“Feu Mathias Pascal”, Francia, 1926.
Regia di Marcel L’Herbier.
Musiche: partitura scritta e diretta da Timothy Brock, eseguita dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Partitura commissionata dalla Cinémathèque Française e dalla Cineteca di Bologna.
Ivan Mozžuchin: Mattia Pascal
Marcelle Pradot: Romilda Pescatore
Michel Simon: Pomino
Lois Moran: Adriana Paleari
Marthe Mellot: madre di Mattia
Isaure Douvan: Batta Malagna
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Al contrario del soggetto di L’Inhumaine, quello del Feu Mathias Pascal (1925) possiede tutti i requisiti di nobiltà: si tratta nientemeno che di un romanzo di Pirandello, il primo testo di questo autore che sia stato adattato per lo schermo. In più, per incarnare Mathias L’Herbier ricorre all’eccellente attore russo, emigrato a Parigi, Ivan Mosjoukine. Ma ne consegue una coproduzione con la celebre società Albatros, diretta da Alexandre Kamenka, e bisogna constatare che è l’assai libero ‘stile Albatros’ (vedi il Brasier ardent dello stesso Mosjoukine, Le Lion des Mogols di Epstein, Kean di Volkoff) piuttosto che il miglior rigore di L’Herbier a predominare in Mathias: trucchi pittoreschi, angoli di riprese ‘spirituali’, sequenze di sogno su fondo nero, ecc. Il film è di grande virtuosismo, passando allegramente dal Kammerspiel rurale alla fantasia burlesca con un’incursione nella commedia di costume espressionista’; allo stesso tempo tutto, qui, contribuisce a creare questa unità nella diversità che mancava a L’Inhumaine: rimarchevole assegnazione dei ruoli, belle immagini, belle scenografie, storia ‘forte’. Eppure il film è retrogrado nella storia del cinema come nell’opera di L’Herbier: ci riconduce all’idea di una regia al servizio di un aneddoto: è Forfaiture [ovvero The Cheat, 1915, di Cecil B. DeMille, di cui L’Herbier realizzerà un remake nel 1937 ndc] riveduto e corretto dall’estetica dei Russi di Parigi: la doppia funzione del découpage, che L’Herbier ha già schizzato in tre dei suoi film, qui appare totalmente assente: ad ogni piano non si tratta che di trovare una nuova astuzia per mettere in evidenza il personaggio di Mathias-Mosjoukine, a ogni sequenza di trovare un nuovo stile che ‘rifletterà’ la prossima tappa della storia.
(Noël Burch)
All’interno di una partitura per un film muto ci sono spesso temi musicali che, seguendo l’evoluzione dei personaggi, si espandono (o muoiono) nel corso del film. Generalmente si tende a seguire e sviluppare questi passaggi in maniera tradizionale, ovvero per mezzo di variazioni melodiche o ritmiche. Per Il fu Mattia Pascal, tuttavia il lavoro è stato diverso. Lungo quasi tre ore, il film di L’Herbier rende conto di due esistenze che vanno e vengono, sempre in precario equilibrio tra stati d’animo (e generi) diversi, e ricco di sfumature narrative, visive ed espressive. Una complessità e una modernità che richiedevano un approccio musicale particolare. Il nucleo generativo qui è dato dalla voce del clavicembalo, che ho utilizzato come momento di riflessione interiore di Mattia Pascal, ma attraverso cui passano prima o poi tutti gli altri materiali musicali della partitura. Senza peraltro ripetere mai identicamente il tema, articolandolo piuttosto di volta in volta a seconda degli stati mentali di Mattia Pascal e delle sue reazioni agli eventi a cui va incontro. Per quanto da un punto di vista formale non ci sia nulla di italiano, la partitura non si sottrae alla suggestione territoriale, come dimostra bene la tarantella iniziale. Del resto se il riferimento a Pirandello non può che far pensare all’Italia, il nome di L’Herbier finisce inevitabilmente per dare al tutto una connotazione senza confini.
(Timothy Brock)
Da E Muto fu
Un piccolo capolavoro dimenticato: definirei così questa bella trasposizione delle avventure del Fu Mattia Pascal, eroe pirandelliano che tanto ha dato alla nostra letteratura. Tutto era nato da un accordo tra lo stesso Pirandello e L’Herbier, il quale aveva sancito la nascita del film. Per la sua realizzazione il regista francese si era avvalso di un grande divo di quei tempi, il russo Ivan Mosjoukine, uno di quei personaggi maledetti del cinema muto: grande divo di quei tempi, attorniamo di un numero altissimo di ammiratrici (tanto da essere soprannominato “il Rodolfo Valentino russo“), noto per la sua esuberanza e morto in circostanze misteriose all’età di 49 anni, probabilmente di tubercolosi nell’ospedale di Saint-Pierre de Neuilly. La strana unione tra L’Herbier, freddo e introverso, e l’attore russo diede tuttavia vita a un film scoppiettante, in cui tutta la capacità di sperimentazione dei due poteva avere ampio spazio. Del resto il romanzo pirandelliano era un vero e proprio invito all’innovazione, grazie ai temi variegati ed allo spessore psicologico dei personaggi e del protagonista in particolare.
Riprendendo ed adattando la storia originale, il film ci racconta le vicende di Mattia Pascal (Ivan Mosjoukine), sposato con Romilda (Marcelle Pradot), a discapito dell’amico Gerolamo Pomino (un giovane e impacciato Michel Simon), e costretto a sottostare alle angherie della perfida suocera Marianna Dondi(Madame Barsac). Quando muoiono madre (Marthe Mellot) e figlia, scappa a Montecarlo dove vince una grossa somma di denaro. Nel viaggio di ritorno a casa scopre di essere stato dato per morto. Decide quindi di scappare a Roma sotto una nuova identità, quella di Adriano Meis. Qui incontra la bella Adriana(Lois Moran) ma anche il malvagio Terenzio Papiano (Jean Hervé,il fratello sarà invece interpretato dal più noto Pierre Batcheff). Ma la vera identità di Mattia è sempre in agguato, e il protagonista dovrà imparare a combattere con essa…
Per chi non avesse letto il libro lascio il finale in sospeso, anche se in realtà nel film è leggermente diverso. In questa trasposizione abbiamo tutto: il tema dell’identità, della famiglia, del sentimento, dell’appagamento personale, dell’occulto e del gioco d’azzardo. In particolare il regista si sofferma sulla doppia identità di Mattia, con tanto di tecniche di sdoppiamento, e scontri tra le due anime del protagonista. L’umorismo pirandelliano si fonde nel racconto regalandoci alcune scene molto divertenti (alcune delle quali,però, sembrano durare un po’ troppo). Il ruolo di Mattia Pascal sembra calzare a pennello a Mosjoukine, così come perfetti sono gli altri personaggi. La pellicola, come era usanza di l’Herbier, era colorata in Technicolor, e ci regala delle scene splendide, come quella della festa di paese (che sembra essere un tema molto caro al nostro regista).I giochi di colore tornano però nel corso di tutta la vicenda, senza però regalarci forti emozioni come accaduto con l’homme du large. Le inquadrature sono molto curate, e offrono a tratti immagini di grande bellezza. Il film ebbe un grande successo sia di pubblico che di critica.
Yann Esvan
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