Il lume dell’altra casa – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Che stesse a farci così nella vita, non si sapeva. Forse non lo sapeva neppur lui. Ci stava… Non sospettava forse nemmeno, che ci si potesse stare diversamente, o che, a starci diversamente, si potesse sentir meno il peso della noja e della tristezza.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 12 dicembre 1909, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

Il lume dell’altra casa audiolibro
Salvador Dalì (1904-1989) The voyeur, 1921

Il lume dell’altra casa

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Fu una sera, di domenica, al ritorno da una lunga passeggiata.

             Tullio Buti aveva preso in affitto quella camera da circa due mesi. La padrona di casa, signora Nini, buona vecchietta all’antica, e la figliuola zitella, ormai appassita, non lo vedevano mai. Usciva ogni mattina per tempo e rincasava a sera inoltrata. Sapevano ch’era impiegato a un Ministero; ch’era anche avvocato; nient’altro.

             La cameretta, piuttosto angusta, ammobigliata modestamente, non serbava traccia della abitazione di lui. Pareva che di proposito, con istudio, egli volesse restarvi estraneo, come in una stanza d’albergo. Aveva, sì, disposto la biancheria nel cassettone, appeso qualche abito nell’armadio; ma poi, alle pareti, sugli altri mobili, nulla: né un astuccio, né un libro, né un ritratto; mai sul tavolino qualche busta lacerata; mai su qualche seggiola un capo di biancheria lasciato, un colletto, una cravatta, a dar segno ch’egli lì si considerava in casa sua.

             Le Nini, madre e figlia, temevano che non vi durasse. Avevano stentato tanto ad affittare quella cameretta. Parecchi erano venuti a visitarla; nessuno aveva voluto prenderla. Veramente, non era né molto comoda né molto allegra, con quell’unica finestra che dava su una viuzza stretta, privata, e dalla quale non pigliava mai né aria né luce, oppressa com’era dalla casa dirimpetto che parava.

             Mamma e figliuola avrebbero voluto compensare l’inquilino tanto sospirato con cure e attenzioni; ne avevano studiate e preparate tante, aspettando: – «Gli faremo questo; gli diremo quello» – e così e colà; specialmente lei, Clotildina, la figliuola, tante care finezze, tante care «civiltà» come diceva la madre, oh, ma così, senza secondo fine, aveva studiate e preparate. Ma come usargliele, se non si lasciava mai vedere?

             Forse, se lo avessero veduto, avrebbero compreso subito che il loro timore era infondato. Quella cameretta triste, buja, oppressa dalla casa dirimpetto, s’accordava con l’umore dell’inquilino.

             Tullio Buti andava per via sempre solo, senza neanche i due compagni dei solitarii più schivi: il sigaro e il bastone. Con le mani affondate nelle tasche del pastrano, le spalle in capo, aggrondato, il cappello calcato fin sugli occhi, pareva covasse il più cupo rancore contro la vita.

             All’ufficio, non scambiava mai una parola con nessuno dei colleghi, i quali, tra gufo e orso, non avevano ancora stabilito quale dei due appellativi gli quadrasse di più.

             Nessuno lo aveva mai veduto entrare, di sera, in qualche caffè; molti, invece, schivare di furia le vie più frequentate per subito riimmergersi nell’ombra delle lunghe vie diritte e solitarie dei quartieri alti, e scostarsi ogni volta dal muro e girare attorno al cerchio di luce che i fanali projettano sui marciapiedi.

             Né un gesto involontario, né una anche minima contrazione dei lineamenti del volto, né un cenno degli occhi o delle labbra tradivano mai i pensieri in cui pareva assorto, la doglia cupa in cui stava così tutto chiuso. La devastazione, che quei pensieri e questa doglia gli dovevano aver fatto nell’anima, era evidentissima nella fissità spasimosa degli occhi chiari, acuti, nel pallore del volto disfatto, nella precoce brizzolatura della barba incolta.

             Non scriveva e non riceveva mai lettere; non leggeva giornali; non si fermava né si voltava mai a guardare, qualunque cosa accadesse per istrada, che attirasse l’altrui curiosità; e se talvolta la pioggia lo coglieva alla sprovvista, seguitava ad andare dello stesso passo, come se nulla fosse.

             Che stesse a farci così nella vita, non si sapeva. Forse non lo sapeva neppur lui. Ci stava… Non sospettava forse nemmeno, che ci si potesse stare diversamente, o che, a starci diversamente, si potesse sentir meno il peso della noja e della tristezza.

             Non aveva avuto infanzia; non era stato giovine, mai. Le scene selvagge a cui aveva assistito nella casa paterna fin dai più gracili anni, per la brutalità e la tirannia feroce del padre, gli avevano bruciato nello spirito ogni germe di vita.

             Morta ancor giovane la madre per le atroci sevizie del marito, la famiglia s’era sbandata: una sorella s’era fatta monaca, un fratello era scappato in America. Fuggito anche lui di casa, ramingo, con incredibili stenti s’era tirato su fino a formarsi quello stato.

             Ora non soffriva più. Pareva che soffrisse; ma s’era ottuso in lui anche il sentimento del dolore. Pareva che stesse assorto sempre in pensieri; ma no; non pensava più nemmeno. Lo spirito gli era rimasto come sospeso in una specie di tetraggine attonita, che solo gli faceva avvertire, ma appena, un che d’amaro alla gola. Passeggiando di sera per le vie solitarie, contava i fanali; non faceva altro; o guardava la sua ombra, o ascoltava l’eco dei suoi passi, o qualche volta si fermava davanti ai giardini delle ville a contemplare i cipressi chiusi e cupi come lui, più notturni della notte.

             Quella domenica, stanco della lunga passeggiata per la via Appia antica, insolitamente aveva deciso di rincasare. Era ancora presto per la cena. Avrebbe aspettato nella cameretta che il giorno finisse di morire e si facesse l’ora.

             Per le Nini, madre e figlia, fu una gratissima sorpresa. Clotildina, dalla contentezza, batté anche le mani. Quale delle tante cure e attenzioni studiate e preparate, quale delle tante finezze e «civiltà» particolari, usargli prima? Confabularono mamma e figliuola: a un tratto Clotildina pestò un piede, si batté la fronte. Oh Dio, il lume, intanto! Prima di tutto bisognava recargli un lume, quello buono, messo apposta da parte, di porcellana coi papaveri dipinti e il globo smerigliato. Lo accese e andò a picchiare discretamente all’uscio dell’inquilino. Tremava tanto, per l’emozione, che il globo, oscillando, batteva contro il tubo, che rischiava d’affumicarsi.

             –    Permesso? Il lume.

             –    No, grazie, – rispose il Buti, di là. – Sto per uscire.

             La zitellona fece una smorfietta, con gli occhi bassi, come se l’inquilino potesse vederla, e insistette:

             –    Sa, ce l’ho qua. Per non farla stare al bujo. Ma il Buti ripetè, duro:

             –    Grazie, no.

             S’era seduto sul piccolo canapè dietro al tavolino, e sbarrava gli occhi invagati nell’ombra che a mano a mano s’addensava nella cameretta, mentre ai vetri smoriva tristissimo l’ultimo barlume del crepuscolo.

             Quanto tempo stette così, inerte, con gli occhi sbarrati, senza pensare, senza avvertire le tenebre che già lo avevano avvolto?

             Tutt’a un tratto, vide.

             Stupito, volse gli occhi intorno. Sì. La cameretta s’era schiarata all’improvviso, d’un blando lume discreto, come per un soffio misterioso.

             Che era? Com’era avvenuto?

             Ah, ecco. Il lume dell’altra casa. Un lume or ora acceso nella casa dirimpetto: l’alito d’una vita estranea ch’entrava a stenebrare il bujo, il vuoto, il deserto della sua esistenza.

             Rimase un pezzo a mirare quel chiarore come alcunché di prodigioso. E un’intensa angoscia gli serrò la gola nel notare con quale soave carezza si posava là sul suo letto, su la parete, e qua su le sue mani pallide, abbandonate sul tavolino. Gli sorse in quell’angoscia il ricordo della sua infanzia oppressa, di sua madre. E gli parve come se la luce di un’alba lontana, spirasse nella notte del suo spirito.

             Si alzò, andò alla finestra e, furtivamente, dietro ai vetri, guardò là, nella casa dirimpetto, a quella finestra donde gli veniva il lume.

             Vide una famigliuola raccolta intorno al desco: tre bambini, il padre già seduti, la mamma ancora in piedi, che stava a ministrarli, cercando – com’egli poteva argomentare dalle mosse – di frenar l’impazienza dei due maggiori che brandivano il cucchiajo e si dimenavano su la seggiola. L’ultimo stirava il collo, rigirava la testina bionda: evidentemente, gli avevano legato troppo stretto al collo il tovagliolo; ma se la mammina si fosse affrettata a dargli la minestra, non avrebbe più sentito il fastidio di quella legatura troppo stretta. Ecco, ecco, infatti: ih, con quale voracità s’affrettava a ingollare! tutto il cucchiajo si ficcava in bocca. E il babbo, tra il fumo che vaporava dal suo piatto, rideva. Ora si sedeva anche la mammina, lì, proprio dirimpetto. Tullio Buti fece per ritrarsi, istintivamente, nel vedere ch’ella, sedendo, aveva alzato gli occhi verso la finestra; ma pensò che, essendo al bujo, non poteva esser veduto, e rimase lì ad assistere alla cena di quella famigliuola, dimenticandosi affatto della sua.

             Da quel giorno in poi, tutte le sere, uscendo dall’ufficio, invece d’avviarsi per le sue solite passeggiate solitarie, prese la via di casa; aspettò ogni sera che il bujo della sua cameretta s’inalbasse soavemente del lume dell’altra casa, e stette lì, dietro ai vetri, come un mendico, ad assaporare con infinita angoscia quell’intimità dolce e cara, quel conforto familiare, di cui gli altri godevano, di cui anch’egli, bambino, in qualche rara sera di calma aveva goduto, quando la mamma… la mamma sua… come quella…

             E piangeva.

             Sì. Questo prodigio operò il lume dell’altra casa. La tetraggine attonita, in cui lo spirito di lui era rimasto per tanti anni sospeso, si sciolse a quel blando chiarore.

             Non pensò, intanto, Tullio Buti, a tutte le strane supposizioni che quel suo starsene al bujo doveva far nascere nella padrona di casa e nella figliuola.

             Due altre volte Clotildina gli aveva profferte il lume, invano. Avesse almeno acceso la candela! Ma no, neppure. Che si sentisse male? Aveva osato domandarglielo Clotildina con tenera voce, dall’uscio, la seconda volta ch’era accorsa col lume. Egli le aveva risposto:

             –   No; sto bene così.

             Alla fine… ma sì, santo Dio, scusabilissima! aveva spiato dal buco della serratura, Clotildina e, con maraviglia, veduto anche lei nella cameretta dell’inquilino il chiarore diffuso dal lume dell’altra casa: della casa dei Masci appunto; e veduto lui, lui ritto dietro ai vetri della finestra, intento a guardare lì, nella casa dei Masci.

             Clotildina era corsa, tutta sossopra, ad annunziare alla mamma la grande scoperta:

             –   Innamorato di Margherita! di Margherita Masci! Innamorato!

             Qualche sera dopo, Tullio Buti, mentre se ne stava a guardare, vide con sorpresa in quella stanza dirimpetto, ove la famigliuola al solito – ma senza il babbo, quella sera – se ne stava a cenare, vide entrare la signora Nini sua padrona di casa, e la figliuola, accolte come amiche di antica data.

             A un certo punto, Tullio Buti si ritrasse d’un balzo dalla finestra, turbato, ansante.

             La mammina e i tre piccini avevano alzato gli occhi verso la sua finestra. Senza dubbio, quelle due si erano messe a parlare di lui.

             E ora? Ora tutto forse era finito! La sera appresso, quella mammina, o il marito, sapendo che nella cameretta di contro c’era lui così misteriosamente al bujo, avrebbero accostato gli scuri; e così d’ora in poi non gli sarebbe venuto più quel lume di cui viveva, quel lume ch’era il suo godimento innocente e il suo unico conforto.

             Ma non fu così.

             Quella sera stessa, allorché il lume di là fu spento, ed egli, piombato nella tenebra, dopo avere atteso ancora un poco che la famigliuola fosse andata a letto, si recò ad aprire cautamente la vetrata della finestra per rinnovare l’aria, vide anche aperta la finestra di là; vide poco dopo (e ne ebbe nel bujo un tremore di sgomento) vide affacciarsi a quella finestra la donna, forse incuriosita di quanto avevano detto di lui le Nini, mamma e figliuola.

             Quei due fabbricati altissimi, che aprivano l’uno contro l’altro così da presso gli occhi delle loro finestre, non lasciavano vedere né, in alto, la striscia chiara di cielo, né, in basso, la striscia nera di terra, chiusa all’imboccatura da un cancello; non lasciavano mai penetrare né un raggio di sole, né un raggio di luna.

             Ella, dunque, là, non poteva essersi affacciata che per lui, e certo perché s’era accorta che egli s’era affacciato a quella sua finestra spenta.

             Nel bujo, potevano discernersi appena. Ma egli da un pezzo la sapeva bella; ne conosceva già tutte le grazie delle mosse, i guizzi degli occhi neri, i sorrisi delle labbra rosse.

             Più che altro, però, quella prima volta, per la sorpresa che lo sconvolgeva tutto e gli toglieva il respiro in un fremito d’inquietudine quasi insostenibile, provò pena; dovette fare uno sforzo violento su se stesso per non ritirarsi, per aspettare che si ritirasse lei per la prima.

             Quel sogno di pace, d’amore, d’intimità dolce e cara, di cui aveva immaginato dovesse godere quella famigliuola; di cui per riflesso aveva goduto anche lui; crollava, se quella donna, di furto, al bujo, veniva alla finestra per un estraneo. Questo estraneo, sì, era lui.

             Eppure, prima di ritirarsi, prima di richiudere la vetrata, ella gli bisbigliò:

             –   Buona sera!

             Che avevano fantasticato di lui le due donne che lo ospitavano, da suscitare e accendere così la curiosità di quella donna? Che strana, potente attrazione aveva operato su lei il mistero di quella sua vita chiusa, se fin dalla prima volta, lasciando di là i suoi piccini, era venuta a lui, quasi a tenergli un po’ di compagnia?

             L’uno di faccia all’altra, benché avessero entrambi schivato di guardarsi e avessero quasi finto davanti a se stessi d’essere alla finestra senza alcuna intenzione, tutti e due – ne era certo – avevano vibrato dello stesso tremito d’ignota attesa, sgomenti del fascino che così da vicino li avvolgeva nel bujo.

             Quando, a sera tarda, egli richiuse la finestra, ebbe la certezza che la sera dopo ella, spento il lume, si sarebbe riaffacciata per lui. E così fu.

             D’allora in poi Tullio Buti non attese più nella sua cameretta il lume dell’altra casa; attese con impazienza, invece, che quel lume fosse spento.

             La passione d’amore, non mai provata, divampò vorace, tremenda nel cuore di quell’uomo per tanti anni fuori della vita, e investì, schiantò, travolse come in un turbine quella donna.

             Lo stesso giorno che il Buti sloggiò dalla cameretta delle Nini, scoppiò come una bomba la notizia che la signora del terzo piano della casa accanto, la signora Masci, aveva abbandonato il marito e i tre figliuoli.

             Rimase vuota la cameretta, che aveva ospitato per circa quattro mesi il Buti; rimase spenta per parecchie settimane la stanza dirimpetto, ove la famigliuola soleva ogni sera raccogliersi a cena.

             Poi il lume fu riacceso su quel triste desco, attorno al quale un padre istupidito dalla sciagura mirò i visi sbigottiti di tre bimbi che non osavano volgere gli occhi all’uscio, donde la mamma soleva entrare ogni sera con la zuppiera fumante.

             Quel lume riacceso sul triste desco tornò allora a rischiarare, ma spettrale, la cameretta di contro, vuota.

             Se ne sovvennero, dopo alcuni mesi dalla loro crudele follia, Tullio Buti e l’amante?

             Una sera le Nini, spaventate, si videro comparir dinanzi, stravolto e convulso, il loro strano inquilino. Che voleva? La cameretta, la cameretta, se era ancora sfitta! No, non per sé, non per starci! per venirci un’ora sola, un momento solo almeno, ogni sera, di nascosto! Ah, per pietà, per pietà di quella povera madre che voleva rivedere da lontano, senz’esser veduta, i suoi figliuoli! Avrebbero usato tutte le precauzioni; si sarebbero magari travestiti; avrebbe colto ogni sera il momento che nessuno fosse per le scale; egli avrebbe pagato il doppio, il triplo la pigione, per quel momento solo.

             No. Le Nini non vollero acconsentire. Solo, finché la cameretta restava sfitta, concessero che qualche rara volta… – oh, ma per carità, a patto che nessuno li avesse scoperti! Qualche rara volta…

             La sera dopo, come due ladri, essi vennero. Entrarono quasi rantolanti nella cameretta al bujo, e attesero, attesero che s’inalbasse ancora del lume dell’altra casa.

             Di quel lume dovevano vivere ormai, così, da lontano.

             Eccolo!

             Ma Tullio Buti non potè in prima sostenerlo. Lei, invece, coi singhiozzi che le gorgogliavano in gola, lo bevve come un’assetata, si precipitò ai vetri della finestra, premendosi forte il fazzoletto su la bocca. I suoi piccini… i suoi piccini… i suoi piccini, là… eccoli… a tavola…

             Egli accorse a sorreggerla, e tutti e due rimasero lì, stretti, inchiodati, a spiare.

Il lume dell’altra casa – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Il lume dell’altra casa – Audio lettura 2 – Legge 
Gaetano Marino
Il lume dell’altra casa – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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