Il fu Mattia Pascal – Capitolo 4 – Fu così

image_pdfvedi in PDF

««« Capitolo 3      Capitolo 5 »»»

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Il fu Mattia Pascal - Capitolo 4

Acquista «Il fu Mattia Pascal» su Amazon

Capitolo 4 – Fu così

            Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo.

            – Ti conosco, – gli dicevo, – ti conosco…

            Poi, a un tratto, esclamai:

            – To’! Batta Malagna.

            Presi un tridente, ch’era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitré.

            Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall’attaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l’imminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra.

            Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri m’immagino, debbono avere una certa impostatura, ch’egli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com’egli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, pover’uomo.

            Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare.

            Aveva commesso l’errore di scegliersi la moglie d’un paraggio superiore al suo, ch’era molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di condizione pari alla sua, non sarebbe stata forse così fastidiosa com’era con lui, a cui naturalmente doveva dimostrare, a ogni minima occasione, ch’ella nasceva bene e che a casa sua si faceva così e così. Ed ecco il Malagna, obbediente, far così e così, come diceva lei – per parere un signore anche lui. – Ma gli costava tanto! Sudava sempre, sudava.

            Per giunta, la signora Guendalina poco dopo il matrimonio, si ammalò d’un male di cui non poté più guarire, giacché, per guarirne, avrebbe dovuto fare un sacrifizio superiore alle sue forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini coi tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre golerie, e anche, anzi soprattutto, del vino. Non che ne bevesse molto; sfido! nasceva bene: ma non avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco.

            Io e Berto, giovinetti, eravamo qualche volta invitati a pranzo dal Malagna. Era uno spasso sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla moglie su la continenza, mentre lui mangiava, divorava con tanta voluttà i cibi più succulenti:

            – Non ammetto, – diceva, – che per il momentaneo piacere che prova la gola al passaggio d’un boccone, per esempio, come questo – (e giù il boccone) – si debba poi star male un’intera giornata. Che sugo c’è? Io son certo che me ne sentirei, dopo, profondamente avvilito. Rosina! – (chiamava la serva) – Dammene ancora un po’. Buona, questa salsa majonese!

            – Majalese! – scattava allora la moglie inviperita. – Basta così! Guarda, il Signore dovrebbe farti provare che cosa vuol dire star male di stomaco. Impareresti ad aver considerazione per tua moglie.

            – Come, Guendalina! Non ne ho? – esclamava Malagna, mentre si versava un po’ di vino.

            La moglie, per tutta risposta, si levava da sedere, gli toglieva dalle mani il bicchiere e andava a buttare il vino dalla finestra.

            – E perché? – gemeva quello, restando.

            E la moglie:

            – Perché per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo, e va’ a buttarlo dalla finestra, come ho fatto io, capisci?

            Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po’ Berto, un po’ me, un po’ la finestra, un po’ il bicchiere; poi diceva:

            – Oh Dio, e che sei forse una bambina? Io, con la violenza? Ma no, cara: tu, da te, con la ragione dovresti importelo il freno…

            – E come? – gridava la moglie. – Con la tentazione sotto gli occhi? vedendo te che ne bevi tanto e te l’assapori e te lo guardi controlume, per farmi dispetto? Va’ là, ti dico! Se fossi un altro marito, per non farmi soffrire…

            Ebbene, Malagna arrivò fino a questo: non bevve più vino, per dare esempio di continenza alla moglie, e per non farla soffrire.

            Poi – rubava… Eh sfido! Qualche cosa bisognava pur che facesse.

            Se non che, poco dopo, venne a sapere che la signora Guendalina se lo beveva di nascosto, lei, il vino. Come se, per non farle male, potesse bastare che il marito non se ne accorgesse. E allora anche lui, Malagna, riprese a bere, ma fuor di casa, per non mortificare la moglie.

            Seguitò tuttavia a rubare, è vero. Ma io so ch’egli desiderava con tutto il cuore dalla moglie un certo compenso alle afflizioni senza fine che gli procurava; desiderava cioè che ella un bel giorno si fosse risoluta a mettergli al mondo un figliuolo. Ecco! Il furto allora avrebbe avuto uno scopo, una scusa. Che non si fa per il bene dei figliuoli?

            La moglie però deperiva di giorno in giorno, e Malagna non osava neppure di esprimerle questo suo ardentissimo desiderio. Forse ella era anche sterile, di natura. Bisognava aver tanti riguardi per quel suo male. Che se poi fosse morta di parto, Dio liberi?… E poi c’era anche il rischio che non portasse a compimento il figliuolo.

            Così si rassegnava.

            Era sincero? Non lo dimostrò abbastanza alla morte della signora Guendalina. La pianse, oh la pianse molto, e sempre la ricordò con una devozione così rispettosa che, al posto di lei, non volle più mettere un’altra signora – che! che! – e lo avrebbe potuto bene, ricco come già s’era fatto; ma prese la figlia d’un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra; e così unicamente perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole desiderata. Se si affrettò un po’ troppo, via… bisogna pur considerare che non era più un giovanotto e tempo da perdere non ne aveva.

            Oliva, figlia di Pietro Salvoni, nostro fattore a Due Riviere, io la conoscevo bene, da ragazza.

            Per cagion sua, quante speranze non feci concepire alla mamma: ch’io stessi cioè per metter senno e prender gusto alla campagna. Non capiva più nei panni, dalla consolazione, poveretta! Ma un giorno la terribile zia Scolastica le aprì gli occhi:

            – E non vedi, sciocca, che va sempre a Due Riviere?

            – Sì, per il raccolto delle olive.

            – D’un’oliva, d’un’oliva, d’un’oliva sola, bietolona!

            La mamma allora mi fece una ramanzina coi fiocchi: che mi guardassi bene dal commettere il peccato mortale d’indurre in tentazione e di perdere per sempre una povera ragazza, ecc., ecc.

            Ma non c’era pericolo. Oliva era onesta, di una onestà incrollabile, perché radicata nella coscienza del male che si sarebbe fatto, cedendo. Questa coscienza appunto le toglieva tutte quelle insulse timidezze de’ finti pudori, e la rendeva ardita e sciolta.

            Come rideva! Due ciriege, le labbra. E che denti!

            Ma, da quelle labbra, neppure un bacio; dai denti, sì, qualche morso, per castigo, quand’io la afferravo per le braccia e non volevo lasciarla se prima non le allungavo un bacio almeno su i capelli.

            Nient’altro.

            Ora, così bella, così giovane e fresca, moglie di Batta Malagna… Mah! Chi ha il coraggio di voltar le spalle a certe fortune? Eppure Oliva sapeva bene come il Malagna fosse diventato ricco! Me ne diceva tanto male, un giorno, poi, per questa ricchezza appunto, lo sposò.

            Passa intanto un anno dalle nozze; ne passano due; e niente figliuoli.

            Malagna, entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla prima moglie solo per la sterilità o per la infermità continua di questa, non concepiva ora neppur lontanamente il sospetto che potesse dipender da lui. E cominciò a mostrare il broncio a Oliva.

            – Niente?

            – Niente.

            Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla apertamente; e in fine, dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al colmo dell’esasperazione, si mise a malmenarla senza alcun ritegno; gridandole in faccia che con quella apparente floridezza ella lo aveva ingannato, ingannato, ingannato; che soltanto per aver da lei un figliuolo egli l’aveva innalzata fino a quel posto, già tenuto da una signora, da una vera signora, alla cui memoria, se non fosse stato per questo, non avrebbe fatto mai un tale affronto.

            La povera Oliva non rispondeva, non sapeva che dire; veniva spesso a casa nostra per sfogarsi con mia madre, che la confortava con buone parole a sperare ancora, poiché infine era giovane, tanto giovane:

            – Vent’anni?

            – Ventidue…

            E dunque, via! S’era dato più d’un caso d’aver figliuoli anche dopo dieci, anche dopo quindici anni dal giorno delle nozze.

            – Quindici? Ma, e lui? Lui era già vecchio; e se…

            A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto che, via, tra lui e lei – come dire? – la mancanza potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si ostinasse a dir di no. Ma se ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva giurato a se stessa di mantenersi onesta, e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento.

            Come le so io queste cose? Oh bella, come le so!… Ho pur detto che ella veniva a sfogarsi a casa nostra; ho detto che la conoscevo da ragazza; ora la vedevo piangere per l’indegno modo d’agire e la stupida e provocante presunzione di quel laido vecchiaccio, e… debbo proprio dir tutto? Del resto, fu no; e dunque basta.

            Me ne consolai presto. Avevo allora, o credevo d’avere (ch’è lo stesso) tante cose per il capo. Avevo anche quattrini, che – oltre al resto – forniscono pure certe idee, le quali senza di essi non si avrebbero. Mi ajutava però maledettamente a spenderli Gerolamo Il Pomino, che non ne era mai provvisto abbastanza, per la saggia parsimonia paterna.

            Mino era come l’ombra nostra; a turno, mia e di Berto; e cangiava con meravigliosa facoltà scimmiesca, secondo che praticava con Berto o con me. Quando s’appiccicava a Berto, diventava subito un damerino; e il padre allora, che aveva anche lui velleità d’eleganza, apriva un po’ la bocca al sacchetto. Ma con Berto ci durava poco. Nel vedersi imitato finanche nel modo di camminare, mio fratello perdeva subito la pazienza, forse per paura del ridicolo, e lo bistrattava fino a cavarselo di torno. Mino allora tornava ad appiccicarsi a me; e il padre a stringer la bocca al sacchetto.

            Io avevo con lui più pazienza, perché volentieri pigliavo a godermelo. Poi me ne pentivo. Riconoscevo d’aver ecceduto per causa sua in qualche impresa, o sforzato la mia natura o esagerato la dimostrazione de’ miei sentimenti per il gusto di stordirlo o di cacciarlo in qualche impiccio, di cui naturalmente soffrivo anch’io le conseguenze.

            Ora Mino, un giorno, a caccia, a proposito del Malagna, di cui gli avevo raccontato le prodezze con la moglie, mi disse che aveva adocchiato una ragazza, figlia d’una cugina del Malagna appunto, per la quale avrebbe commesso volentieri qualche grossa bestialità. Ne era capace; tanto più che la ragazza non pareva restìa; ma egli non aveva avuto modo finora neppur di parlarle.

            – Non ne avrai avuto il coraggio, va’ là! – dissi io ridendo.

            Mino negò; ma arrossì troppo, negando.

            – Ho parlato però con la serva, – s’affrettò a soggiungermi. – E n’ho saputo di belle, sai? M’ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e che, così all’aria, le sembra che mediti qualche brutto tiro, d’accordo con la cugina, che è una vecchia strega.

            – Che tiro?

            – Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura di non aver figliuoli. La vecchia, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla morte della prima moglie del Malagna, si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi; che poi, disillusa, n’abbia detto di tutti i colori all’indirizzo di quel bestione, nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia presa anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sé lo zio. Ora, infine, che il vecchio si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la nipote, chi sa qual’altra perfida idea quella strega può aver concepito.

            Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino:

            – Sta’ zitto!

            Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia – avendo notizia delle scene ch’erano avvenute e avvenivano in casa Malagna – pensai che il sospetto di quella serva potesse in qualche modo esser fondato, e volli tentare, per il bene d’Oliva, se mi fosse riuscito d’appurare qualche cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di quella strega. Mino mi si raccomandò per la ragazza.

            – Non dubitare, – gli risposi. – La lascio a te, che diamine!

            E il giorno dopo, con la scusa d’una cambiale, di cui per combinazione quella mattina stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar Malagna in casa della vedova Pescatore.

            Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore.

            – Malagna, la cambiale!

            Se già non avessi saputo ch’egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei accorto senza dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido, scontraffatto, balbettando:

            – Che… che cam…, che cambiale?

            – La cambiale così e così, che scade oggi… Mi manda la mamma, che n’è tanto impensierita!

            Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo spavento che per un istante lo aveva oppresso.

            – Ma fatto!… tutto fatto!… Perbacco, che soprassalto… L’ho rinnovata, eh? a tre mesi, pagando i frutti, s’intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco?

            E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m’invitò a sedere; mi presentò alle donne.

            – Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote.

            Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.

            – Romilda, se non ti dispiace…

            Come se fosse a casa sua.

            Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia:

            – Ma no! ma no! Da’ qua!

            Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt’intorno, che tintinnivano.

            Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda, no.

            Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore.

            Non mi parve, dall’aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse con molto piacere l’annunzio d’una mia seconda visita: mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione: occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano, ondulati, che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle.

            La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell’ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un’umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d’affamato. C’era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore.

            Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch’erano opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, – aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il ritratto.

            – Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio.

            Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc’anzi pensato: «Somiglierà al padre!». Adesso, di fronte al ritratto di questo, non sapevo più che pensare.

            Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi, vedova Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta bello, capace d’essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo più pazzo del marito.

            Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore d’ammirazione, ch’egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta e d’aver la mia approvazione.

            Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l’aria d’essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza.

            – E come? – mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.

            – Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare a me: t’ajuterò. Codesta avventura mi piace.

            – Eh… ma… – obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi sulle spine nel vedermi così infatuato. – Tu diresti forse… sposarla?

            – Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?

            – No, perché?

            – Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch’ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c’è dubbio, e ti piace, non è vero?) – oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell’altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame: proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un’opera santa, di salvazione?

            – Io no… no! – fece Pomino. – Ma… mio padre?

            – S’opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella, sai? è figlia d’un artista, d’un valentissimo incisore, morto… sì, morto bene, insomma, a Torino… Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può dunque contentare, senza badare alla dote! Che se poi, con le buone, non riesci a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e s’aggiusta ogni cosa. Pomino, hai il cuore di stoppa?

            Pomino rise, e io allora gli dimostrai quattro e quattr’otto che egli era nato marito, come si nasce poeta. Gli descrissi a vivi colori, seducentissimi, la felicità della vita coniugale con la sua Romilda; l’affetto, le cure, la gratitudine ch’ella avrebbe avuto per lui, suo salvatore. E, per concludere:

            – Tu ora, – gli dissi, – devi trovare il modo e la maniera di farti notare da lei e di parlarle o di scriverle. Vedi, in questo momento, forse, una tua lettera potrebbe essere per lei, assediata da quel ragno, un’àncora di salvezza. Io intanto frequenterò la casa; starò a vedere; cercherò di cogliere l’occasione di presentarti. Siamo intesi?

            – Intesi.

            Perché mostravo tanta smania di maritar Romilda? – Per niente. Ripeto: per il gusto di stordire Pomino. Parlavo e parlavo, e tutte le difficoltà sparivano. Ero impetuoso, e prendevo tutto alla leggera. Forse per questo, allora, le donne mi amavano, non ostante quel mio occhio un po’ sbalestrato e il mio corpo da pezzo da catasta. Questa volta, però, – debbo dirlo – la mia foga proveniva anche dal desiderio di sfondare la trista ragna ordita da quel laido vecchio, e farlo restare con un palmo di naso; dal pensiero della povera Oliva; e anche – perché no? – dalla speranza di fare un bene a quella ragazza che veramente mi aveva fatto una grande impressione.

            Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho io se Romilda, invece d’innamorarsi di Pomino, s’innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch’io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d’una volta, con le mie uscite balzane? Le vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non dubbii segni di essere innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso la sua iniqua idea, se pure le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto finalmente a dubitarne!

            Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m’era più avvenuto d’incontrarmi col Malagna in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch’ella mi ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale, poiché io ogni volta, per aver maggior libertà, proponevo gite in campagna, che si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato anch’io di Romilda, pur seguitando sempre a parlarle dell’amore di Pomino; innamorato come un matto di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche d’un piccolo porro ch’ella aveva sulla nuca, ma finanche d’una cicatrice quasi invisibile in una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo… per conto di Pomino, perdutamente.

            Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda (eravamo alla Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino), tutt’a un tratto, smettendo lo scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido amante lontano, non avesse avuto un’improvvisa convulsione di pianto e non m’avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi tutta tremante che avessi pietà di lei; me la togliessi comunque, purché via lontano, lontano dalla sua casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti subito, subito, subito…

            Lontano? Come potevo così subito condurla via lontano?

            Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a tutto, onestamente. E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del mio prossimo matrimonio, ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando, senza saper perché, mi vidi arrivare una lettera secca secca di Romilda, che mi diceva di non occuparmi più di lei in alcun modo e di non recarmi mai più in casa sua, considerando come finita per sempre la nostra relazione.

            Ah sì? E come? Che era avvenuto?

            Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma ch’ella era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa era per sempre distrutta. Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figliuoli; era venuto ad annunziarglielo, trionfante.

            Ero presente a questa scena. Come abbia fatto a frenarmi lì per lì, non so. Mi trattenne il rispetto per la mamma. Soffocato dall’ira, dalla nausea, scappai a chiudermi in camera, e solo, con le mani tra i capelli, cominciai a domandarmi come mai Romilda, dopo quanto era avvenuto fra noi, si fosse potuta prestare a tanta ignominia! Ah, degna figlia della madre! Non il vecchio soltanto avevano entrambe vilissimamente ingannato, ma anche me, anche me! E, come la madre, anche lei dunque si era servita di me, vituperosamente, per il suo fine infame, per la sua ladra voglia! E quella povera Oliva, intanto! Rovinata, rovinata…

            Prima di sera uscii, ancor tutto fremente, diretto alla casa d’Oliva. Avevo con me, in tasca, la lettera di Romilda.

            Oliva, in lagrime, raccoglieva le sue robe: voleva tornare dal suo babbo, a cui finora, per prudenza, non aveva fatto neppure un cenno di quanto le era toccato a soffrire.

            – Ma, ormai, che sto più a farci? – mi disse. – È finita! Se si fosse almeno messo con qualche altra, forse…

            – Ah tu sai dunque, – le domandai, – con chi s’è messo ?

            Chinò più volte il capo, tra i singhiozzi, e si nascose la faccia tra le mani.

            – Una ragazza! – esclamò poi, levando le braccia. È la madre! la madre! la madre! D’accordo, capisci? La propria madre!

            – Lo dici a me? – feci io. – Tieni: leggi.

            E le porsi la lettera.

            Oliva la guardò, come stordita; la prese e mi do mandò:

            – Che vuol dire?

            Sapeva leggere appena. Con lo sguardo mi chiese se fosse proprio necessario ch’ella facesse quello sforzo, in quel momento.

            – Leggi, – insistetti io.

            E allora ella si asciugò gli occhi, spiegò il foglio e si mise a interpretar la scrittura, pian piano, sillabando. Dopo le prime parole, corse con gli occhi alla firma, e mi guardò, sgranando gli occhi:

            – Tu?

            – Da’ qua, – le dissi, – te la leggo io, per intero.

            Ma ella si strinse la carta contro il seno:

            – No! – gridò. – Non te la do più! Questa ora mi serve!

            – E a che potrebbe servirti? – le domandai, sorridendo amaramente. – Vorresti mostrargliela? Ma in tutta codesta lettera non c’è una parola per cui tuo marito potrebbe non credere più a ciò che egli invece è felicissimo di credere. Te l’hanno accalappiato bene, va’ là!

            – Ah, è vero! è vero! – gemette Oliva. – Mi è venuto con le mani in faccia, gridandomi che mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l’onorabilità di sua nipote!

            – E dunque? – dissi io, ridendo acre. – Vedi? Tu non puoi più ottener nulla negando. Te ne devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo ch’egli può aver figliuoli… comprendi?

            Ora perché mai, circa un mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la schiuma ancora alla bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione perché io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana? Soggiunse che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta, non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi quella creatura, quando sarebbe nata, come sua. Ma ora che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione d’aver un figliuolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare anche da padre a quell’altro che sarebbe nato da sua nipote.

            – Mattia provveda! Mattia ripari! – concluse, congestionato dal furore. – E subito! Mi si obbedisca subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare qualche sproposito!

            Ragioniamo un po’, arrivati a questo punto. Io n’ho viste di tutti i colori. Passare anche per imbecille o per… peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un gran guajo. Già – ripeto – son come fuori della vita, e non m’importa più di nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la logica.

            Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per indurre in inganno lo zio. Altrimenti, perché Malagna avrebbe subito a suon di busse rinfacciato alla moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre d’aver recato oltraggio alla nipote?

            Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa, sua madre, avendo ricevuto da lei la confessione dell’amore che ormai la legava a me indissolubilmente, montata su tutte le furie, le aveva gridato in faccia che mai e poi mai avrebbe acconsentito a farle sposare uno scioperato, già quasi all’orlo del precipizio. Ora, poiché da sé, ella, aveva recato a se stessa il peggior male che a una fanciulla possa capitare, non restava più a lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale fosse, era facile intendere. Venuto, all’ora solita, il Malagna, ella andò via, con una scusa, e la lasciò sola con lo zio. E allora, lei, Romilda, piangendo – dice – a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui, gli fece intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò d’interporsi, d’indurre la madre a più onesti consigli, poiché ella era già d’un altro, a cui voleva serbarsi fedele.

            Malagna s’intenerì – ma fino a un certo segno. Le disse che ella era ancor minorenne, e perciò sotto la potestà della madre, la quale, volendo, avrebbe potuto anche agire contro di me, giudiziariamente; che anche lui, in coscienza, non avrebbe saputo approvare un matrimonio con un discolo della mia forza, sciupone e senza cervello, e che non avrebbe potuto perciò consigliarlo alla madre; le disse che al giusto e naturale sdegno materno bisognava che lei sacrificasse pure qualche cosa, che sarebbe poi stata, del resto, la sua fortuna; e concluse che egli non avrebbe potuto infine far altro che provvedere – a patto però che si fosse serbato con tutti il massimo segreto – provvedere al nascituro, fargli da padre, ecco, giacché egli non aveva figliuoli e ne desiderava tanto e da tanto tempo uno.

            Si può essere – domando io – più onesti di così?

            Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al figliuolo nascituro.

            Che colpa ha lui, se io, – poi, – ingrato e sconoscente, andai a guastargli le uova nel paniere?

            Due, no! eh, due, no, perbacco!

            Gli parvero troppi, forse perché avendo già Roberto, com’ho detto, contratto un matrimonio vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover rendere anche per lui.

            In conclusione, si vede che – capitato in mezzo a così brava gente – tutto il male lo avevo fatto io. E dovevo dunque scontarlo.

            Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già vedeva la rovina della nostra casa e sperava ch’io potessi in qualche modo salvarmi, sposando la nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai.

            Mi pendeva, tremenda, sul capo l’ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore.

««« Capitolo 3      Capitolo 5 »»»

Il fu Mattia Pascal – Indice

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

Skip to content