Legge Enrica Giampieretti.
«Nonno Bauer era rimasto in uno stato di vergine ignoranza per quasi tutte le cose della vita, e bisognava vedere con quale e quanta meraviglia la sua mente si aprisse man mano alle cognizioni più ovvie, ora che la vita per lui era quasi finita.»
Prima pubblicazione: Il Marzocco, 5 dicembre 1897 col titolo Nonno Bauer, poi nella raccolta Beffe della morte e della vita col titolo attuale e con molte modifiche.
Il giardinetto lassù
Legge Enrica Giampieretti
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I. Che voleva dirmi?
L’affanno cresciuto non dava adito alle parole, che volevano certo esser aspre, a giudicare dagli sguardi e dai gesti con cui, tossendo, s’industriava di farmi comprendere.
– Il servo? – gli domandai, cercando, angustiato, un’interpretazione. Accennò di sì più volte col capo, irosamente; poi con la mano tremolante mi fece altri gesti.
– Lo caccio via?
Sì, sì, sì, m’accennò col capo, di nuovo.
Per quanto l’indignazione, a cui pareva in preda il povero infermo, ora si comunicasse anche a me, al pensiero che quel servo vigliacco si fosse approfittato dei brevi momenti durante la giornata, nei quali ero costretto ad allontanarmi; pure restai perplesso. Venivo proprio ad annunziargli che, d’ora in poi, non avrei più potuto trattenermi a vegliarlo, a curarlo, come nei primi giorni della malattia. Cacciando ora il servo, poteva egli restar solo lì in casa?
Mi venne in mente lì per lì di persuaderlo a cercar ricovero o in un ospedale o in qualche casa di salute, e gliene feci la proposta.
Nonno Bauer (lo chiamavo così fin da quand’ero ragazzo) mi guardò con occhi smarriti, poi guardò in giro lentamente la camera, la cui vecchia suppellettile gli era tanto cara quanto la sua stessa persona, e dal seggiolone di cuojo, entro al quale stava sprofondato, volse infine gli occhi alla finestra, senza rispondermi.
C’era di là un giardinetto. Apparteneva a gl’inquilini del secondo piano; ma chi veramente ne godeva era lui, Nonno Bauer, che da quella finestra bassa poteva conversar comodamente col giardiniere e, allungando appena un braccio, toccare i rami d’un mandorlo, che adesso pareva tutto fiorito di farfalle.
Mi accorsi che due lagrime erano sgorgate dai calvi occhi infossati del mio caro vecchietto; due lagrimoni che ora gli scorrevano su le guance di cera.
– Lei non vorrebbe, è vero? – m’affrettai a dirgli, impietosito.
Negò col capo, senza guardarmi, quasi vergognoso, mentre la commozione gli agitava le labbra.
– No? Ebbene, vuol dire che si provvedere in altro modo. Intanto Lei non si affligga.
Il povero vecchio alzò gli occhi lacrimosi a ringraziarmi, e un mezzo sorriso, quasi puerile, gli affiorò alle labbra che, subito, si contrassero come per fare il greppo. Tanto intenerimento aveva provato in quel punto per sé.
Povero Nonno Bauer! Moriva, o meglio si spegneva a poco a poco, lì solo; e dopo una lunga vita, tutta stenti e fatiche, esser privato all’ultimo di quegli oggetti familiari, testimoni della pace finalmente conquistata, gli era parsa una vera crudeltà.
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II. Era nato in Italia, da genitori alsaziani; e, fin da giovinetto, era stato col nonno, e poi con mio padre, nell’umile ufficio di scritturale di banco. Dopo il nostro rovescio finanziario e la conseguente morte di mio padre, se n’era andato in Alsazia a trovare i parenti sconosciuti. Trascorsi circa sette anni, eccolo di ritorno in Italia, vinto dalla nostalgia per il paese in cui era nato e cresciuto.
Era ritornato con una modesta sostanza, ereditata da un cugino morto celibe. In quei sette anni, io ero rimasto solo, senza più la mamma, e quasi povero. Nonno Bauer venne a trovarmi, appena ritornato, e mi profferse di abitare con lui. Non accettai, perché, per le buone relazioni di cui godevo, avevo da poco ottenuto un impiego di fiducia, che m’obbligava a viaggiare continuamente. Tuttavia, non perdetti mai di vista il buon vecchietto; andavo a trovarlo ogni qualvolta ritornavo a Roma; e lui m’accoglieva con tenerezza paterna.
Era per me una vera delizia la sua compagnia. Conversando con lui, mi pareva di tuffar l’anima in un bagno di antica semplicità.
Nonno Bauer era rimasto in uno stato di vergine ignoranza per quasi tutte le cose della vita, e bisognava vedere con quale e quanta meraviglia la sua mente si aprisse man mano alle cognizioni più ovvie, ora che la vita per lui era quasi finita. Passava ore e ore in biblioteca a leggere, a studiare, per rendersi conto di tante e tante cose che, veramente, ormai non doveva più importargli di sapere. Restava stordito di ciò che apprendeva così tardi; riportava l’ammaestramento al tempo in cui avrebbe potuto giovargli, e s’immergeva allora in lunghe e profonde considerazioni, immaginando il diverso cammino che avrebbe potuto prendere con esso la sua vita.
Ma la sua passione più viva erano le piante. Una volta andò via da una casa per non veder morire un albero che era cresciuto, non si sa come, in mezzo al cortile.
Quel povero albero – io lo ricordo – s’era levato sul magro stelo cinereo con evidente sforzo e rizzando i rami come a supplicare, desideroso di vedere il sole e l’aria libera, angosciato dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. Ma, finalmente, c’era arrivato! E come brillavano felici le frondi della cima e quanta invidia destavano in quelle che stavano giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami, in autunno, le foglie di lassù avevano una più lieta sorte: volavano via col vento, in alto, cadevano su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivano nel fango della via, calpestate.
In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva vi si dessero convegno da tutti i tetti della città. Quei rami allora palpitavano più d’ali che di foglie; pareva che ogni foglia avesse voce; che tutto l’albero cantasse, fremebondo.
Dalle finestre delle case i bambini sorridevano, storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Nonno Bauer si affacciava con me; sorrideva con aria misteriosa di vecchio mago, mi diceva socchiudendo gli occhi:
– Aspetta…
E batteva forte, due volte, le mani. Subito, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime.
– Che te ne pare?
Ma, di lì a poco, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri, e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.
Ora avvenne che il proprietario di quella casa, un bel giorno, pensò di alzar tutto in giro il muro per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.
Nonno Bauer, vedendolo così, cominciò a smaniare, a sentire una pena che gli toglieva il respiro.
– Guarda, guarda! – mi diceva, mostrandomi i passerotti che dalle grondaie spiccavano il volo e si tenevano sospesi su le ali gridando, quasi per esortar più da vicino l’albero a rizzarsi.
E forse quei passerotti, anche loro, ripetevano al vecchio albero le solite frasi, gli inutili consigli, i vani ammonimenti, che si sogliono dare ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».
Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rialzarsi: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva arrivare. Meglio morire.
Andato via da quella casa, Nonno Bauer se n’era venuto in questa col giardinetto, che non apparteneva a lui. Non andava più da un pezzo in biblioteca; erano cominciati gli acciacchi della vecchiaja, dopo la settantina; e Nonno Bauer, non potendo più uscir di casa tutti i giorni, se ne stava alla finestra a conversar col giardiniere e a fare all’amore – com’egli diceva – con le rose del giardino.
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III. Di quelle rose e degli altri fiori s’innamorò tanto, che cominciò a struggersi dal desiderio di avere anche lui un giardinetto. Gli venne allora un’idea che non mi piacque affatto quando me la manifestò, quantunque la fondasse in un ragionamento pieno di buon senso.
– Alla mia età, – mi disse, – bisogna pensare, figliuolo mio, anche alla morte. E giacché non ho tanti quattrini da farmi due case con due giardinetti, me ne farò una sola, ma bella, e con un giardinetto che varrà per due. Questo mi servirà per sfogare ora il desiderio che m’è nato, quella mi servirà per poi… E quando questo poi sarà arrivato, al giardinetto di Nonno Bauer verrai a pensarci tu.
Così acquistò un buon pezzo di terra al camposanto.
La casa, sotto, invece che sopra; e senza nessuna pretesa. Una piccola nicchietta, e lì. Perché i morti hanno questo di buono: che possono anche fare a meno di star comodi, e dell’aria e del sole e d’ogni altra cosa, visto e considerato che si son tolto per sempre il fastidio di muoversi, di respirare, e che, se son freddi, non sentono più nessun bisogno di riscaldarsi.
Ma veramente Nonno Bauer, stando intere giornate lassù, quando si sentiva bene, intento a far nascere il giardino da quel suo pezzo di terra, pareva un morto venuto su dalla sua nicchietta sotterranea per darsi ancora da fare, per muoversi, per bearsi ancora dell’aria e del sole, zitto zitto e affaccendato, senza più nessun pensiero, nessuna curiosità della vita, senza neppure accorgersi dello stupore di certi visitatori del camposanto che si fermavano in distanza a mirarlo a bocca aperta, lì chino su questa o quella pianta con la forbice o con la zappetta o con l’annaffiatojo, o seduto su la sedia a libricino che si portava ogni mattina appesa al braccio, il cappellaccio di paglia in capo, l’ombrello aperto su la spalla, immobile, con gli occhi fissi nel vuoto, assorti in qualche pensiero lontano, che gli atteggiava d’un lieve sorriso le labbra tra la barbetta argentea.
Veniva a qualcuno, quasi quasi, la tentazione d’andarlo a scuotere o d’ordinargli che se ne tornasse giù subito, a riporsi, perché a un morto non è lecito, perdio, sconcertar così la gente, farla impazzire con tutte quelle sue faccende là attorno al giardinetto, o con quella immobilità sul sediolino e quell’ombrello aperto sulla spalla.
La sera, Nonno Bauer, ritornando a casa, parlava col giardiniere dalla finestra. Bisognava sentire che conversazioni! Aveva ottenuto da lui semi e tralci da trapiantare lassù; e i fiori – sosteneva – sbocciavano meglio, assai meglio là che qua, perché infine i morti a qualche cosa erano ancora buoni.
Ora, inchiodato da quindici giorni in quel seggiolone di cuojo, da cui non doveva più rialzarsi, egli non sentiva altra pena che quella di non poter recarsi, neanche in vettura, a vedere il suo caro giardinetto lassù. Ed era per lui una consolazione veder quest’altro, invece, dalla finestra, sollevandosi un poco su la vita, a stento, e allungando il collo quanto più poteva. Le rose che vi fiorivano non erano forse sorelle delle rose che fiorivano lassù? Meno belle, ma sorelle.
E sapete perché quel giorno io trovai Nonno Bauer così arrabbiato contro il suo servo? Perché non era vero che questi si fosse recato ogni mattina al camposanto a curare il giardinetto, come Nonno Bauer gli aveva ordinato. Il vicino giardiniere, venuto quella mattina a fargli visita, gliene aveva dato la brutta notizia.
Non ci fu verso: dovetti cacciar via il servo: lo cacciai anche, in verità, perché lo ritenevo infedele e sgarbato. Il vicino giardiniere promise che ci sarebbe andato lui ogni giorno, a curare le piante, sorelle più belle, e così Nonno Bauer si tranquillò.
Io pensai (conoscendo purtroppo che la morte non poteva esser lontana) di domandare l’assistenza di due suore per quegli ultimi giorni, ed egli non si oppose. Era cosciente del suo stato, e non se ne rammaricava punto; aveva vissuto a lungo; aveva assaporato la pace; ora si sentiva stanco: era tempo di chiudere gli occhi e dormire per sempre, là, nella nicchietta, sotto le rose dell’altro giardino.
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IV. Ogni giorno, andando a visitarlo, mi sorgeva innanzi alla porta la speranza che la mia assidua costernazione dovesse essere ovviata da un repentino miglioramento; ma la men giovine delle suore che veniva ad aprirmi la porta, rispondeva sempre con un gesto di triste rassegnazione alla mia prima, ansiosa domanda.
Mi trattenevo da lui qualche ora; la conversazione però languiva, poiché egli, dopo avermi accolto con un sorriso mesto e muto di riconoscenza, spesso richiudeva gli occhi; e allora io, per non disturbarlo, me ne stavo zitto, come le due suore assistenti. Veramente, quegli occhi, non si sapeva più come guardarglieli, così scavati dentro com’erano nel male che lo consumava.
Nessun rumore, nessun segno di vita arrivava in quella linda casetta appartata, in cui il vecchietto aspettava tranquillo la morte. Talvolta, nel silenzio, attraverso le vetrate, giungeva il cinguettio di un passero: io e le due suore alzavamo gli occhi alla finestra: il passero era lì, sul ramo fiorito del mandorlo, e, scotendo or di qua or di là il capino, guardava curioso nella camera, come se volesse domandare: «Che fate?». Poi, a un tratto, un frullo, e via! quasi avesse compreso che cosa in quella camera si stesse ad aspettare
Un giorno Nonno Bauer mi domandò se ero stato a vedere il suo giardinetto. C’ero stato, ma non avevo voluto dirglielo.
– Perché non me l’hai detto? – fece egli. – Qua o là, ormai, non è lo stesso? Anzi, meglio là… Hai visto com’è bello? Vi tengo tutti impicciati, e io ho tanta voglia di dormire…
Gli parlai allora delle sue piante tutte in fiore, esagerando, per fargli piacere, la mia ammirazione. Gli occhi di Nonno Bauer si avvivarono di contentezza.
– Ci andrò presto… Peccato, che non possa più vederlo…
Lo spettacolo di quell’essere ancor del tutto cosciente che con tanta tranquillità s’era conciliato col pensiero della morte, mi cagionava un occulto, indefinibile sentimento. Ma, di lì a pochi giorni, un’altra cosa doveva stupirmi maggiormente.
S’era ammalato d’una malattia assai grave l’unico figlio di un mio intimo amico, vispo e leggiadro fanciullo di circa sette anni, che già s’accarezzava sul labbro un pajo di baffetti immaginarli e, a cavallo d’una seggiola, con una sciabola di legno in mano, un elmo di cartone in capo, marciava a debellare in Africa i Beduini.
Ero andato a casa di quel mio amico per affari e lo avevo trovato con la moglie in preda a un cordoglio angoscioso, attorno al lettuccio dell’infermo adorato.
– Tifo… tifo…
Non sapevano dir altro, padre e madre, e si nascondevano la faccia con le mani, come per non vedere il fanciulletto avvampato dalla febbre.
Ancora turbato e commosso, andai quel giorno con molto ritardo a visitare Nonno Bauer. Egli prestò ascolto alla triste notizia recata da me per scusare il ritardo: volle anzi sapere quanti anni avesse il bambino e se i medici avessero dichiarata la malattia.
– Tifo?
Scosse il capo, con le ciglia corrugate, poi richiuse gli occhi, e nella cameretta ritornò il silenzio consueto.
– Quanti giorni sono? – domandò dopo un lungo tratto, senza aprire gli occhi.
Non potendo supporre che egli pensasse ancora a quel fanciullo infermo e non intendendo perciò la domanda, gli domandai a mia volta:
– Quanti giorni di che?
– Che il bambino è ammalato? – spiegò Nonno Bauer, come se parlasse in sogno.
– Nove giorni, – risposi. – E la febbre sempre alta a un modo.
– Bagni freddi, gliene fanno? Anche uno ogni due ore, senza paura… Diglielo al tuo amico.
Dopo un altro lungo silenzio, volle sapere anche il nome del fanciullo.
Il giorno appresso mi recai con lo stesso ritardo a visitare Nonno Bauer, e così nei giorni successivi. Andavo prima a prender notizia del bambino, e non già perché questo mi interessasse più del mio caro vecchietto, ma perché Nonno Bauer se ne interessava lui più di me, e per prima cosa, ogni giorno, nel vedermi entrare, mi domandava:
– Come sta? come sta?
Era rimasto impressionato del caso di quel bambino che moriva contemporaneamente a lui; e, mentre per sé non si lagnava nemmeno, di quello si affliggeva così che pareva non se ne potesse dar pace.
– Ma di’, ma un consulto non l’hanno ancora tenuto?
E consigliava i medici da chiamare. Avrebbe voluto salvarlo a ogni costo.
Purtroppo però il fanciullo era spacciato. Il giorno in cui diedi a Nonno Bauer la triste notizia, c’era da lui a visita il vicino giardiniere, il quale era venuto a riferirgli che il rosajo tutto intorno aveva gettato tanto, che la pietra sepolcrale ne era quasi nascosta.
– Signor Bauer, le rose dicono: là entro non ci si va!
Ma Nonno Bauer stava peggio anche lui, quel giorno. Guardava con occhi spenti; pareva non intendesse.
Andato via il giardiniere, cadde in letargo. Poi, si riscosse con un sospiro e disse:
– Se volessero portarlo lì…
Credetti che vaneggiasse, e, per richiamarlo in sensi, gli domandai:
– Dove, Nonno Bauer?
– Lì…
E alzò appena la mano.
Compresi, e provai una viva tenerezza. Egli intendeva nel suo giardinetto, lassù, al camposanto. Voleva con sé il bambino, lì, nella nicchietta, sotto le rose.
– Diglielo… diglielo… – riprese con insistenza, rianimandosi un po’ e guardandomi negli occhi: – Glielo dirai?
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