Il dovere del medico – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Abbandonata su una poltrona, con gli occhi chiusi, senza più forza neanche di sollevare un dito, udiva intanto di là, nella saletta da pranzo, conversare lietamente le tre sorelle col marito, e si struggeva dall’invidia.»

Prime pubblicazioni: La settimana, 22 giugno 1902, col titolo Il gancio, poi col titolo definitivo inLa vita nuda, Treves 1910.

Il dovere del medico
Vincent Van Gogh, Ritratto del dottor Gachet, 1890

Il dovere del medico

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. E sono miei, – pensava Adriana, udendo il cinguettio de’ due bambini nell’altra stanza; e sorrideva tra sé, pur seguitando a intrecciare speditamente una maglietta di lana rossa. Sorrideva, non sapendo quasi credere a se stessa, che quei bambini fossero suoi, che li avesse fatti lei, e che fossero passati tanti anni, già circa dieci, dal giorno in cui era andata sposa. Possibile! Si sentiva ancor quasi fanciulla, e il maggiore dei figli intanto aveva otto anni, e lei trenta, fra poco: trenta! possibile? vecchia a momenti! Ma che! ma che! – E sorrideva.

             – Il dottore? – domandò a un tratto, quasi a se stessa, sembrandole di udir nella saletta d’ingresso la voce del medico di casa; e si alzò, col dolce sorriso ancora su le labbra.

             Le morì subito dopo quel sorriso, assiderato dall’aspetto sconvolto e imbarazzato del dottor Vocalòpulo, che entrava ansante, come se fosse venuto di corsa, e batteva nervosamente le palpebre dietro le lenti molto forti da miope, che gli rimpiccolivano gli occhi.

             –    Oh Dio, dottore?

             –    Nulla… non si agiti…

             –    La mamma?

             –    No no! – negò subito, forte, il dottore. – La mamma, no!

             –    Tommaso, allora? – gridò Adriana. E, poiché il dottore, non rispondendo, lasciava intendere che si trattava proprio del marito: – Che gli è accaduto? Mi dica la verità… Oh Dio, dov’è, dov’è? Il dottor Vocalòpulo tese le mani, quasi per opporre un argine alle domande.

             –    Nulla, vedrà… Una feritina…

             –    Ferito? E lei… Me l’hanno ucciso?

             E Adriana afferrò un braccio al dottore, sgranando gli occhi, come impazzita.

             –    Ma no, ma no, signora… si calmi… una ferita… speriamo leggera…

             –    Un duello?

             –    Sì, – lasciò cadérsi dalle labbra, esitando, il dottore vieppiù turbato.

             –    Oh, Dio, Dio, no… mi dica la verità! – insistette Adriana. – Un duello? Con chi? Senza dirmi nulla?

             –    Lo saprà. Intanto… intanto, calma: pensiamo a lui… Il letto?…

             –    Di là… – rispose ella, stordita, non comprendendo in prima. Poi riprese con ansia più smaniosa: – Dove l’hanno ferito? Lei mi spaventa… Non era con lei, Tommaso? Dov’è? Perché s’è battuto? Con chi? Quand’è stato?… Mi dica…

             –    Piano, piano… – la interruppe il dottor Vocalòpulo, non potendone più. – Saprà tutto… Adesso, è in casa la serva? Per piacere, la chiami. Un po’ di calma, e ordine: dia ascolto a me.

             E mentre ella, quasi istupidita, si faceva a chiamare la serva, il dottore, toltosi il cappello, si passò una mano tremolante su la fronte, come si sforzasse di rammentare qualcosa; poi, sovvenendosi, si sbottonò in fretta la giacca, trasse dalla tasca in petto il portabiglietti e scosse più volte la penna stilografica, pensando alle ordinazioni da scrivere.

             Adriana ritornò con la serva.

             –    Ecco, – disse il Vocalòpulo, seguitando a scrivere. E, appena ebbe finito: – Subito, alla farmacia più vicina… Fiaschi… no, no… andate pure, ve li darà il farmacista stesso. Lesta, mi raccomando.

             –    È molto grave, dottore? – domandò Adriana, con espressione timida e appassionata, come per farsi perdonare la insistenza.

             –    No, le ripeto. Speriamo bene, – le rispose il Vocalòpulo e, per impedire altre domande, aggiunse: – Mi vuol far vedere la camera?

             –    Sì, ecco, venga…

             Ma, appena nella camera, ella domandò ancora, tutta tremante:

             –    Ma come, dottore; lei non era con Tommaso? Assistono pure due medici ai duelli…

             –    Bisognerebbe trasportare il letto un po’ più qua… – osservò il dottore, come se non avesse inteso.

             Entrò, in quel punto, di corsa un bellissimo ragazzo, dalla faccia ardita, coi capelli neri ricci e lunghi, svolazzanti.

             – Mamma, una barella! Quanta gen…

             Vide il medico e s’arrestò di botto, confuso, mortificato, in mezzo alla stanza.

             La madre die un grido e scostò il ragazzo per accorrere dietro al dottore. Su la soglia questi si voltò e la trattenne:

             – Stia qua, signora: sia buona! Vado io, non dubiti… Col suo pianto gli potrà far male…

             Adriana allora si chinò per stringersi forte al seno il figlioletto che le si era aggrappato alla veste, e ruppe in singhiozzi.

             – Perché, mamma, perché? – domandava il ragazzo sbigottito, non comprendendo e mettendosi a piangere anche lui.

             II. A pie della scala il dottore accolse la barella condotta da quattro militi della carità, mentre due questurini, ajutati dal portinajo, impedivano a una folla di curiosi d’entrare.

             – Dottor Vocalòpulo! – gridava un giovanotto tra la folla. Il dottore si voltò e gridò a sua volta alle guardie:

             – Lo lascino passare: è il mio assistente. Entri, dottor .Sia.

             I  quattro militi si riposavano un po’, preparando le cinghie per la salita. Il portone fu chiuso. La gente di fuori vi picchiava con le mani e coi piedi, fischiando, vociando.

             –    Ebbene? – domandò il dottor Vocalòpulo al Sia che sbuffava ancora, tutto sudato. – La donna?

             –    Che corsa, caro professore! – rispose il dottor Cosimo Sia. – La donna? All’ospedale… Sono tutto sudato! Frattura alla gamba e al braccio…

             –    Congestione?

             –    Credo. Non so… Son venuto a tempesta. Che caldo, per bacconaccio! Se potessi avere un bicchier d’acqua…

             II dottor Vocalòpulo scostò un poco la tendina di cerata della barella per vedere il ferito; la riabbassò subito e si volse ai militi:

             – Andiamo, su! Piano e attenzione, figliuoli, mi raccomando.

             Mentre si eseguiva con la massima cautela la penosa salita, allo scalpiccio, al rumor delle voci brevi affannose, si schiudevano sui pianerottoli le porte degli altri casigliani.

             – Piano, piano… – ammoniva, quasi a ogni scalino, il dottor Vocalòpulo.

             Il Sia veniva dietro, asciugandosi ancora il sudore dalla nuca e dalla fronte, e rispondeva ai casigliani:

             – Il signor… come si chiama? Corsi… Quarto piano, è vero?

             Una signora e una signorina, madre e figlia, scapparono su di corsa per la scala con un grido d’orrore, e, poco dopo, s’intesero le grida disperate di Adriana.

             Il Vocalòpulo scosse la testa, contrariato, e voltosi al Sia:

             –    Ci badi lei, mi raccomando, – disse, e salì a balzi le altre due branche di scala fino alla porta del Corsi.

             –    Via, si faccia forza, signora: non gridi così! Non capisce che gli farà male? Prego, signore, la conducano di là!

             –    Voglio vederlo! Mi lascino! Voglio vederlo! – gridava, piangendo e smaniando, Adriana.

             E il medico:

             –    Lo vedrà, non dubiti, non ora però… La conducano di là! La barella era già arrivata.

             –    La porta! – gridò uno dei militi, ansimando.

             Il dottor Vocalòpulo accorse ad aprire l’altro battente della porta, mentre Adriana, divincolandosi, trascinava seco le due vicine, imbalordite, verso la barella.

             –    In quale camera? Prego… Dov’è il letto? – domandò il dottor Sia.

             –    Di qua… ecco! – disse il Vocalòpulo, e gridò alle due pigionali accorse: – Ma la trattengano, perdio! Non son buone neanche da trattenerla?

             –    Oh Dio benedetto! – esclamò la signora del secondo piano, tozza, popputa, parandosi davanti ad Adriana furibonda.

             Le due guardie erano dietro la barella e se ne stavano innanzi alla porta d’ingresso. A un tratto, per la scala, un vociare e un salire frettoloso di gente. Certo il portinajo aveva riaperto il portone, e la folla curiosa aveva invaso la scala.

             Le due guardie tennero testa all’irruzione.

             –    Lasciatemi passare! – gridava tra la ressa su gli ultimi scalini, facendosi largo con le braccia, una signora alta, ossuta, vestita di nero, con la faccia pallida, disfatta, e i capelli aridi, ancor neri, non ostante l’età e le sofferenze evidenti. Si voltava ora di qua ora di là, come se non vedesse: aveva infatti quasi spento lo sguardo tra le palpebre gonfie semichiuse. Pervenuta alla fine innanzi alla porta, con l’ajuto di un giovinotto ben vestito, che le veniva dietro, fu su la soglia fermata dalle guardie:

             –    Non si entra!

             – Sono la madre! – rispose imperiosamente e, con un gesto che non ammetteva replica, scostò le guardie e s’introdusse in casa.

             Il giovinotto ben vestito sguisciò dentro, dietro a lei, dandosi a vedere come uno della famiglia anche lui.

             La nuova arrivata si diresse a una stanza quasi buja, con un sol finestrino ferrato presso il tetto. Non discernendo nulla, chiamò forte:

             – Adriana!

             Questa, che se ne stava tra le due pigionali che cercavano scioccamente di confortarla, balzò in piedi, gridando:

             –    Mamma!

             –    Vieni! vieni con me, figlia mia! povera figlia mia! Andiamocene subito! – disse in fretta, con voce vibrante di sdegno e di dolore, la vecchia signora. – Non m’abbracciare! Tu non devi rimanere più qua un solo minuto!

             –    Oh! mamma! mamma mia! – piangeva intanto Adriana, con le braccia al collo della madre. Questa si sciolse dall’abbraccio, gemendo:

             –    Figlia disgraziata, più di tua madre!

             Poi dominando la commozione, riprese con l’accento di prima:

             –    Un cappello, subito! uno scialle! Prendi questo mio… Andiamocene subito, coi bambini… Dove sono? Già mi scottano i piedi, qua… Maledici questa casa, com’io la maledico!

             –    Mamma… che dici, mamma? – domandò Adriana, smarrita nell’atroce cordoglio.

             –    Ah, non sai? Non sai nulla ancora? non t’hanno detto nulla? non hai nulla sospettato? Tuo marito è un assassino! – gridò la vecchia signora.

             –    Ma è ferito, mamma!

             –    Da sé s’è ferito, con le sue mani! Ha ucciso il Nori, capisci? Ti tradiva con la moglie del Nori… E lei s’è buttata dalla finestra…

             Adriana cacciò un urlo e s’abbandonò su la madre, priva di sensi. Ma la madre, non badandole, sorreggendola, seguitava a dirle tutta tremante:

             – Per quella lì… per quella lì… te, te, figlia, angelo mio, ch’egli non era degno di guardare… Assassino!… Per quella lì… capisci? capisci?

             E con una mano le batteva dolcemente la spalla, carezzandola, quasi ninnandola con quelle parole.

             –    Che disgrazia! che tragedia! Ma com’è avvenuto? – domandò sottovoce la signora tozza del secondo piano al giovinotto ben vestito che si teneva in un angolo, con un taccuino in mano.

             –    Quella è la moglie? – domandò il giovinotto a sua volta, in luogo di rispondere. – Scusi, saprebbe dirmi il casato?

             –    Di lei?… Sì, fa Montesani, lei.

             –    E il nome, scusi?

             –    Adriana. Lei è giornalista?

             –    Zitta, per carità! A servirla. E mi dica, quella è la madre, è vero?

             –    La madre di lei, la signora Amalia, sissignore.

             –    Amalia, grazie, grazie. Una tragedia, sì signora, una vera tragedia…

             –    E morta lei, la Nori?

             –    Ma che morta! La mal’erba, lei m’insegna… È morto lui, invece, il marito.

             –    Il giudice?

             –    Giudice? No, sostituto procuratore del re.

             –    Sì, quel giovane… brutto, insomma, mingherlino, calabrese, venuto da poco… Erano tanto amici col signor Tommaso!

             –    Eh, si sa! – sghignò il giovinotto. – Avviene sempre così, lei m’insegna… Ma, scusi, il Corsi dov’è? Vorrei vederlo… Se lei m’indicasse…

             –    Ecco, vada di là… Dopo quella stanza, l’uscio a destra.

             –    Grazie, signora. Scusi un’altra domanda: Quanti figliuoli?

             –    Due. Due angioletti! Un maschietto di otto anni, una bambina di cinque…

             –    Grazie di nuovo; scusi…

             Il giovinotto s’avviò, seguendo l’indicazione, alla camera del ferito. Passando per la saletta d’ingresso, sorprese il bel ragazzo del Corsi che, con gli occhi sfavillanti, un sorriso nervoso su le labbra e le mani dietro la schiena, domandava a una delle guardie:

             –   E dimmi una cosa: come gli ha sparato, col fucile?

             III. Tommaso Corsi, col torso nudo, poderoso, sorretto da guanciali, teneva i grandi occhi neri e lucidissimi intenti sul dottor Vocalòpulo, il quale, scamiciato, con le maniche rimboccate su le magre braccia pelose, premeva e studiava da presso la ferita. Di tanto in tanto gli occhi del Corsi si levavano anche su l’altro medico, come se, nell’attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancargli dentro, volesse coglierne il segno o il momento negli occhi altrui. L’estremo pallore cresceva bellezza al suo maschio volto di solito acceso.

             Ora egli fissò sul giornalista, che entrava timido, perplesso, uno sguardo fiero, come se gli domandasse chi fosse e che volesse. Il giovinotto impallidì, appressandosi al letto, pur senza poter chinare gli occhi, quasi ammaliato da quello sguardo.

             –   Oh, Vivoli! – disse il dottor Vocalòpulo, voltandosi appena. Il Corsi chiuse gli occhi, traendo per le nari un lungo respiro.

             Lello Vivoli aspettò che il Vocalòpulo gli volgesse di nuovo lo sguardo; ma poi, impaziente:

             – Ss, – lo chiamò piano e, accennando il giacente, domandò come stesse, con un gesto della mano.

             Il dottore alzò le spalle e chiuse gli occhi, poi con un dito accennò la ferita alla mammella sinistra.

             – Allora… – disse il Vivoli, alzando una mano in atto di benedire.

             Una goccia di sangue si partì dalla ferita e rigò lungamente il petto. Il dottore la deterse con un bioccolo di bambagia, dicendo quasi tra sé:

             –    Dove diavolo si sarà cacciata la palla?

             –    Non si sa? – domandò timidamente il Vivoli, senza staccar gli occhi dalla ferita, non ostante il ribrezzo che ne provava. – E di’, sai di che calibro era?

             –    Nove… calibro nove, – interloquì con evidente soddisfazione il giovine dottor Sia. – Dalla ferita si può arguire…

             –    Suppongo, – rispose il Vocalòpulo accigliato, assorto, – che si sia cacciata qua sotto la scapola… Eh sì, purtroppo… il polmone…

             E torse la bocca.

             Indovinare, determinare il corso capriccioso della palla: per il momento, non si trattava d’altro per lui. Gli stava davanti un paziente qualunque, sul quale egli doveva esercitare la sua bravura, valendosi di tutti gli espedienti della sua scienza: oltre a questo suo compito materiale e limitato non vedeva nulla, non pensava a nulla. Solo, la presenza del Vivoli gli fece considerare che, essendo il Corsi conosciutissimo nella città e avendo quella tragedia sconvolto tutta la cittadinanza, poteva giovargli che il pubblico sapesse che il dottor Vocalòpulo era il medico curante.

             – Oh, Vivoli, dirai che è affidato alle mie cure.

             Il dottor Cosimo Sia dall’altra sponda del letto tossì leggermente.

             – E puoi aggiungere, – riprese il Vocalòpulo, – che sono assistito dal dottor Cosimo Sia: te Io presento.

             Il Vivoli chinò appena il capo, con un lieve sorriso. Il Sia, che s’era precipitato con la mano tesa per stringer quella del Vivoli, all’inchino sostenuto di questo, restò goffo, arrossì, trinciò in aria con la mano già tesa un saluto, come per dire: «Ecco, fa lo stesso: Saluto così!».

             Il moribondo schiuse gli occhi e aggrottò le ciglia. I due medici e il Vivoli lo guardarono quasi con paura.

             – Adesso lo fasceremo, – disse con voce premurosa, chinandosi su lui, il Vocalòpulo.

             Tommaso Corsi scosse la testa sul guanciale, poi riabbassò lentamente le palpebre su gli occhi foschi, come se non avesse compreso: così almeno parve al dottor Vocalòpulo, il quale, storcendo un’altra volta la bocca, mormorò:

             –    La febbre…

             –    Io scappo, – disse piano il Vivoli, salutando con la mano il Vocalòpulo e di nuovo inchinando appena il capo al Sia, che rispose, questa volta, con un inchino frettoloso.

             –    Sia, venga da questa parte. Bisogna sollevarlo. Ci vorrebbero due dei nostri infermieri… – esclamò il Vocalòpulo. – Basta, ci proveremo. Ma tengo a fare una sola fasciatura, ben solida, e lì.

             –    Lo laviamo, ora? – domandò il Sia.

             –    Sì! L’alcool dov’è? e il catino, prego. Così, aspetti… Intanto, lei prepari le fasce. Preparate? Poi la vescica di ghiaccio.

             Tommaso Corsi, allorché il dottor Vocalòpulo si fece a fasciarlo, aprì gli occhi, s’infoscò in volto, tentò con una mano di scostar dal petto quelle del dottore, dicendo con voce cavernosa:

             –    No… no…

             –    Come no? – domandò, sorpreso, il dottor Vocalòpulo.

             Ma un empito di sangue impedì al Corsi di rispondere, e le parole gli gorgogliarono nella strozza soffocate dalla tosse. Poi giacque, prostrato, privo di. sensi.

             E allora fu ripulito e fasciato a dovere dai due medici curanti.

             IV. – No, mamma, no… E come potrei? – rispose Adriana, appena rinvenuta, all’ingiunzione della madre d’abbandonar la casa del marito insieme coi figliuoli.

             Si sentiva quasi inchiodata lì, su la seggiola, stordita e tremante, come se un fulmine le fosse caduto da presso. E invano la madre le smaniava innanzi e la spingeva:

             – Via, via, Adriana! Non mi senti?

             Si era lasciata mettere uno scialletto addosso e il cappello, e guardava innanzi a sé, come una mendicante. Non riusciva ancora a farsi un’idea dell’accaduto. Che le diceva la madre? d’abbandonar quella casa? e come mai, in quel momento? O prima o poi avrebbe dovuto abbandonarla pur sempre? Perché? Il marito non le apparteneva più? Si era spenta in lei l’ansia di vederlo. Che volevano intanto quelle due guardie che la madre le accennava lì nella saletta d’ingresso?

             –    Meglio che muoja! Se vive, in galera!

             –    Mamma! – supplicò, guardandola. Ma riabbassò subito gli occhi per trattenere le lagrime. Sul volto della madre rilesse la condanna del marito: «Ha ucciso il Nori; ti tradiva con la moglie del Nori». Non sapeva però, né poteva ancor quasi pensarlo, né immaginarlo: si vedeva ancora la barella sotto gli occhi e non poteva immaginare altri che lui – Tommaso – ferito, forse moribondo, lì… E Tommaso dunque aveva ucciso il Nori? aveva una tresca con Angelica Nori. e tutt’e due erano stati scoperti dal marito? Pensò che Tommaso portava sempre con sé la rivoltella. Per il Nori? No: l’aveva sempre portata, e il Nori e la moglie erano in città da un anno soltanto.

             Nello scompiglio della coscienza, una moltitudine d’immagini si ridestavano in lei tumultuosamente: l’una chiamava l’altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità. Quei due eran venuti da un paese di Calabria accompagnati da una lettera di presentazione a Tommaso, il quale li aveva accolti con la festosa espansione della sua indole sempre gioconda, con aria confidenziale, col sorriso schietto di quel suo maschio volto, in cui gli occhi lampeggiavano, esprimendo la vitalità piena, l’energia operosa, costante, che lo rendevano caro a tutti.

             Da quest’indole vivacissima, da questa natura esuberante, in continuo bisogno d’espandersi quasi con violenza, ella era stata investita fin dai primi giorni del matrimonio: s’era sentita trascinare dalla fretta ch’egli aveva di vivere: anzi furia, più che fretta: vivere senza tregua, senza tanti scrupoli, senza tanto riflettere; vivere e lasciar vivere, passando sopra a ogni impedimento, a ogni ostacolo. Più volte ella si era arrestata un po’ in questa corsa, per giudicare fra sé qualche azione di lui non stimata perfettamente corretta. Ma egli non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti. Ed ella sapeva ch’era inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto: scrollava le spalle, sorrideva, e avanti! aveva bisogno d’andare avanti a ogni modo, per ogni via, senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male; e rimaneva sempre alacre e schietto, purificato dall’attività incessante, e sempre lieto e largo di favori a tutti, con tutti alla mano: a trent’otto anni, un fanciullone, capacissimo di mettersi a giocar sul serio coi due figliuoli, e ancora, dopo dieci anni di matrimonio, così innamorato di lei, che ella tante volte, anche di recente, aveva dovuto arrossire per qualche atto imprudente di lui innanzi ai bambini o alla serva.

             E ora, così d’un colpo, quest’arresto fulmineo, questo scoppio! Ma come? come? La cruda prova del fatto non riusciva ancora a dissociare in lei i sentimenti, più che di solida stima, d’amore fortissimo e devoto per il marito, da cui si sentiva in cuor suo ricambiata.

             Forse qualche lieve inganno, sì, sotto quella tumultuosa vitalità; ma la menzogna, no, la menzogna non poteva annidarsi sotto l’allegria costante di lui. Che egli avesse una tresca con Angelica Nori, non significava, no, aver tradito lei, la moglie; e questo la madre non poteva comprenderlo, perché non sapeva, non sapeva tante cose… Egli non poteva aver mentito con quelle labbra, con quegli occhi, con quel riso che allegrava tutti i giorni la casa. – Angelica Nori? Oh ella sapeva bene che cosa fosse costei, anche per il marito: neppure un capriccio: nulla, nulla! la prova soltanto d’una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal cadere… Ma in quale abisso era egli adesso caduto? e la sua casa e lei coi figliuoli giù, giù con lui?

             – Figli miei! figli miei! – proruppe alla fine, singhiozzando, con le mani sul volto, quasi per non veder l’abisso che le si spalancava orribile davanti. – Portali via con te, – aggiunse, rivolgendosi alla madre. – Loro sì, portali via, che non vedano… Io no, mamma: io resto. Te ne prego…

             Si alzò e, cercando alla meglio di trattener le lagrime, andò, seguita dalla madre, in cerca dei bambini che giocavano tra loro in un camerino, ove la serva li aveva chiusi. Si mise a vestirli, soffocando i singhiozzi che le irrompevano dal petto a ogni loro lieta domanda infantile.

             – Con la nonna, sì… a spasso con la nonna… E il cavalluccio, sì… la sciabola pure… Te li compra la nonna…

             Questa contemplava, straziata, la sua cara figliuola, la creatura sua adorata, tanto buona, tanto bella, per cui tutto ormai era finito; e, nell’odio feroce contro colui che gliela faceva soffrir così, avrebbe voluto strapparle dalle mani quel bambino che somigliava tutto al padre, fin nella voce e nei gesti.

             –    Non vuoi proprio venire? – domandò alla figlia, quando i bambini furono pronti. – Io, bada, qua non metto più piede. Resti sola… La casa di tua madre è aperta. Ci verrai, se non oggi, domani. Ma già, anche se non morisse…

             –    Mamma! – supplicò Adriana, additandole i bambini.

             La vecchia signora tacque e andò via coi nipotini, vedendo uscire dalla camera del ferito il dottor Vocalòpulo.

             Questi si appressò ad Adriana per raccomandarle di non farsi vedere per il momento dal marito.

             – Un’emozione improvvisa, anche lieve, potrebbe riuscirgli fatale. Non si faccia nulla, per carità, che possa contrariarlo o impressionarlo in qualche modo. Questa notte resterà a vegliarlo il mio collega. Se ci fosse bisogno di me…

             Non terminò il discorso, notando che ella non gli dava ascolto né gli domandava notizie intorno alla gravità della ferita, e che aveva in capo il cappellino, come se stesse per abbandonare la casa. Socchiuse gli occhi, scosse un po’ il capo, sospirando, e andò via.

             V. Nella notte, Tommaso Corsi si riscosse incosciente dal letargo. Stordito dalla febbre, teneva gli occhi aperti nella penombra della camera. Un lampadino ardeva sul cassettone, riparato da uno specchio a tre luci: il lume si projettava su la parete vivamente, precisando il disegno e i colori della carta da parato.

             Aveva solo la sensazione che il letto fosse più alto, e che soltanto per ciò notasse in quella camera qualcosa che prima non vi aveva mai notato. Vedeva meglio l’insieme dell’arredo, il quale, nella quiete altissima, gli pareva spirasse, dall’immobilità sua quasi rassegnata, un conforto familiare, a cui le ricche tende, che dall’alto scendevano fin sul tappeto, davano un’aria insolita di solennità. «Noi siamo qui, come tu ci hai voluti, per i tuoi comodi» pareva gli dicessero, nella coscienza che man mano si risentiva, i varii oggetti della camera: «siamo la tua casa: tutto è come prima».

             A un tratto richiuse gli occhi, quasi abbagliato bruscamente nella penombra da un lampo di luce cruda: la luce che s’era fatta in quell’altra camera, quando colei, urlando, aveva aperto la finestra, d’onde s’era buttata.

             Riebbe allora, d’un subito, la memoria orrenda: rivide tutto, come se accadesse proprio allora.

             Egli, trattenuto dall’istintivo pudore, non riusciva a balzar dal letto, svestito com’era, e il Nori, ecco, gli esplodeva contro il primo colpo che infrangeva il vetro di un’immagine sacra al capezzale; egli tendeva la mano alla rivoltella sul comodino, ed ecco il sibilo della seconda palla innanzi al volto… Ma non ricordava d’aver tirato sul Nori: solo quando questi era caduto a sedere sul pavimento, e poi s’era ripiegato bocconi, egli s’era accorto d’aver l’arma ancor calda e fumante in pugno. Era allora saltato dal letto e, in un attimo, entro di sé, la tremenda lotta di tutte le energie vitali contro l’idea della morte; prima, l’orrore di essa; poi la necessità e il sorgere d’un sentimento atroce, oscuro, a vincere ogni ripugnanza e ogni altro sentimento. Aveva guardato il cadavere, la finestra donde quella era saltata; aveva udito i clamori della via sottostante, e s’era sentito aprire come un abisso nella coscienza: allora la determinazione violenta gli s’era imposta lucidamente, come un atto a lungo meditato e discusso. Sì. Così era stato.

             «No», diceva a se stesso, un istante dopo, riaprendo gli occhi brillanti di febbre. «No; se questa è la mia casa, se io sto qui sul mio letto…»

             Gli pareva di udir voci liete e confuse di là, nelle altre stanze.

             Aveva fatto mettere quelle tende nuove e i tappeti alle stanze per il battesimo dell’ultimo bambino, morto di venti giorni. Ecco, gli invitati tornavano or ora dalla chiesa. Angelica Nori, a cui egli offriva il braccio, glielo stringeva a un tratto furtivamente con la mano; egli si voltava a guardarla, stupito, ed ella accoglieva quello sguardo con un sorriso impudente, da scema, e chiudeva voluttuosamente le palpebre su i grandi occhi neri, globulenti, in presenza di tutti.

             «Quel bambino è morto», pensava ora egli, «perché l’ha tenuto a battesimo colui, ch’era fra l’altro un jettatore.»

             Immagini imprevedute, visioni strane, confuse, sensazioni fantastiche, improvvise, pensieri lucidi e precisi, si avvicendavano in lui, nel delirio intermittente.

             Sì, sì, lo aveva ucciso. Ma due volte quel forsennato s’era messo per uccider lui, ed egli nel volgersi per prendere l’arma dal comodino gli aveva gridato sorridendo: – Che fai? – tanto gli pareva impossibile che colui, prima ch’egli si vedesse costretto a minacciarlo e a reagire, non comprendesse ch’era un’infamia, una pazzia ucciderlo a quel modo, in quel momento, uccider lui che si trovava lì per caso, che aveva tant’altra vita fuori di lì: i suoi affari, gli affetti suoi vivi e veri, la sua famiglia, i figli da difendere. Eh via, disgraziato!

             Come mai tutt’a un tratto, quell’omiciattolo sbricio, brutto, scialbo, dall’anima apatica, attediata, che si trascinava nella vita senza alcuna voglia, senz’alcun affetto, e che da tant’anni si sapeva spudoratamente ingannato dalla moglie e non se ne curava, a cui pareva costasse pena e fatica guardare o trar fuori quella sua voce molle miagolante; come mai, tutt’a un tratto, s’era sentito muovere il sangue e per lui soltanto? Non sapeva che donna fosse sua moglie? e non sentiva ch’era una cosa ridicola e pazza e infame nello stesso tempo difender a quel modo ancora l’onor suo affidato a colei, che ne aveva fatto strazio tant’anni, senza che egli avesse mai mostrato d’accorgersene? Ma aveva pure assistito – sì, sì – a tante scene familiari, in cui ella, proprio sotto gli occhi di lui, sotto gli occhi stessi d’Adriana, aveva cercato di sedurlo con quei suoi lezii da scimmietta patita. Adriana sì se n’era accorta, e lui no? Ne avevano riso tanto insieme, lui e Adriana. Per una donna come quella lì, dunque, sul serio, una tragedia? Lo scandalo, la morte di lui, la sua morte? Oh, per quel disgraziato, forse, era stata un bene la morte; un regalo! Ma egli… doveva egli morire per così poco? Sul momento, col cadavere sotto gli occhi, assalito dai clamori della via, aveva creduto di non poter farne a meno. Ebbene, e intanto come mai non era tutto finito? Egli viveva ancora, lì, nella sua stessa camera tranquilla, coricato sul suo letto, come se nulla fosse accaduto. Ah, se veramente fosse un sogno orribile!… No: e quel dolore cocente al petto, che gli toglieva il respiro? E poi il letto…

             Stese pian piano un braccio nel posto accanto; vuoto… ecco! Adriana… Sentì di nuovo l’abisso aprirglisi dentro. Dov’era ella? e i figliuoli? Lo avevano abbandonato? Solo, dunque, nella casa? e come mai?

             Riaprì gli occhi per accertarsi, se quella fosse veramente la sua camera da letto. Sì: tutto come prima. Allora un dubbio crudele, in quell’alternativa di delirio e di lucidità mentale, lo vinse: non sapeva più se, aprendo gli occhi, vedesse per allucinazione la sua camera che spirava la pace consueta, o se sognasse chiudendo gli occhi e rivedendo, con lucidezza di percezione ch’era quasi realtà, l’orribile tragedia della mattina. Emise un gemito, e subito davanti a gli occhi si vide un volto sconosciuto; sentì posarsi una mano su la fronte, la cui pressione lo confortava, e richiuse gli occhi sospirando, sentendo di dover rassegnarsi a non comprendere più nulla, a non saper che cosa fosse veramente accaduto. Era fors’anche sogno quel volto or ora intraveduto, la mano che gli premeva la fronte… E ricadde nel letargo.

             Il dottor Sia si accostò in punta di piedi a un angolo della camera quasi al bujo, dove Adriana vegliava nascosta.

             – Forse è meglio, – le disse sottovoce, – che si mandi per il dottor Vocalòpulo. La febbre cresce e l’aspetto non mi…

             S’interruppe; le domandò:

             – Vuol vederlo?

             Adriana fece segno di no col capo, angosciata. Poi, sentendo di non poter trattenere un empito improvviso di pianto, balzò in piedi e scappò via dalla camera.

             Il dottor Sia richiuse, cauto, l’uscio per impedire che giungesse all’orecchio del morente il pianto convulso della moglie; poi tolse dal petto di lui la vescica, ne vuotò l’acqua e, riempitala novamente di pezzetti di ghiaccio, la ripose su la fasciatura al posto della ferita.

             – Ecco fatto.

             Osservò quindi di nuovo, a lungo, il volto del giacente, ne ascoltò la respirazione affannosa; poi, non avendo altro da fare, e come se per lui bastasse l’aver provveduto al ghiaccio e l’aver fatto quelle osservazioni, ritornò al proprio posto, alla poltrona, dall’altra parte del letto.

             Lì, con gli occhi chiusi, godeva di lasciarsi prendere a mano a mano dal sonno, spegnendo gradatamente in sé la volontà di resistervi, fino al punto estremo in cui il capo gli dava un crollo: schiudeva allora gli occhi e tornava da capo ad abbandonarsi a quella voluttà proibita, che quasi lo inebriava.

             VI. Le complicazioni temute dal dottor Vocalòpulo si verificarono pur troppo: prima e più grave fra tutte, l’infiammazione polmonare, che cagionava quell’altissima febbre.

             Senza alcuna preoccupazione estranea alla scienza, di cui era fervidamente appassionato, il dottor Vocalòpulo raddoppiò lo zelo, come se si fosse fatta una fissazione di salvare a ogni costo quel moribondo.

             Negli infermi sotto la sua cura egli non vedeva uomini ma casi da studiare: un bel caso, un caso strano, un caso mediocre o comune; quasi che le infermità umane dovessero servire per gli esperimenti della scienza, e non la scienza per le infermità. Un caso grave e complicato lo interessava sempre a quel modo; ed egli allora non sapeva staccare più il pensiero dal malato: metteva in pratica le più recenti esperienze delle primarie cliniche del mondo, di cui consultava scrupolosamente i bollettini, le rassegne e le minute esposizioni dei tentativi, degli espedienti dei più grandi luminari della scienza medica, e spesso adottava le cure più arrischiate con fermo coraggio, con fiducia incrollabile. Si era costituita così una grande reputazione. Ogni anno faceva un viaggio e ritornava entusiasta degli esperimenti a cui aveva assistito, soddisfatto di qualche nuova cognizione appresa, provvisto di nuovi e più perfezionati strumenti chirurgici, che disponeva – dopo averne studiato minutamente il congegno e averli ripuliti con la massima cura – entro l’armamentario di cristallo, che aveva la forma di un’urna, lì, in mezzo al camerone da studio, e, chiusi, li contemplava ancora, stropicciandosi le mani solide, sempre fredde, o stirandosi con due dita il naso armato di quel pajo di lenti fortissime, che accrescevano la rigidezza austera del suo volto pallido, lungo, equino.

             Attorno al letto del Corsi condusse alcuni suoi colleghi, a studiare, a discutere; spiegò tutti i suoi tentativi, l’uno più nuovo e più ingegnoso dell’altro, finora però riusciti vani. Il ferito, sotto quell’altissima febbre, restava in uno stato quasi letargico, interrotto tuttavia da certe crisi di smania delirante, nelle quali, più d’una volta, eludendo la vigilanza, aveva finanche tentato di disfare la fasciatura.

             Di questo «fenomeno» il Vocalòpulo non si era curato più di tanto; gli era bastato di raccomandare al dottor Sia maggiore attenzione. Aveva potuto, per mezzo della radiografia, estrarre il projettile di sotto l’ascella, aveva rischiosamente applicato i lenzuoli freddi per abbassare la temperatura. E finalmente c’era riuscito! La febbre era abbassata, l’infiammazione polmonare era vinta, il pericolo quasi superato. Nessun compenso materiale avrebbe potuto uguagliare la soddisfazione morale del dottor Vocalòpulo. Era raggiante; e il dottor Sia con lui, per riflesso.

             –    Collega, collega, qua la mano! Questo si chiama vincere. Il Sia gli rispondeva con una sola parola:

             –    Miracoloso!

             Ora la primavera imminente avrebbe senza dubbio affrettato la convalescenza.

             Già l’infermo cominciava a risentirsi un po’, a uscir dallo stato d’incoscienza in cui s’era mantenuto per tanti giorni. Ma non sapeva ancora, non sospettava neppure, come si fosse ridotto.

             Una mattina, si provò a sollevare le mani dal letto, per guardarsele e, nel veder le dita esangui tremolare, sorrise. Si sentiva ancora come nel vuoto, in un vuoto però tranquillo, soave, di sogno. Solo qualche minuzia, lì, nella camera, gli s’avvistava di tratto in tratto: un fregio dipinto nel soffitto, la peluria verde della coperta di lana sul letto, che gli richiamava alla memoria i fili d’erba d’un prato o d’una ajuola; e vi concentrava tutta l’attenzione, beato; poi, prima di stancarsene, richiudeva gli occhi e provava un dolce smarrimento d’ebbrezza, vaneggiava in una delizia ineffabile.

             Tutto, tutto era finito; la vita ricominciava adesso… Ma non era forse rimasta sospesa anche per gli altri? No, no: ecco: un rumor di vettura… Fuori, per le vie, la vita in tutto quel tempo aveva seguito il suo corso…

             Provò come una vellicazione irritante al ventre, a questo pensiero che oscuramente lo contrariava; e si rimise a guardar la calugine verde della coperta, dove gli pareva di veder la campagna: qua la vita, sì, ricominciava veramente, con tutti quei fili d’erba… E anche così per lui ricominciava… Nuovo, tutto nuovo, egli si sarebbe riaffacciato alla vita… Un po’ d’aria fresca! Ah, se il rhedico avesse voluto aprirgli un tantino la finestra…

             – Dottore, – chiamò; e la sua stessa voce gli fece una strana impressione. Ma nessuno rispose. Si provò a guardar nella camera. Nessuno… Come mai?

             Dov’era? – Adriana! Adriana! – Un’angosciosa tenerezza per la moglie lo vinse; e si mise a piangere come un bambino, nel desiderio cocente di buttarle le braccia al collo e stringersela forte, forte al petto… Chiamò di nuovo, nel dolce pianto:

             – Adriana! Adriana!… Dottore!

             Nessuno sentiva? Sgomento, allora, soffocato, stese un braccio al campanello sul comodino; ma avvertì subito un’acuta trafittura interna, che lo tenne un tratto quasi senza respiro, col volto pallido, contratto dallo spasimo; poi sonò, sonò furiosamente. Accorse, con la sua aria spiritata, il dottor Sia:

             –    Eccomi! Che abbiamo, signor Tommaso? –

             –    Solo! Mi hanno lasciato solo…

             –    Ebbene? E perché codesta agitazione? Eccomi qua.

             –    No. Adriana! Mi chiami Adriana… Dov’è? Voglio vederla. Comandava ora, eh? Il dottor Sia fece un viso lungo lungo e piegò il capo da

             un lato:

             –    Così, no! Se non si calma, no.

             –    Voglio veder mia moglie! – replicò egli stizzito, imperioso. – Può proibirmelo lei?

             Il Sia sorrise, perplesso:

             – Ecco… vorrei che… No no, si stia zitto: vado a chiamargliela.

             Non ce ne fu bisogno. Adriana era dietro l’uscio: si asciugò in fretta le lagrime, accorse, si buttò singhiozzando tra le braccia del marito, come in un abisso d’amore e di disperazione. Egli non provò dapprima che la gioja di tenersi così stretta quella sua adorata, il cui calore, l’odor dei capelli, lo inebriavano. Quanto, quanto, quanto la amava… Ma, a un tratto, la sentì singhiozzare. Si provò a sollevarle con tutt’e due le mani il capo che si affondava su lui; non ne ebbe la forza, e si volse, stordito, al dottor Sia. Questi accorse e costrinse la signora a strapparsi dal letto; la condusse, sorreggendola in quella crisi violenta di pianto, fuori della camera; poi ritornò presso il convalescente.

             – Perché? – domandò il Corsi, sconvolto.

             Un pensiero gli attraversò la mente, in un baleno. Senza badare alla risposta del medico, il Corsi richiuse gli occhi, trafitto. «Non mi perdona» pensò.

             VII. Alle notizie di miglioramento, di prossima guarigione era cresciuta la sorveglianza alla casa del ferito. Il dottor Vocalòpulo, temendo che l’autorità giudiziaria desse intempestivamente l’ordine che fosse tradotto in carcere, pensò di recarsi da un avvocato amico suo e del Corsi, e a cui il Corsi certamente avrebbe affidato la sua difesa, per pregarlo di andare insieme dal questore a impegnar la loro parola, che l’infermo non avrebbe in alcun modo tentato di sottrarsi alla giustizia.

             L’avvocato Camillo Cunetta accettò l’invito. Era un uomo sui sessant’anni, smilzo, altissimo di statura, tutto gambe. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhietti neri, acuti, d’una vivacità straordinaria. Dotto più di filosofia che di legge, scettico, oppresso dalla noja della vita, stanco delle amarezze che essa gli aveva procacciate, non aveva mai posto alcun impegno a guadagnarsi la grandissima fama di cui godeva e che gli aveva procurato una ricchezza di cui non sapeva più che farsi. La moglie, donna bellissima, insensibile, dispotica, che lo aveva torturato per tanti anni, gli s’era uccisa per neurastenia; l’unica figliuola gli era fuggita di casa con un misero scritturale del suo studio ed era morta soprapparto, dopo aver sofferto un anno di maltrattamenti dal marito indegno. Era rimasto solo, senza più scopo nella vita, e aveva rifiutato ogni carica onorifica, la soddisfazione di far valere le sue doti non comuni in una grande città. E mentre i suoi colleghi si presentavano al banco dell’accusa o della difesa armati di cavilli, abbottati di procedura, o si empivano la bocca di paroloni altisonanti; egli, che non poteva soffrire la toga che l’usciere gli poneva su le spalle, si alzava con le mani in tasca e si metteva a parlare ai giurati, ai giudici, con la massima naturalezza, alla buona, cercando di presentare con la maggiore evidenza possibile qualche pensiero che potesse logicamente far loro impressione; distruggeva con irresistibile arguzia le magnifiche architetture oratorie de’ suoi avversarii, e riusciva così talvolta ad abbattere i confini formalistici del tristo ambiente giudiziario, perché un’aura di vita vi spirasse, vi passasse un soffio doloroso di umanità, di pietà fraterna, oltre e sopra la legge, per l’uomo nato a soffrire, a errare.

             Ottenuta dal questore la promessa che la traduzione in carcere non sarebbe avvenuta se non dopo il consenso del medico, egli e il dottor Vocalòpulo si recarono insieme alla casa del Corsi.

             In pochi giorni Adriana si era cangiata così, che non pareva più lei.

             –    Eccole, signora, il nostro caro avvocato, – le disse il Vocalòpulo. – Sarà meglio preparare a poco a poco il convalescente alla dura necessità…

             –    E come, dottore? – esclamò Adriana. – Pare che egli non ne abbia ancora il più lontano sospetto. E come un fanciullo… si commuove per ogni nonnulla… • Giusto questa mattina mi diceva che, appena in grado di muoversi, vuole andare in campagna, in villeggiatura per un mese…

             Il Vocalòpulo sospirò, stirandosi al solito il naso. Stette un po’ a pensare, poi disse:

             –    Aspettiamo qualche altro giorno. Intanto facciamogli vedere l’avvocato. Non è possibile che il pensiero della punizione non gli si affacci.

             –    E lei crede, avvocato, – domandò Adriana, – crede che sarà grave?

             Il Cimetta chiuse gli occhi, aprì le braccia. Gli occhi di Adriana si riempirono di lagrime.

             Giunse, in quella, dall’altra stanza la voce dell’infermo. Subito Adriana accorse.

             – Mi permettano!

             Tommaso le tendeva le braccia dal letto. Ma appena le vide gli occhi rossi di pianto, le prese un braccio e, nascondendovi il volto, le disse:

             – Ancora, dunque? non mi perdoni ancora?

             Adriana strinse le labbra tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgavano dagli occhi; e non trovò in prima la voce per rispondergli.

             –    No? – insistette egli, senza scoprire il volto.

             –    Io sì, – rispose Adriana, angosciata, timidamente.

             – E allora? – ripigliò il Corsi, guardandola negli occhi lagrimosi. Le prese il volto tra le mani, e aggiunse:

             – Lo comprendi, lo senti, è vero? che tu mai, mai, nel mio cuore, nel mio pensiero, non sei venuta mai meno, tu santa mia, amore, amore mio…

             Adriana gli carezzò lievemente i capelli.

             – È stata un’infamia! – riprese egli. – Sì, è bene, è bene che te lo dica, per togliere ogni nube fra noi. Un’infamia sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio… Tu lo comprendi, se mi hai perdonato! Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d’uccidermi, capisci? due volte… Uccider me, proprio me, che dovevo per forza difendermi… perché… tu lo comprendi! non potevo lasciarmi uccidere per quella lì, è vero?

             –   Sì, sì, – diceva Adriana, piangendo, per calmarlo, più col cenno che con la voce.

             –   È vero? – seguitò egli con forza. – Non potevo… per voi! Glielo dissi; ma egli era come impazzito, tutt’a un tratto; m’era venuto sopra, con l’arma in pugno… E allora io, per forza…

             –   Sì, sì, – ripetè Adriana, ringojando le lagrime. – Calmati, sì… Queste cose…

             S’interruppe, vedendo il marito abbandonarsi sfinito sui guanciali, e chiamò forte:

             – Dottore! Queste cose, – seguitò alzandosi e chinandosi sul letto, premurosa,

             – tu le dirai… le dirai ai giudici, e vedrai che…

             Tommaso Corsi si rizzò improvvisamente su un gomito e guardò fisso il dottore e il Cimetta che gli si facevano incontro.

             – Ma io, – disse, – eh già… il processo… Allividì. Ricadde sul letto, annichilito.

             –    Formalità… – si lasciò cadere dalle labbra il Vocalòpulo, accostandosi di più al letto.

             –    E quale altra punizione, – fece il Corsi, quasi tra sé, guardando il soffitto con gli occhi sbarrati, – quale altra punizione maggiore di quella che mi son data io, con le mie mani?

             Il Cimetta trasse una mano dalla tasca e agitò l’indice in segno negativo.

             – Non conta? – domandò il Corsi. – E allora?… – si provò a replicare; ma si riprese: – Eh già! Sì, sì… Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito… Adriana!

             – chiamò, e le buttò di nuovo le braccia al collo. – Adriana! Sono perduto! Il Cimetta, commosso, tentennò a lungo il capo, poi sbuffò:

             –    E perché? per una minchioneria di passata. Sarà difficile, difficilissimo, caro dottore, farne capace quella rispettabile istituzione che si chiama giuria. Non tanto, vedete, per il fatto in sé, quanto perché si tratta d’un sostituto procuratore del re. Se fosse almeno possibile dimostrare che delle corna precedenti il poveretto s’era già accorto! Ma i mezzi? Un morto non si può chiamare a giurare su la sua parola d’onore… L’onore dei morti se lo mangiano i vermi. Che valore può avere l’induzione contro la prova di fatto? Del resto, siamo giusti: su la propria testa ciascuno è padrone di accoglier quelle corna che gli garbano. Le tue, caro Tommaso, è chiaro, non le volle. Tu dici: «Ma potevo lasciarmi uccidere da lui?». No. Ma se volevi rispettato questo diritto di non aver tolta la vita, non dovevi andare a prendergli la moglie, quella bertuccia vestita! Così facendo, – bada, io vedo adesso le ragioni dell’accusa, – tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire. Capisci? Due falli. Del primo, dell’adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu invece l’hai ucciso…

             –    Per forza! – gridò il Corsi, levando il volto rabbiosamente contratto. – Istintivamente! Per non farmi uccidere!

             –    Ma subito dopo, invece, – rimbeccò il Cimetta – hai tentato di ucciderti con le tue mani.

             – E non deve bastare? Il Cimetta sorrise.

             –    Non può bastare. E anzi a tuo danno, caro mio! Perché, tentando d’ucciderti, hai implicitamente riconosciuto il tuo fallo.

             –    Sì! E mi sono punito!

             –    No, caro, – disse con calma il Cimetta. – Hai tentato di sottrarti alla pena.

             –    Ma togliendomi la vita! – esclamò, infiammato, il Corsi. – Che potevo fare di più?

             Il Cimetta si strinse nelle spalle, e disse:

             –    Avresti dovuto morire. Non essendo morto…

             –    Ma sarei morto, – riprese il Corsi, allontanando la moglie e additando fieramente il dottor Vocalòpulo, – sarei morto, se lui non avesse fatto di tutto per salvarmi!

             –    Come… io? – balbettò il Vocalòpulo, tirato in ballo quando meno se l’aspettava.

             –    Voi! Sì. Per forza! Io non volevo le vostre cure. Per forza avete voluto prodigarmele, ridarmi la vita. E perché, dunque, se ora…

             –    Con calma, con calma… – disse il Vocalòpulo, sorridendo nervosamente a fior di labbra, costernato. – Vi fate male, agitandovi così…

             –    Grazie, dottore! Quanta premura… – sghignò il Corsi. – Vi sta tanto a cuòre l’avermi salvato? Ma senti, Cimetta, sentì! Io voglio ragionare. M’ero ucciso. Viene un dottore, codesto nostro dottore. Mi salva. Con qual diritto mi salva? con qual diritto mi rida la vita ch’io m’ero tolta, se non poteva farmi rivivere per le mie creaturine, se sapeva ciò che m’aspettava?

             Il Vocalòpulo tornò a sorridere nervosamente, intorbidandosi in volto.

             –    Dopo tutto, – disse, – è un bel modo di ringraziarmi, codesto. Che dovevo fare?

             –    Ma lasciarmi morire! – proruppe il Corsi, – se non avevate il diritto di sottrarmi alla pena ch’io m’ero data, molto maggiore del mio fallo! Non c’è più pena di morte; e io sarei morto, senza di voi. Ora come faccio io? Di che debbo ringraziarvi?

             –    Ma noi medici, scusate, – rispose, smarrito, il Vocalòpulo, – noi medici non abbiamo di questi diritti: noi medici abbiamo il dovere della nostra professione. E me n’appello all’avvocato qua presente.

             –    E in che differisce, allora, – domandò con amaro scherno il Corsi, – codesto vostro dovere da quello d’un aguzzino?

             –    Oh insomma! – esclamò, scrollandosi tutto, il Vocalòpulo, – vorreste che un medico passasse sopra la legge?

             –    Ah, bene! Voi dunque la legge avete servito, – riprese il Corsi, con foga rabbiosa. – La legge; non me, poveretto… Mi ero tolta la vita; voi me l’avete ridata a forza. Tre, quattro volte tentai di strapparmi le fasce. Voi avete fatto di tutto per salvarmi, per ridarmi la vita. E perché? Perché la legge, ora, di nuovo me la ritolga, e in un modo più crudele. Ecco: a questo, dottore, vi ha condotto il dovere della vostra professione. E non è un’ingiustizia?

             –    Ma, scusa, – si provò a interloquire il Cimetta, – del male che hai fatto…

             –    Mi sono lavato, col mio sangue! – compì subito la frase il Corsi, tutto acceso e vibrante. – Io sono un altro, ora! Io sono rinato! Come posso restar sospeso a un solo momento di quell’altra mia vita che non esiste più per me? sospeso, agganciato a quel momento, come se esso rappresentasse tutta la mia esistenza, come se io non fossi mai vissuto per altro? E la mia famiglia? mia moglie? i miei figli, a cui devo dare il pane, la riuscita? Ma come! come! Che volete di più? Non avete voluto che morissi… E allora perché? Per vendetta? Contro uno che s’era ucciso…

             –    Ma che pure ha ucciso! – ribatté forte il Cimetta.

             –    Trascinato! – rispose, pronto, il Corsi. – E il rimorso di quel momento io me lo son tolto; in un’ora, io scontai il mio fallo; in un’ora che poteva esser lunga quanto l’eternità. Ora non ho più nulla da scontare, io! Questa è un’altra vita per me, che m’è stata ridata. Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, debbo rimettermi a lavorare per i miei figliuoli. M’avete ridato la vita per mandarmi in galera? E non è un atroce delitto, questo? E che giustizia può esser quella che punisce a freddo un uomo ormai privo di rimorsi? come starò io in un reclusorio a scontare un delitto che non ho pensato di commettere, che non avrei mai commesso, se non vi fossi stato trascinato; mentre, meditatamente, ora, a freddo, coloro che approfitteranno della vostra scienza, dottore, pari la quale mi ha tenuto per forza in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto più atroce, quello di farmi abbrutire in un ozio infame, e di fare abbrutire nei vizii della miseria e nell’ignominia i miei figliuoli innocenti? Con quale diritto?

             Si rizzò sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impotenza rendeva feroce: cacciò un urlo e s’afferrò con le dita artigliate la fascia e se la stracciò; poi si riversò bocconi sul letto, convulso; tentò di scoppiare in singhiozzi, ma non potè. Nella vanità di quello sforzo tremendo, rimase un tratto stordito, come in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole. Diventò cadaverico nel volto segnato dallo strappo recente delle dita.

             Adriana spaventata, accorse; gli sollevò prima il capo, poi, ajutata dal (limetta, si provò a rialzarlo, ma ritrasse subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia, sul petto, era zuppa di sangue.

             –    Dottore! Dottore!

             –    Gli s’è riaperta la ferita! – esclamò il Cimetta.

             Il dottor Vocalòpulo sbarrò gli occhi, impallidì, allibito.

             – La ferita?

             E, istintivamente, s’appressò al letto. Ma il Corsi lo arrestò d’un subito, con gli occhi invetrati.

             – Ha ragione, – disse allora il dottore, lasciandosi cader le braccia. – Hanno sentito? Io non posso, non debbo…

Il dovere del medico – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il dovere del medico – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il dovere del medico – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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