Di Daniele Lisi.
È l’arte – e quindi la finzione – che incide sulla realtà, è l’arte che arriva prima della vita […] Opposta alle provocazioni dei futuristi e all’impegno del teatro politico, è tutta qui l’elegante rivoluzione teatrale pirandelliana: vita e palcoscenico coincidono. Anche questo significa essere umoristi.
Il metateatro pirandelliano:
disagio, realtà e finzione
Il 1921 segnò una svolta nella carriera artistica di Pirandello: avendo abbandonato definitivamente l’insegnamento universitario, egli poté dedicarsi interamente al teatro, tanto che coi Sei personaggi in cerca d’autore, oltre ad acquisire fama mondiale, inaugurò l’esperienza metateatrale, destinata a durare ben otto anni. Veniamo subito al cuore di questo scritto. Ho deciso di partire da un quesito: si diventa poeti – registi teatrali, in tal caso – per virtù o «dall’incontro» tra una «condizione di dialettica storica» e una determinata «disposizione psicologica»? Questione irresolubile, o meglio, pregna di manicheismo critico letterario, decriptabile, vale a dire, mediante l’adeguamento a una linea di pensiero. Per Edoardo Sanguineti, aspirante materialista storico, come amava definirsi, questa domanda, disseminata nel suo saggio Tra liberty e crepuscolarismo, fu una domanda retorica. Analogamente al critico genovese – non me ne vogliate – ho considerato lo storicismo e la psicologia come assi portanti della genesi del metateatro.
Esso, immerso nella tumultuosa dialettica storica, memore dei relitti shakespeariani e goldoniani, riuscì, poiché pronto a rivoluzionare la canonica funzionalità del palcoscenico, a imporsi come tertium datur rispetto al teatro futurista e a quello politico.
Veniamo alla seconda impasse: la disposizione psicologica. L’autore agrigentino, fin dai primi incontri con Nino Martoglio, traghettatore del teatro dialettale pirandelliano, fu sempre tormentato dal rapporto fra la materia narrativa e quella recitata. Con la recitazione, la narrazione, nata dal mondo della Fantasia, avrebbe potuto involgarirsi. Questo fu il «disagio» – e quella determinata condizione psicologica, quindi -, seguendo le interessanti pagine del saggio di Claudio Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro, con cui il teatro tormentò Pirandello e che l’autore decise di esorcizzare con la nascita del metateatro.
Non a caso nei Sei personaggi in cerca d’autore col Giuoco delle parti, in Ciascuno a suo modo (1924) con la morte di Giacomo La Vela e in Questa sera si recita a soggetto (1929) con Leonora Addio!, lo spettatore assiste non a tre commedie, ma ai tentativi della loro realizzazione: si tratta di Commedie da fare (come l’autore stesso le chiosa), il cui mastice è il dissidio dei personaggi verso i loro interpreti, incapaci di immedesimarsi nelle loro vesti.
Ecco, allora, la prima coordinata, con cui interpretare il metateatro pirandelliano. «Non mi vedo affatto» – lamenta la figliastra nei Sei personaggi contro la sua interprete – «in lei […] non so, non m’assomiglia per nulla!» . Analoga situazione sia in Ciascuno a suo modo, in cui il barone Nuti e Amelia Morello vengono trascinati fuori dalla platea, perché insoddisfatti da chi li rappresenta (rispettivamente Michele Rocca e Delia), che in Questa sera si recita a soggetto, in cui una riottosa compagnia teatrale insorge contro il proprio regista, il dottor Hinkfuss, fino ad autogestire, solo illusoriamente, lo spettacolo.
Accanto a quanto detto, la seconda coordinata del metateatro pirandelliano è legata al tentativo dell’autore di dilaniare i netti confini tra la realtà e la finzione: il metateatro, avendo il teatro come oggetto narrativo, offre la possibilità allo spettatore di (ri-)vedersi sul palcoscenico. Vita e finzione per Pirandello sono uguali: come la finzione, la vita, permeata di comparse, è un «giuoco di bussolotti» . Il confine labile fra la realtà e la finzione, evidente col dubbioso suicidio del figliastro nei Sei personaggi e con la morte incerta di Mommina in Questa sera si recita a soggetto, viene genialmente suggellato, in primo luogo, attraverso il ricorso all’autofiction. Un tipico stratagemma narrativo postmoderno, si pensi a Nanni Moretti in Caro diario (1993) oppure, per venire a recenti esempi letterari, a Walter Siti con Troppi paradisi (2006). Nelle tre opere teatrali c’è sempre Pirandello come protagonista, anche se sempre nelle retrovie: il dramma Sei personaggi in cerca d’autore si apre col direttore di scena che dà alcune indicazioni ai suoi attori in procinto di provare Il giuoco della parti di Pirandello. Così come nella premessa di Ciascuno a suo modo, in cui viene preannunciato che si tratterà di un’opera realizzata da Pirandello sulla base del suicidio del giovane scrittore Giacomo La Vela, anche in Questa sera si recita a soggetto vi è un affine modus operandi: il dottor Hinkfuss informa la platea che l’opera proviene dalla penna di Pirandello.
In secondo luogo, sempre sul versante realtà-finzione, grazie allo scenografo futurista Virgilio Marchi – presenza essenziale nel metateatro -, è bene sottolineare il rivoluzionario uso del palcoscenico, non diviso dalla platea, ma strettamente collegato a essa e vòlto ad annichilire la quarta parete. Nella versione odierna dei Sei personaggi in cerca d’autore (quella rivisitata del ’25) il palcoscenico è collegato alla platea dall’aggiunta degli scalini. Così avvenne in Ciascuno a suo modo con gli intermezzi corali e così anche in Questa sera si recita a soggetto con la realizzazione di una processione, tentativo ambizioso, ma già brevettato con la commedia Sagra del signore della nave nel 1925.
Giova, in ultimo, riprendere Ciascuno a suo modo. Lì, come spiegato, lo spettatore assiste al tentativo di rappresentazione di un fatto di cronaca: un suicidio, i cui responsabili, il barone Nuti e Amelia Morello, ne prendono visione in platea. Entrambi ritengono che la loro unione carnale non sia stata dettata dal sentimento amoroso, ma da due punti di vista ben precisi: 1) il barone Nuti voleva far capire a Giacomo La Vela, suo caro amico, che tipo di donna fosse quell’Amelia; 2) Amelia, dal canto suo, voleva far capire a Giacomo che non era la donna adatta a lui, un uomo così fedele e nobile di sentimenti. Bene. È proprio quando il barone Nuti e Amelia assistono all’innamoramento sul palcoscenico dei loro corrispettivi, Michele Rocca e Delia, che irrompe la riflessione tutta pirandelliana incentrata sulla labilità fra realtà e finzione. Durante la visione di questa scena, il barone Nuti e Amelia comprendono che la loro unione non era solamente finalizzata al benessere di Giacomo, bensì inconsciamente dettata dall’amore.
È l’arte – e quindi la finzione – che incide sulla realtà, è l’arte che arriva prima della vita: Mattia Pascal, epigono di Ambrogio Casati, ne sa qualcosa. Opposta alle provocazioni dei futuristi e all’impegno del teatro politico, è tutta qui l’elegante rivoluzione teatrale pirandelliana: vita e palcoscenico coincidono. Anche questo significa essere umoristi.
Daniele Lisi
2018
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