve dimenticar sua madre? Sperate questo tutti e due? Quell’altra deve carezzare la mia bambina, insegnarle a scordar sua madre?…

             Elena ruppe in singhiozzi strazianti, coprendosi il volto con le mani.

             – No, non questo – disse Ercole cupamente. – Comprendo il tuo dolore; il sacrifizio è enorme; ma se tu ami Lietta più di te stessa, devi compierlo. Non pensare a me, né all’altra; pensa a Lietta soltanto, al suo avvenire. Io son venuto qui per parlare al tuo cuore.

             – Dici, per strapparmelo! – esclamò Elena singhiozzando disperatamente. –… al tuo cuore di madre senza egoismo… Non mi faccio forte di nessuna

             ragione, di nessun diritto. Ti dico: pensa solo a lei. Tu stessa, l’ultima volta, mi hai costretto a considerare la nostra posizione… la tua per quei due orfani… Non è vero? Ebbene, rifletti, considera tu adesso: che vuoi fare?

             Elena rispose con lamenti rotti, con parole spezzate dai singulti. Ercole, in crescente commozione, si sforzò d’intendere quel che ella diceva piangendo; poi ripeté:

             – Che vuoi fare? Per forza la soluzione doveva esser così crudele. Tu lo avevi preveduto prima di me. Per forza! E solo a patto d’un sacrifizio, o mio, o tuo… Vuoi che mi sacrifichi io? Oh con tutto il cuore ti risparmierei; ma che gioverebbe a Lietta il mio sacrifizio? Nulla. Ragiona e vedi. Sarebbe anzi tutto a suo danno; non puoi negarlo. Pensa che tua figlia avrà un nome, uscirà dal­l’ombra della nostra colpa, avrà un avvenire che tu non potresti mai darle. Tu devi pensare agli altri due. Fallo per loro. Essi resteranno a te; io che farei senza Lietta?

             – E che farò io? – domandò Elena strozzata dall’angoscia, mostrando il volto inondato di lacrime. – Che farò io? Non vederla più! È possibile? Ora, dopo tre anni! Come potrò più vivere senza di lei? Che crudeltà inaudita, Dio mio! E uccidimi piuttosto! Parlarmi del bene di mia figlia, a costo del sacrifizio mio! Questa è la maggior crudeltà! Così scusi l’atto mostruoso che sei venuto a compiere! Che posso dirti? Prenditi la figlia, strappamela dalle braccia per non farmela vedere mai più? È possibile?

             Ercole rimase a capo chino, in silenzio, scosso, quasi vinto, e non per tanto in attesa, mentre Elena piangeva, piangeva. Alla fine ella soggiunse:

             – Doveva finire, sì, lo so; ma finire così? Come avrei potuto immaginarmelo?

             – E come, allora, Elena? – domandò egli con accento sommesso, dolce, pieno di compassione.

             Elena non rispose; si contorse le mani, scosse a lungo la testa, quasi con rabbia di dolore, perdutamente, e scoppiò in pianto più dirotto.

             Ercole si alzò sconvolto, straziato: le si appressò. Voleva dirle qualcosa, ma non poté; si portò una mano a gli occhi per trattenere le lacrime irrompenti.

             Udirono in quella picchiare all’uscio, e la voce di Lietta:

             – Api, babbo! Non mi potti in vettura?

             Elena balzò in piedi con un grido: aprì l’uscio e si tolse la bambina nelle braccia.

             – Figlia! Figlia mia!…

             Lietta si lasciò stringere stupita, afflitta, guardando il padre che le sorrideva piangendo anche lui.

             – Vuoi andare col babbo? – le domandò Elena senza scioglierla dall’abbrac­cio.

             – Ci – fece Lietta.

             – Per sempre col babbo?

             – Elena! – chiamò l’Orgera per impedire la risposta della bambina.

             La madre sedette, guardò Lietta su le sue ginocchia, poi si volse a Ercole e irruppe.

             – Non te la do, non posso dartela!

             Ercole chiuse gli occhi, si strinse nella persona e contrasse il volto dallo spa­simo. Quel supplizio, ormai, con la bambina lì presente, era insopportabile. Elena vide l’atroce sofferenza su quel viso, e supplicò:

             – Lasciamela almeno fino a domattina… Egli si premette la faccia con ambo le mani.

             – Fino a stasera – insisté Elena.

             Lietta si recò una manina alla nuca, chinando la testina, segno che stava per piangere.

             – No, no, Lietta – le disse la madre. – Adesso la mamma ti veste… ti veste lei con le sue mani, e tu andrai via col babbo, in carrozza… Lietta andrà via col babbo. Sei contenta?… Oh Dio!… No, no… Pigliamo la vestina nuova che ti ha cucito la mamma, sai? e le scarpette nuove… Bisogna però che tu ti faccia lavar bene bene… anche qui, vedi, ai ginocchietti che sono sporchi… Poi metteremo le calzine belle…

             – Rosse – fece Lietta con una mossettina del capo e carezzando il collo della madre che piangeva.

             – Sì, quelle rosse. Alza un po’ il mento, così. Ecco fatto… Oh! Bisogna anche cambiar la carnicina; bisogna che ti cambi tutto; devi farti vedere pulita pulita. Ora laviamoci, su, su.

             Ercole s’era messo dietro la cortina della finestra, con la fronte appoggiata ai vetri, per non assistere a tanto strazio.

             Elena, lavando la bambina con la massima cura, tremava per tutto il corpo, si mordeva le labbra per non prorompere in grida, e piangeva, piangeva silenziosamente. Poi si mise a vestirla.

             – Il vetturino vuol sapere se deve aspettare ancora – disse la serva dalla soglia.

             Ercole si volse, guardò Elena un tratto, poi disse bruscamente:

             – Sì, sì.

             – Ti sei fatto aspettare – osservò Elena con un ginocchio per terra, terminando di vestir la piccina. – Eri così sicuro che te l’avrei data?

             – Pensavo che…

             – Sì, sì, tu hai pensato a tutto, a tutto, a Lietta, a te, a tua moglie, finanche a’ miei poveri ragazzi; a me soltanto non hai pensato; a me che resterò qui, sola, senza la figlia mia, qui…

             Lietta si mise a piangere.

             – Elena! – la interruppe Ercole appressandosi agitatissimo, quasi fuori di sé: – Alzati. È impossibile? hai ragione; no no, vedi come piange la bambina? No, Elena, hai ragione… è mostruoso… noi non possiamo più separarci. Sono stato un pazzo… Alzati… Senti: io lascio tutto, non penso più a nulla. Andiamocene insieme, dove che sia, lontano… tutti e tre… ora, subito… Alzati.

             Investita da questo scoppio improvviso di disperazione, Elena guardò sgomentata l’Orgera, senza poter levarsi da terra.

             – E quegli altri due? Abbandonarli, partire! No, andate voi piuttosto via da qui, da Roma, perché lei non mi veda più. Se rimarrete, io devo vederla per forza, e allora lei come potrà dimenticarmi?… Oh Dio! Lietta… Lietta!…

             – E allora… – gridò Ercole non resistendo più. Si chinò, sciolse rapidamente la bimba dalle braccia della madre che la baciava piangendo inginocchiata, la afferrò, se la tolse in braccio, e scappò via a precipizio con la figlia.

             Elena diede un urlo e rimase per terra con le braccia protese, svenuta.

Il nido – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza
Il nido – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi

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