Di Carlo Romeo.
Emblema del rapporto di odio-amore dello scrittore con l’industria del cinema fu il suo rinnovato tentativo di tradurre sullo schermo «Sei personaggi in cerca d’autore». La morte colse Pirandello mentre ancora collaborava col figlio Stefano e con Corrado Alvaro alla stesura della sceneggiatura di «Terra di nessuno».
Da specchio a occhio: il cinema nella poetica pirandelliana
Una lontana riflessione sui rapporti tra Pirandello e l’ontologia dell’immagine cinematografica.
Sostanzialmente modesti furono i rapporti di Pirandello coll’industria cinematografica. Solo col successo teatrale arrivarono le proposte di sceneggiature e soggetti; da Il fu Mattia Pascal (diretto da Marcel L’Herbier nel 1925 e considerato il capolavoro della cosiddetta Prima avanguardia, ovvero impressionismo cinematografico) al soggetto Gioca, Pietro (che diventerà Acciaio, diretto da Walter Ruttmann) fino a Come tu mi vuoi (As you desire me, prodotto nel 1932 dalla Metro Goldwin Mayer, con Eric von Stroheim e la Garbo).
Emblema del rapporto di odio-amore dello scrittore con l’industria del cinema fu il suo rinnovato tentativo di tradurre sullo schermo Sei personaggi in cerca d’autore. Il progetto, affidato prima a Irving Talberg e poi a Max Reinhardt, naufragò miseramente per la sua manifesta inconciliabilità con la dimensione commerciale hollywoodiana. La morte colse Pirandello mentre ancora collaborava col figlio Stefano e con Corrado Alvaro alla stesura della sceneggiatura di Terra di nessuno. [1]
[1] Terra di nessuno, prodotto dalla Roma Film, fu poi diretto nel 1939 da Mario Baffico.
Di ben altro interesse sono le implicazioni della riflessione sul cinema nell’evolversi della poetica pirandelliana. Inizialmente lo scrittore non è scevro da riserve ed imbarazzi nei confronti della nuova arte; la sua meccanicità («se è meccanismo, come può essere arte?») e poi, con l’avvento del sonoro, la svantaggiosa concorrenza che il cinema si accinge a muovere nei confronti del teatro, snaturando la propria essenza di pura contemplazione («Si liberi la cinematografica della parola e si immerga tutto nella musica. Ecco, pura musica e pura visione, e il cuore che sente… Cinemelografia, ecco il nome della vera rivoluzione»).
A questo proposito scrive Alberto Abruzzese:
«l’intellettuale di formazione ancora artigianale si pone il problema dell’incontro tra immagine e suono e, quindi, legato com’è ad alcuni modelli tradizionali di equilibrio, di perfezione formale, di bellezza, si trova naturalmente a preferire, a privilegiare una tradizione ritmica ampiamente verificata come è quella musicale… Pirandello, a partire proprio dalla sua formazione letteraria, sosteneva che il vero cinema dovesse essere quello che semplicemente si atteneva a un’illustrazione della perfezione formale della musica e non certo quello che, recuperata la parola, potesse rischiare di entrare in conflitto e in concorrenza con il teatro, andando così incontro a un’inevitabile sconfitta». [2]
[2] Abruzzese, Alberto, «L’avvento del sonoro». In Storia del cinema, a cura di Adelio Ferrero, Marsilio, Venezia 1978, vol. I., p. 263.
Il punto d’arrivo di tale riflessione sembra temporalmente collocabile tra gli anni 1925-27. Nel 1925 Pirandello rivede e fa ristampare il romanzo Si gira del 1915, col nuovo titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. [3]
[3] Si gira… apparve per la prima volta in «La nuova Antologia», giugno-agosto 1915; poi, raccolto in volume, presso Treves, Milano 1916. In seguito venne ripubblicato col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Bemporad, Firenze 1925.
L’opera, nel 1915, rappresentava nelle tappe del pensiero pirandelliano il “ponte” tra la narrazione e l’inevitabile sbocco al teatro. Il mutismo in cui si chiude l’operatore cinematografico Serafino, condannato dalla sua professione «a non essere altro che una mano che gira una manovella», la sua volontaria rinuncia a quello che chiama «il superfluo», la riluttanza e l’incapacità di comprendere e di partecipare a tutto ciò che gli si muove intorno sono il preludio alla successiva attività teatrale.
«Il processo di disgregazione a cui l’umorismo di Pirandello ha sottoposto tutti i miti (da quelli del realismo ottocentesco a quelli dello storicismo) che i suoi contemporanei si sono successivamente creati per avere un mezzo di intesa comune e un comune metro di valori, giunto coerentemente alle sue conseguenze ultime, è approdato al deserto di questo silenzio: alla coscienza cioè dell’impossibilità di pronunciare qualsiasi giudizio sulla vita e sulle umane azioni. E, venuto meno ogni modo di pronunciarsi intorno alla realtà, la vita non può che ridursi a un Ininterrotto susseguirsi di scene, a cui non è possibile aggiungere alcun commento che le unisca e le proporzioni: si riduce insomma a puro teatro.» [4]
[4] Di Pietro, Antonio, Luigi Pirandello, Marzorati, Milano 1941, p. 19. Sullo «sguardo» pirandelliano cfr. anche Donati, Corrado, La solitudine allo specchio. Luigi Pirandello, Roma 1980 e Mattesini, Francesco, «La poetica dello sguardo nel personaggio pirandelliano», in Figure e forme di vita letteraria: da Carducci all’ermetismo, Roma 1983, pp. 93-104.
Il meccanismo dello “sguardo” come frantumazione del personaggio, dell’io, era diventato dominante nelle novelle sin dal 1911. Lo sguardo altrui (o anche il proprio, riflesso in uno specchio) relativizza l’immagine che il personaggio ha di sé, interrompendone la presunta spontaneità e naturalezza.
Serafino Gubbio passa da una iniziale solidarietà psicologica coi personaggi che gli si muovono intorno (e lo coinvolgono nei loro sentimenti proprio in virtù, paradossalmente, della sua estraneità) a un semplice ruolo di “presenza”.
«Se sapeste come sento, in certi momenti, il mio ‘silenzio di cosa’! E mi compiaccio del mistero che spira da questo mio silenzio a chi sia capace d’avvertirlo. Vorrei non parlar mai; accoglier tutto e tutti in questo mio silenzio, ogni pianto, ogni sorriso; non per fare, io, eco al sorriso; non potrei; non per consolare, io, il pianto; non saprei; ma perché tutti dentro di me trovassero non solo dei loro dolori, ma anche e più delle loro gioie, una tenera pietà che li affratellasse almeno per un momento.» [5]
[5] Quaderni di Serafino Gubbio operatore, II. ed. Mondadori 1954, p. 80.
Gli attori non lo amano; non solo perché il suo occhio è immedesimato con quello della cinepresa, che divora freddamente ogni loro gesto, ma soprattutto per ciò che avviene dopo di quei loro gesti, delle loro espressioni, nella «resa cinematografica».
«Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico (sono ancora attori provenienti dal teatro, nda), ma quasi da loro stessi. Perché la loro azione, l’azione ‘viva’ dal loro corpo ‘ vivo’, là sulla tela dei cinematografi, non c’è più; c’è la loro ‘immagine’ soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, come un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare solo un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela.» [6]
[6] Ibidem, p. 63.
Pirandello delinea uno dei temi fondamentali della teoria del cinema, precorrendo di decenni le riflessioni sulla possibilità di una «ontologia» dell’immagine.
L’accento di Pirandello è qui negativo. Si riduce alla constatazione di una sconfitta: l’immagine filmica non è che una «larva», un fantasma senza vita della realtà. È una posizione per ora lontanissima dall’entusiasmo, ad esempio, di un Andrè Bazin; dall’idea cioè di un cinema che prima ancora di rappresentare la realtà “partecipa” ad essa, convive con essa, ne libera le virtualità. [7]
[7] Cfr. in particolare il saggio del 1946 Ontologia dell’immagine fotografica, ora in Bazin, Andrè, Che cos’è il cinema, a cura di Adriano Aprà, Garzanti, Milano 1986, pp. 3-16.
Ma il percorso di Serafino Gubbio, in questo senso, non è finito. Lentamente si fa strada l’idea che l’assenza d’ogni partecipazione soggettiva, il proprio particolare “statuto” di operatore cinematografico, che richiede come qualità peculiari l’impassibilità e l’estraneità, possa costituire in sé una risposta, un nuovo modo di vedere le cose. Al culmine di tale “gestazione” vi è l’imprevisto con cui si conclude il romanzo. Fino ad allora Serafino si era trovato a riprendere scene e recitazioni preparate, studiate, “costruite”. Tutto ad un tratto il suo “occhio” (ovvero l’“occhio” della cinepresa) si imbatte nell’imprevisto; l’attore Aldo Nuti, invece di sparare a una tigre, colpisce sul set, per gelosia, un’attrice, e viene sbranato dalla belva. Serafino, impassibile, riprende tutto.
«Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori dalla gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro (amante dell’attrice, nda), io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne… udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettio continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé ancora, seguitava a girare la manovella … e io fui tratto indietro, strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela. Non gemevo, non gridavo; la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre.» [8]
[8] Quaderni, cit., pp. 183-184.
La vita, questa volta, irrompe sul set imprevedibile e feroce, e Serafino la può “riprendere” senza filtri, senza mediazioni, con lo stesso facile e meccanico gesto della scimmietta di Buster Keaton nel Cameraman. [9]
[9] The Cameraman, 1928, diretto da Edward Sedgwick, primo film prodotto da Buster Keaton, distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer (titolo italiano lo e la scimmia). Sul significato dell’episodio della scimmietta, cfr. Ferrero, Adelio, «Keaton e l’epica dell’involontario», in Storia del cinema, cit., vol. I, pp. 73-83.
Si noterà anche come Pirandello abbia scelto, come oggetto della capacità di rappresentazione del cinema, addirittura la morte di un uomo, che Bazin giudicherà irrappresentabile per sua natura, perché «si vive e non si rappresenta […] La rappresentazione della morte reale è un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica: non si muore due volte». [10]
[10] Bazin Andrè, cit., p. 32. Sul realismo «ontologico» di Bazin, cfr. Casetti Francesco, Teorie del cinema dal dopoguerra ad oggi, Espresso Strumenti, pp. 27-31.
Lo “specchio” è infranto; Serafino non parlerà più, non rifletterà più, cesserà persino di scrivere i suoi diari. Rifiuta le attenzioni che gli prestano gli altri, rifiuta il «superfluo», immedesimato nell’autosufficienza dell’occhio meccanico della cinepresa.
«No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restar così. Il tempo è questo: la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto, impassibile – a far l’operatore.
La scena è pronta? – Attenti, si gira… » [11]
[11] Quaderni, cit., p. 185.
Ma il silenzio di Serafino, l’allusivo «si gira…» ̶ che già erano stati il prodromo al teatro ̶ non costituiscono una conclusione, bensì un invito. Indicativa è la contemporaneità della revisione di questo romanzo e dell’ideazione di Uno, nessuno e centomila. Anche Vitangelo Moscarda “si scontra” con lo “specchio”; è alla ricerca di una sorta di candid-camera, capace di rappresentarlo “dal di fuori”, come lo vedono gli altri;
«Camminando e parlando col mio amico mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non mi ero prima accorto. Non poté durare più d’un attimo quell’impressione, che seguì quel tale arresto e finì la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando.» [12]
[12] Uno, nessuno e centomila, V. ed. Mondadori, 1967, p. 21.
La riflessione di Vitangelo si condenserà nella dialettica staticità/movimento, che è categoria squisitamente cinematografica. Scoperta l’ambivalenza del reale (il semplice “specchio”), sarà facile scomporre le altre centomila immagini di se stesso, come le singole istantanee di una pellicola.
È a questo punto che Pirandello e il suo personaggio compiono un passo decisivo. Frantumato il reale, l’ulteriore scomposizione (tendente all’infinito) non ha scopo alcuno. È l’ultima tappa pirandelliana: la morte del personaggio, che si sacrifica infrangendo ogni “specchio”, annullando se stesso e diventando un semplice “occhio”.
Uno dei più acuti lettori di Pirandello, Antonio Di Pietro, precocemente avvertiva il salto decisivo che Pirandello aveva compiuto in Uno, nessuno, centomila;
« Una via che si allontana bruscamente da quella finora battuta da Pirandello, che va anzi in direzione opposta, verso un mondo di cose e di passioni elementari, in cui non ha più posto quel dramma del pensiero che è stato finora la sostanza stessa di tutta l’opera pirandelliana, e del teatro soprattutto. Quando infatti, dopo la parentesi di Uno, nessuno e centomila, Pirandello tornerà al teatro e vorrà a questo suo nuovo mondo adattare gli schemi espressivi creati per un mondo diverso e opposto, o vorrà risuscitare (per far fronte, forse, soprattutto ai suoi impegni di drammaturgo famoso) temi ormai d’altri tempi, durerà una fatica in gran parte vana.» [13]
[13] Di Pietro Antonio, cit., p. 28.
D’ora in poi il teatro di Pirandello perderà gran parte delle preoccupazioni intellettuali, concretizzandosi un puro spettacolo, contemplazione dell’imprevedibile «fuori di noi»: l’«inno alla vita» nella Nuova Colonia, il titolo programmatico di Questa sera si recita a soggetto, il «miracolo del mondo» nell’incompiuto I giganti della montagna. Il «realismo magico» dell’ultimo Pirandello nasce dal sacrificio del personaggio di Vitangelo Moscarda; da un mondo di personaggi nasce un mondo di cose, non analizzate, non decodificate, ma semplicemente viste.
Rileggendo le ultime pagine del romanzo ̶ la “passeggiata” di Vitangelo felice e smemorato, in mezzo ai campi ̶ viene in mente la nozione di «testo» formulata da Roland Barthes, tendenza/limite della semiologia (particolarmente quella del film) degli anni Settanta e Ottanta. Il testo filmico, come campo metodologico, non è riconducibile all’analisi separata di tutti i codici che vi partecipano, ma è costituito dal loro irripetibile e reciproco intreccio.
«Il lettore del Testo potrebbe essere paragonato ad un soggetto sfaccendato (che avesse allentato in sé ogni immaginario): questo soggetto discretamente vuoto passeggia su un fianco di una valle sul cui fondo scorre un torrente (il torrente è messo là per attestare un certo spaesamento); ciò che egli percepisce è molteplice, irriducibile, provenendo da sostanze e piani eterogenei, separati: luci, colori, vegetazioni, calore, aria, tenui esplosioni di rumori, esili grida d’uccelli, voci di bambini dall’altra parte della vallata, passaggi, gesti, vestiti d’abitanti molto vicino e molto lontano: tutti questi avvenimenti sono riconoscibili a metà: derivano da codici conosciuti, ma la loro combinatoria è unica, dà valore alla passeggiata come differenza che non potrà ripetersi che come differenza.» [14]
[14] Barthes Roland, «Dall’opera al testo», in L’analisi del film, a cura di Paolo Madron, Pratiche, Parma 1984, pp. 37-43.
Il discorso semiologico di Barthes esula certo, per molti aspetti, dalla nostra questione, ma il rigore del percorso di Vitangelo porta a questo nucleo centrale; abdicazione a qualsiasi tentativo di decodificare l’irripetibilità dello spettacolo (il testo o la vita stessa), che muore e rinasce con noi, perché, eliminato ogni “specchio”, esistiamo solo «fuori di noi».
Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto… Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi domani… Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.
Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori vagabondo… Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni… Io non l’ho più questo bisogno: perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». [15]
[15] Uno, nessuno centomila, cit., pp. 223-5.
Carlo Romeo
Da specchio a occhio: il cinema nella poetica pirandelliana”.
In: «Il Cristallo», a. XXX (1988), n. 3, pp. 81-86.
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