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Capitolo 18 – Il fu Mattia Pascal
Tra l’ansia e la rabbia (non sapevo che mi agitasse di più, ma eran forse una cosa sola: ansiosa rabbia, rabbiosa ansia) non mi curai più se altri mi riconoscesse prima di scendere o appena sceso a Miragno.
M’ero cacciato in un vagone di prima classe, per unica precauzione. Era sera; e del resto, l’esperimento fatto su Berto mi rassicurava: radicata com’era in tutti la certezza della mia trista morte, ormai di due anni lontana, nessuno avrebbe più potuto pensare ch’io fossi Mattia Pascal.
Mi provai a sporgere il capo dal finestrino, sperando che la vista dei noti luoghi mi destasse qualche altra emozione meno violenta; ma non valse che a farmi crescer l’ansia e la rabbia. Sotto la luna, intravidi da lontano il clivio della Stìa.
– Assassine! – fischiai tra i denti. – Là… Ma ora…
Quante cose, sbalordito dall’inattesa notizia, mi ero dimenticato di domandare a Roberto! Il podere, il molino erano stati davvero venduti? o eran tuttora, per comune accordo dei creditori, sotto un’amministrazione provvisoria? E Malagna era morto? E zia Scolastica?
Non mi pareva che fossero passati soltanto due anni e mesi; un’eternità mi pareva, e che – come erano accaduti a me casi straordinarii – dovessero parimenti esserne accaduti a Miragno. Eppure niente, forse, vi era accaduto, oltre quel matrimonio di Romilda con Pomino, normalissimo in sé, e che solo adesso, per la mia ricomparsa, sarebbe diventato straordinario.
Dove mi sarei diretto, appena sceso a Miragno. Dove s’era composto il nido la nuova coppia?
Troppo umile per Pomino, ricco e figlio unico la casa in cui io, poveretto, avevo abitato. E poi Pomino, tenero di cuore, ci si sarebbe trovato certo a disagio, lì, con l’inevitabile ricordo di me. Forse s’era accasato col padre, nel Palazzo. Figurarsi la vedova Pescatore, che arie da matrona, adesso! e quel povero cavalier Pomino, Gerolamo I, delicato, gentile, mansueto, tra le grinfie della megera! Che scene! Né il padre, certo, né il figlio avevano avuto il coraggio di levarsela dai piedi. E ora, ecco – ah che rabbia! – li avrei liberati io…
Sì, là, a casa Pomino, dovevo indirizzarmi: che se anche non ce li avessi trovati, avrei potuto sapere dalla portinaja dove andarli a scovare.
Oh paesello mio addormentato, che scompiglio dimani, alla notizia della mia resurrezione!
C’era la luna, quella sera, e però tutti i lampioncini erano spenti, al solito, per le vie quasi deserte, essendo l’ora della cena pei più.
Avevo quasi perduto, per la estrema eccitazione nervosa, la sensibilità delle gambe: andavo, come se non toccassi terra coi piedi. Non saprei ridire in che animo fossi: ho soltanto l’impressione come d’una enorme, omerica risata che, nell’orgasmo violento, mi sconvolgeva tutte le viscere, senza poter scoppiare: se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case.
Giunsi in un attimo a casa Pomino; ma in quella specie di bacheca che è nell’androne non trovai la vecchia portinaja; fremendo, attendevo da qualche minuto, quando su un battente del portone scorsi una fascia di lutto stinta e polverosa, inchiodata lì, evidentemente, da parecchi mesi. Chi era morto? La vedova Pescatore? Il cavalier Pomino? Uno dei due, certamente. Porse il cavaliere… In questo caso, i miei due colombi, li avrei trovati sù, senz’altro, insediati nel Palazzo. Non potei aspettar più oltre: mi lanciai a balzi sù per la scala. Alla seconda branca, ecco la portinaja.
– Il cavalier Pomino?
Dallo stupore con cui quella vecchia tartaruga mi guardò, compresi che proprio il povero cavaliere doveva esser morto.
– Il figlio! il figlio! – mi corressi subito, riprendendo a salire.
Non so che cosa borbottasse tra sé la vecchia per le scale. A pie’ dell’ultima branca dovetti fermarmi: non tiravo più fiato! guardai la porta; pensai: «Forse cenano ancora, tutti e tre a tavola… senz’alcun sospetto. Fra pochi istanti, appena avrò bussato a quella porta, la loro vita sarà sconvolta… Ecco, è in mia mano ancora la sorte che pende loro sul capo». Salii gli ultimi scalini. Col cordoncino del campanello in mano, mentre il cuore mi balzava in gola, tesi l’orecchio. Nessun rumore. E in quel silenzio ascoltai il tin-tin lento del campanello, tirato appena, pian piano.
Tutto il sangue m’affluì alla testa, e gli orecchi presero a ronzarmi, come se quel lieve tintinno che s’era spento nel silenzio, m’avesse invece squillato dentro furiosamente e intronato.
Poco dopo, riconobbi con un sussulto, di là dalla porta, la voce della vedova Pescatore:
– Chi è?
Non potei, lì per li, rispondere: mi strinsi le pugna al petto, come per impedir che il cuore mi balzasse fuori. Poi, con voce cupa, quasi sillabando, dissi:
– Mattia Pascal.
– Chi?! – strillò la voce di dentro.
– Mattia Pascal, – ripetei, incavernando ancor più la voce.
Sentii scappare la vecchia strega, certo atterrita, e subito immaginai che cosa in quel momento accadeva di là. Sarebbe venuto l’uomo, adesso: Pomino: il coraggioso!
Ma prima bisognò ch’io risonassi, come dianzi, pian piano.
Appena Pomino, spalancata di furia la porta, mi vide – erto – col petto in fuori – innanzi a sé – retrocesse esterrefatto. M’avanzai, gridando:
– Mattia Pascal! Dall’altro mondo.
Pomino cadde a sedere per terra, con un gran tonfo, sulle natiche, le braccia puntate indietro, gli occhi sbarrati:
– Mattia! Tu?!
La vedova Pescatore, accorsa col lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo, da partoriente. Io richiusi la porta con una pedata, e d’un balzo le tolsi il lume, che già le cadeva di mano.
– Zitta! – le gridai sul muso. – Mi prendete per un fantasima davvero?
– Vivo?! – fece lei, allibita, con le mani tra i capelli.
– Vivo! vivo! vivo! – seguitai io, con gioja feroce. – Mi riconosceste morto, è vero? affogato là?
– E di dove vieni? – mi chiese con terrore.
– Dal molino, strega! – le urlai. – Tieni qua il lume, guardami bene! Sono io? mi riconosci? o ti sembro ancora quel disgraziato che s’affogò alla Stia?
– Non eri tu?
– Crepa, megera! Io sono qua, vivo! Sù, alzati tu, bel tomo! Dov’è Romilda?
– Per carità… gemette Pomino, levandosi in fretta. – La piccina… ho paura… il latte…
Lo afferrai per un braccio, restando io, ora, a mia volta:
– Che piccina?
– Mia… mia figlia… balbettò Pomino.
– Ah che assassinio! – gridò la Pescatore.
Non potei rispondere ancora sotto l’impressione di questa nuova notizia.
– Tua figlia?… – mormorai. – Una figlia, per giunta?… E questa, ora…
– Mamma, da Romilda, per carità… – scongiurò Pomino.
Ma troppo tardi. Romilda, col busto slacciato, la poppante al seno, tutta in disordine, come se – alle grida – si fosse levata di letto in fretta e in furia, si fece innanzi, m’intravide:
– Mattia! – e cadde tra le braccia di Pomino e della madre, che la trascinarono via, lasciando, nello scompiglio, la piccina in braccio a me accorso con loro.
Restai al bujo, là, nella sala d’ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo ancora negli orecchi il grido della donna ch’era stata mia, e che ora, ecco, era madre di questa bimba non mia, non mia! mentre la mia, ah, non la aveva amata, lei, allora! E dunque, no, io ora, no, perdio! non dovevo aver pietà di questa, né di loro. S’era rimaritata? E io ora… Ma seguitava a vagire quella piccina, a vagire; e allora… che fare? per quietarla, me l’adagiai sul petto e cominciai a batterle pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla passeggiando. L’odio mi sbollì, l’impeto cedette. E a poco a poco la bimba si tacque.
Pomino chiamò nel bujo con sgomento:
– Mattia!… La piccina!…
– Sta’ zitto! L’ho qua, – gli risposi.
– E che fai ?
– Me la mangio… Che faccio!… L’avete buttata in braccio a me… Ora lasciamela stare! S’è quietata. Dov’è Romilda?
Accostandomisi, tutto tremante e sospeso, come una cagna che veda in mano al padrone la sua cucciola:
– Romilda? Perché? – mi domandò.
– Perché voglio parlarle! – gli risposi ruvidamente.
– È svenuta, sai?
– Svenuta? La faremo rinvenire.
Pomino mi si parò davanti, supplichevole:
– Per carità… senti… ho paura… come mai, tu… vivo!… Dove sei stato?… Ah, Dio… Senti… Non potresti parlare con me?
– No! – gli gridai. – Con lei devo parlare. Tu, qua, non rappresenti più nulla.
– Come! io?
– Il tuo matrimonio s’annulla.
– Come… che dici? E la piccina?
– La piccina… la piccina… – masticai. – Svergognati! In due anni, marito e moglie, e una figliuola! Zitta, carina, zitta! Andiamo dalla mamma… Sù, conducimi! Di dove si prende?
Appena entrai nella camera da letto con la bimba in braccio, la vedova Pescatore fece per saltarmi addosso, come una jena.
La respinsi con una furiosa bracciata:
– Andate là, voi! Qua c’è vostro genero: se avete da strillare, strillate con lui. Io non vi conosco!
Mi chinai verso Romilda, che piangeva disperatamente, e le porsi la figliuola:
– Sù, tieni… Piangi? Che piangi? Piangi perché son vivo? Mi volevi morto? Guardami… sù, guardami in faccia! Vivo o morto?
Ella si provò, tra le lagrime, ad alzar gli occhi su me, e con voce rotta dai singhiozzi, balbettò:
– Ma… come… tu? che… che hai fatto?
Io, che ho fatto? – sogghignai. – Lo domandi a me, che ho fatto? Tu hai ripreso marito… quello sciocco là!… tu hai messo al mondo una figliuola, e hai il coraggio di domandare a me che ho fatto?
E ora? – gemette Pomino, coprendosi il volto con le mani.
– Ma tu, tu… dove sei stato? Se ti sei finto morto e te ne sei scappato… – prese a strillar la Pescatore, facendosi avanti con le braccia levate.
Glien’afferrai uno, glielo storsi e le urlai:
– Zitta, vi ripeto! Statevene zitta, voi, perché, se vi sento fiatare, perdo la pietà che m’ispira codesto imbecille di vostro genero e quella creaturina là, e faccio valer la legge! Sapete che dice la legge? Ch’io ora devo riprendermi Romilda…
– Mia figlia? tu? Tu sei pazzo! – inveì, imperterrita, colei.
Ma Pomino, sotto la mia minaccia, le si accostò subito a scongiurarla di tacere, di calmarsi, per amor di Dio.
La megera allora lasciò me, e prese a inveire contro di lui, melenso, sciocco, buono a nulla e che non sapeva far altro che piangere e disperarsi come una femminuccia…
Scoppiai a ridere, fino ad averne male ai fianchi.
– Finitela! – gridai, quando potei frenarmi. – Gliela lascio! la lascio a lui volentieri! Mi credete sul serio così pazzo da ridiventar vostro genero? Ah, povero Pomino! Povero amico mio, scusami, sai? se t’ho detto imbecille; ma hai sentito? te l’ha detto anche lei, tua suocera, e ti posso giurare: che, anche prima, me l’aveva detto Romilda, nostra moglie… sì, proprio lei, che le parevi imbecille, stupido, insipido… e non so che altro. È vero, Romilda? di’ la verità… Sù, sù, smetti di piangere, cara: rassèttati: guarda, puoi far male alla tua piccina, così… Io ora sono vivo – vedi? – e voglio stare allegro… Allegro! come diceva un certo ubriaco amico mio… Allegro, Pomino! Ti pare che voglia lasciare una figliuola senza mamma? Ohibò! Ho già un figliuolo senza babbo… Vedi, Romilda? Abbiamo fatto pari e patta: io ho un figlio, che è figlio di Malagna, e tu ormai hai una figlia, che è figlia di Pomino. Se Dio vuole, li mariteremo insieme, un giorno! Ormai quel figliuolo là non ti deve far più dispetto… Parliamo di cose allegre… Ditemi come tu e tua madre avete fatto a riconoscermi morto, là, alla Stìa…
– Ma anch’io! – esclamò Pomino, esasperato. Ma tutto il paese! Non esse sole!
– Bravi! bravi! Tanto dunque mi somigliava?
– La tua stessa statura… la tua barba… vestito come te, di nero… e poi, scomparso da tanti giorni…
– E già, me n’ero scappato, hai sentito? Come se non m’avessero fatto scappar loro… Costei, costei… Eppure stavo per ritornare, sai? Ma sì, carico d’oro! Quando… che è, che non è, morto, affogato, putrefatto. .. e riconosciuto, per giunta! Grazie a Dio. mi sono scialato, due anni; mentre voi, qua: fidanzamento, nozze, luna di miele, feste, gioje, la figliuola… chi muore giace, eh? e chi vive si dà pace…
– E ora? come si fa ora? – ripeté Pomino, gemendo, tra le spine. – Questo dico io!
Romilda s’alzò per adagiar la bimba nella cuna.
– Andiamo, andiamo di là, – diss’io. – La piccina s’è riaddormentata. Discuteremo di là.
Ci recammo nella sala da pranzo, dove, sulla tavola ancora apparecchiata, erano i resti della cena. Tutto tremante, stralunato, scontraffatto nel pallore cadaverico, battendo di continuo le palpebre su gli occhietti diventati scialbi, forati in mezzo da due punti neri, acuti di spasimo, Pomino si grattava la fronte e diceva, quasi vaneggiando:
– Vivo… vivo… Come si fa? come si fa?
– Non mi seccare! – gli gridai. – Adesso vedremo, ti dico.
Romilda, indossata la veste da camera, venne a raggiungerci. Io rimasi a guardarla alla luce, ammirato: era ridivenuta bella come un tempo, anzi più formosa.
– Fammiti vedere… – le dissi. – Permetti, Pomino? Non c’è niente di male: sono marito anch’io, anzi prima e più di te. Non ti vergognare, via, Romilda! Guarda, guarda come si torce Mino! Ma che ti posso fare se non son morto davvero?
– Così non è possibile! – sbuffò Pomino, livido.
– S’inquieta! – feci, ammiccando, a Romilda. – No, via, calmati, Mino… Ti ho detto che te la lascio, e mantengo la parola. Solo, aspetta… con permesso!
Mi accostai a Romilda e le scoccai un bel bacione su la guancia.
– Mattia! – gridò Pomino, fremente.
Scoppiai a ridere di nuovo.
– Geloso? di me? Va’ là! Ho il diritto della precedenza. Del resto, sù, Romilda, cancella, cancella… Guarda, venendo, supponevo (scusami, sai, Romilda), supponevo, caro Mino, che t’avrei fatto un gran piacere, a liberartene, e ti confesso che questo pensiero m’affliggeva moltissimo, perché volevo vendicarmi, e vorrei ancora, non credere, togliendoti adesso Romilda, adesso che vedo che le vuoi bene e che lei… sì, mi pare un sogno, mi pare quella di tant’anni fa… ricordi, eh, Romilda?… Non piangere! ti rimetti a piangere? Ah, bei tempi… si, non tornano più!… Via, via: voi ora avete una figliuola, e dunque non se ne parli più! Vi lascio in pace, che diamine!
– Ma il matrimonio s’annulla? – gridò Pomino.
– E tu lascialo annullare! – gli dissi. – Si annullerà pro forma, se mai: non farò valere i miei diritti e non mi farò neppure riconoscer vivo ufficialmente, se proprio non mi costringono. Mi basta che tutti mi rivedano e mi risappiano vivo di fatto, per uscir da questa morte, che è morte vera, credetelo! Già lo vedi: Romilda, qua, ha potuto divenir tua moglie… il resto non m’importa! Tu hai contratto pubblicamente il matrimonio; è noto a tutti che lei è, da un anno, tua moglie, e tale rimarrà. Chi vuoi che si curi più del valor legale del suo primo matrimonio? Acqua passata… Romilda fu mia moglie: ora, da un anno, è tua, madre d’una tua bambina. Dopo un mese non se ne parlerà più. Dico bene, doppia suocera?
La Pescatore, cupa, aggrondata, approvò col capo. Ma Pomino, nel crescente orgasmo, domandò:
– E tu rimarrai qua, a Miragno?
– Sì, e verrò qualche sera a prendermi in casa tua una tazza di caffè o a bere un bicchier di vino alla vostra salute.
– Questo, no! – scattò la Pescatore, balzando in piedi.
– Ma se scherza!… – osservò Romilda, con gli occhi bassi.
Io m’ero messo a ridere come dianzi.
– Vedi, Romilda? – le dissi. – Hanno paura che riprendiamo a fare all’amore… Sarebbe pur carina! No, no: non tormentiamo Pomino… Vuol dire che se lui non mi vuole più in casa, mi metterò a passeggiare giù per la strada, sotto le tue finestre. Va bene? E ti farò tante belle serenate.
Pomino, pallido, vibrante, passeggiava per la stanza, brontolando:
– Non è possibile… non è possibile…
A un certo punto s’arrestò e disse:
– Sta di fatto che lei… con te, qua, vivo, non sarà più mia moglie…
– E tu fa’ conto che io sia morto! – gli risposi tranquillamente.
Riprese a passeggiare:
– Questo conto non posso più farlo!
– E tu non lo fare. Ma, via, credi davvero – soggiunsi, – che vorrò darti fastidio, se Romilda non vuole? deve dirlo lei… Sù, di’, Romilda, chi è più bello? io o lui?
– Ma io dico di fronte alla legge! di fronte alla legge! – gridò egli, arrestandosi di nuovo.
Romilda lo guardava, angustiata e sospesa.
– In questo caso, – gli feci osservare, – mi sembra che più di tutti, scusa, dovrei risentirmi io, che vedrò d’ora innanzi la mia bella quondam metà convivere maritalmente con te.
– Ma anche lei, – rimbeccò Pomino, – non essendo più mia moglie…
– Oh, insomma, – sbuffai, – volevo vendicarmi e non mi vendico; ti lascio la moglie, ti lascio in pace, e non ti contenti? Sù, Romilda, alzati! andiamocene via, noi due! Ti propongo un bel viaggetto di nozze… Ci divertiremo! Lascia questo pedante seccatore. Pretende ch’io vada a buttarmi davvero nella gora del molino, alla Stìa.
– Non pretendo questo! – proruppe Pomino al colmo dell’esasperazione. – Ma vattene, almeno! Vattene via, poiché ti piacque di farti creder morto! Vattene subito, lontano, senza farti vedere da nessuno. Perché io qua… con te… vivo…
Mi alzai; gli battei una mano su la spalla per calmarlo e gli risposi, prima di tutto, ch’ero già stato a Oneglia, da mio fratello, e che perciò tutti, là, a quest’ora, mi sapevano vivo, e che domani, inevitabilmente, la notizia sarebbe arrivata a Miragno; poi:
– Morto di nuovo? Lontano da Miragno? Tu scherzi, mio caro! – esclamai. – Va’ là: fa’ il marito in pace, senza soggezione… Il tuo matrimonio, comunque sia, s’è celebrato. Tutti approveranno, considerando che c’è di mezzo una creaturina. Ti prometto e giuro che non verrò mai a importunarti, neanche per una miserrima tazza di caffè, neanche per godere del dolce, esilarante spettacolo del vostro amore, della vostra concordia, della vostra felicità edificata su la mia morte… Ingrati! Scommetto che nessuno, neanche tu, sviscerato amico, nessuno di voi è andato ad appendere una corona, a lasciare un fiore su la tomba mia, là nel camposanto… Di’, è vero? Rispondi! – Ti va di scherzare!… – fece Pomino, scrollandosi.
– Scherzare? Ma nient’affatto! Là c’è davvero il cadavere di un uomo, e non si scherza! Ci sei stato?
– No… non… non ne ho avuto il coraggio borbottò Pomino.
– Ma di prendermi la moglie, sì, birbaccione!
– E tu a me? – diss’egli allora, pronto. – Tu a me non l’avevi tolta, prima, da vivo?
– Io? – esclamai. – E dàlli! Ma se non ti volle lei! Lo vuoi dunque ripetuto che le sembravi proprio uno sciocco? Diglielo tu, Romilda, per favore: vedi, m’accusa di tradimento… Ora, che c’entra! è tuo marito, e non se ne parla più; ma io non ci ho colpa… Sù, sù. Ci andrò io domani da quel povero morto, abbandonato là, senza un fiore, senza una lacrima… Di’, c’è almeno una lapide su la fossa?
– Si, – s’affrettò a rispondermi Pomino. – A spese del Municipio… Il povero babbo…
– Mi lesse l’elogio funebre, lo so! Se quel pover’uomo sentiva… Che c’è scritto su la lapide?
– Non so… La dettò Lodoletta.
– Figuriamoci! – sospirai. – Basta. Lasciamo anche questo discorso. Raccontami, raccontami piuttosto come vi siete sposati così presto… Ah, come poco mi piangesti, vedovella mia… Forse niente, eh? di’ sù, possibile ch’io non debba sentir la tua voce? Guarda: è già notte avanzata… appena spunterà il giorno, io andrò via, e sarà come non ci avessimo mai conosciuto… Approfittiamoci di queste poche ore. Sù, dimmi…
Romilda si strinse nelle spalle, guardò Pomino, sorrise nervosamente: poi, riabbassando gli occhi e guardandosi le mani:
– Che posso dire? Certo che piansi…
– E non te lo meritavi! – brontolò la Pescatore.
– Grazie! Ma infine, via… fu poco, è vero? – ripresi. – Codesti begli occhi, che pur s’ingannarono così facilmente, non ebbero a sciuparsi molto, di certo.
– Rimanemmo assai male, – disse, a mo’ di scusa, Romilda. – E se non fosse stato per lui…
– Bravo Pomino! – esclamai. – Ma quella canaglia di Malagna, niente?
– Niente, – rispose, dura, asciutta, la Pescatore. – Tutto fece lui…
E additò Pomino.
– Cioè… cioè… – corresse questi, – il povero babbo… Sai ch’era al Municipio? Bene, fece prima accordare una pensioncina, data la sciagura… e poi…
– Poi accondiscese alle nozze?
– Felicissimo! E ci volle qua, tutti, con sé… Mah! Da due mesi…
E prese a narrarmi la malattia e la morte del padre; l’amore di lui per Romilda e per la nipotina; il compianto che la sua morte aveva raccolto in tutto il paese. Io domandai allora notizie della zia Scolastica, tanto amica del cavalier Pomino. La vedova Pescatore, che si ricordava ancora del batuffolo di pasta appiastratole in faccia dalla terribile vecchia, si agitò sulla sedia. Pomino mi rispose che non la vedeva più da due anni, ma che era viva; poi, a sua volta, mi domandò che avevo fatto io, dov’ero stato, ecc. Dissi quel tanto che potevo senza far nomi né di luoghi né di persone, per dimostrare che non m’ero affatto spassato in quei due anni. E così, conversando insieme, aspettammo l’alba del giorno in cui doveva pubblicamente affermarsi la mia resurrezione.
Eravamo stanchi della veglia e delle forti emozioni provate; eravamo anche infreddoliti. Per riscaldarci un po’, Romilda volle preparare con le sue mani il caffè. Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi lontano, e disse:
– Tu, al solito, senza zucchero, è vero?
Che lesse in quell’attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo.
In quella livida luce dell’alba, sentii stringermi la gola da un nodo di pianto inatteso, e guardai Pomino odiosamente. Ma il caffè mi fumava sotto il naso, inebriandomi del suo aroma e cominciai a sorbirlo lentamente. Domandai quindi a Pomino il permesso di lasciare a casa sua la valigia, fino a tanto che non avessi trovato un alloggio: avrei poi mandato qualcuno a ritirarla.
– Ma sì! ma sì! – mi rispose egli, premuroso. – Anzi non te ne curare: penserò io a fartela portare…
– Oh, – dissi, – tanto è vuota, sai?… A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa di mio… abiti, biancheria?
– No, nulla… – mi rispose, dolente, aprendo le mani. – Capirai… dopo la disgrazia…
– Chi poteva immaginarselo? – esclamò Pomino.
Ma giurerei ch’egli, l’avaro Pomino, aveva al collo un mio antico fazzoletto di seta.
– Basta. Addio, eh! Buona fortuna! – diss’io, salutando, con gli occhi fermi su Romilda, che non volle guardarmi. Ma la mano le tremò, nel ricambiarmi il saluto. – Addio! Addio!
Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza mèta.
«E ora?» domandai a me stesso. «Dove vado?»
Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare: «Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l’occhio un po’ storto, si direbbe proprio lui». Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa… E io che m’ero immaginato uno scoppio, uno scompiglio, appena mi fossi mostrato per le vie! Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un’amarezza che non saprei ridire; e il dispetto e l’avvilimento mi trattenevano dallo stuzzicar l’attenzione di coloro che io, dal canto mio, riconoscevo bene: sfido! dopo due anni… Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito…
Due volte percorsi da un capo all’altro il paese, senza che nessuno mi fermasse. Al colmo dell’irritazione, pensai di ritornar da Pomino, per dichiarargli che i patti non mi convenivano e vendicarmi sopra lui dell’affronto che mi pareva tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più. Ma né Romilda con le buone mi avrebbe seguito, né io per il momento avrei saputo dove condurla. Dovevo almeno prima cercarmi una casa. Pensai d’andare al Municipio, all’ufficio dello stato civile, per farmi subito cancellare dal registro dei morti; ma, via facendo, mutai pensiero e mi ridussi invece a questa biblioteca di Santa Maria Liberale, dove trovai al mio posto il reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, il quale non mi riconobbe neanche lui, lì per lì. Don Eligio veramente sostiene che mi riconobbe subito e che soltanto aspettò ch’io pronunziassi il mio nome per buttarmi le braccia al collo, parendogli impossibile che fossi io, e non potendo abbracciar subito uno che gli pareva Mattia Pascal. Sarà pure cosi! Le prime feste me le ebbi da lui, calorosissime; poi egli volle per forza ricondurmi seco in paese per cancellarmi dall’animo la cattiva impressione che la dimenticanza dei miei concittadini mi aveva fatto.
Ma io ora, per ripicco, non voglio descrivere quel che seguì alla farmacia del Brìsigo prima, poi al Caffè dell’Unione, quando don Eligio, ancor tutto esultante, mi presentò redivivo. Si sparse in un baleno la notizia, e tutti accorsero a vedermi e a tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chi fosse allora colui che s’era annegato alla Stìa, come se non mi avessero riconosciuto loro: tutti, a uno a uno. E dunque ero io, proprio io: donde tornavo? dall’altro mondo! che avevo fatto? il morto! Presi il partito di non rimuovermi da queste due risposte e lasciar tutti stizziti nell’orgasmo della curiosità, che durò parecchi e parecchi giorni. Né più fortunato degli altri fu l’amico Lodoletta che venne a «intervistarmi» per il Foglietto. Invano, per commuovermi, per tirarmi a parlare mi portò una copia del suo giornale di due anni avanti, con la mia necrologia. Gli dissi che la sapevo a memoria, perché all’Inferno il Foglietto era molto diffuso.
– Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide… Andrò a vederla, sai?
Rinunzio a trascrivere il suo nuovo pezzo forte della domenica seguente che recava a grosse lettere il titolo: MATTIA PASCAL È VIVO!
Tra i pochi che non vollero farsi vedere, oltre ai miei creditori, fu Batta Malagna, che pure – mi dissero – aveva due anni avanti mostrato una gran pena per il mio barbaro suicidio. Ci credo. Tanta pena allora, sapendomi sparito per sempre, quanto dispiacere adesso, sapendomi ritornato alla vita. Vedo il perché di quella e di questo.
E Oliva? L’ho incontrata per via, qualche domenica, all’uscita della messa, col suo bambino di cinque anni per mano, florido e bello come lei: – mio figlio! Ella mi ha guardato con occhi affettuosi e ridenti, che m’han detto in un baleno tante cose…
Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
– Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CUOR GENEROSO ANIMA APERTA
QUI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA’ DEI CONCITTADINI
QUESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda:
– Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
– Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.
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