Legge Giuseppe Tizza.
«Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 21 gennaio 1936, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937.
Il chiodo
Voce di Giuseppe Tizza
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Il ragazzo ha confessato che, quel chiodo, lui l’aveva trovato traversando una strada del quartiere negro di Harlem. Era un grosso chiodo arrugginito caduto forse da un carro passato poco prima per la strada.
Caduto apposta.
– Come, apposta?
Inutile sgranar gli occhi, o dare un balzo sulla seggiola. Se non si voleva tener conto di questo, e del modo come il ragazzo lo diceva, calmo, convinto, ma fissato negli occhi vitrei il terrore della cosa incomprensibile e inesplicabile che gli era accaduta, inutile seguitare a interrogarlo.
Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo.
IJ ragazzo infatti dice che lui non pensò mai che se ne sarebbe servito; che non ci pensò neppure nell’atto stesso di servirsene. L’aveva in mano perché non aveva potuto fare a meno di raccattarlo; ma non ci pensava già più. Il chiodo era ormai «quieto» nella sua mano (ha detto così, e tutti hanno avuto un brivido nel sentirglielo dire), il chiodo era ormai «quieto» nella sua mano perché, come voleva, era stato raccattato.
E così, sempre a suo dire, ugualmente apposta due monelle di strada, mentre lui stava per svoltare da quella dove aveva raccattato il chiodo, due monelle, l’una di circa quattordici anni e l’altra appena di otto, s’erano azzuffate tra loro. Incendiate dentro un nembo di fuoco del sole estivo al tramonto, facevano un groviglio di braccia di gambe di stracci di capelli; e lì per lì, d’impeto, lui s’era gettato su loro, aveva alzato il pugno e ficcato il chiodo in testa alla più piccola; poi, subito dopo, ma veramente dopo un tempo infinito, nel vederla morta come da sempre, stramazzare ai suoi piedi tutta insanguinata, era restato basito tra l’orrore della gente accorsa.
Perché aveva colpito la piccola e non la grande non sapeva dire. Non conosceva né l’una né l’altra. Non aveva avuto tempo neppur di vederle in faccia. Aveva veduto soltanto che la grande teneva acciuffata la piccola per i capelli sulle tempie, e che questi capelli della piccola erano rossi di rame, e una sua mano, come artigliata, sulla faccia della grande, che le tirava da sotto orribilmente un occhio, scoprendone tutto il bianco, fin quasi a farlo schizzar fuori.
Era stato forse per quel colore dei capelli, per quell’occhio così tirato. Perché poi s’era saputo che il torto era della grande che voleva fare alla piccola una soperchieria, approfittandosi della gracilità di lei, malatina, come s’era visto bene dal suo visino smunto affilato, che lì per terra, tra il sangue, era sembrato di cera, una pietà, quel nasino, quella boccuccia, tutte quelle lentiggini. Nessun dubbio che nella zuffa avrebbe avuto lei, in fine, la peggio.
E lui con quel chiodo l’aveva uccisa.
Ora, dopo l’interrogatorio, ascolta, curvo sulla seggiola, e con una cupa maraviglia negli occhi, le mani gracili sui ginocchi, segnate da sgraffii che forse lui stesso s’è fatti senza saperlo. Ascolta le ragioni che gli altri escogitano per spiegare il suo atto.
La sua maraviglia è che possano esser tante, queste ragioni, mentre lui non sa vederne nemmeno una; tante, e tutte parer vere e probabili sia quelle escogitate in suo favore, sia quelle contro di lui.
Ma sì, pajono vere e probabili anche a lui, se si lascia prendere però a considerarle come un costrutto di ingegnose supposizioni e invenzioni non propriamente riferibili a lui e al suo atto; altrimenti no; talune lo farebbero persino ridere, se non si sentisse trattenuto dallo sbigottimento e da un’altra cosa che gli tengono sotto gli occhi, sul tavolino del giudice: il chiodo, la cui ruggine s’è tinta d’un rosso più cupo; e da un’altra cosa ancora, più terribile di tutte, che lui si tien nascosta nel più profondo del cuore, quasi debba provarne vergogna. Ma non è vergogna. È spavento. E trema al solo pensiero che possa essere scoperta. Una disperata pietà, uno sconsolato amore che gli è nato e a mano a mano cresciuto per lei, che solo adesso è venuto a sapere che si chiamava Betty; così soltanto, Betty; perché così soltanto di nome era conosciuta; e nessuno infatti è venuto a presentarsi per lei.
Con questo sentimento segreto, che lo cuoce, non gli importa se coloro che parlano offendono la verità, e dicono cose contro di lui; anzi n’è contento perché ogni cosa ingiusta che dicono gli dimostra sempre più che vera è invece soltanto quell’altra a cui nessuno vuol credere, di quel chiodo cioè caduto apposta e di Betty e dell’altra ragazza che, proprio mentre lui svoltava dalla strada, si erano azzuffate ugualmente apposta, apposta perché lui da quella loro zuffa trascinato a menar le mani, senza più pensarci armato di quel chiodo, commettesse la feroce ingiustizia d’uccidere una innocente. E non è vero, Betty, dei tuoi capelli; che i tuoi capellucci rossi non erano belli. Erano belli, erano belli e ti stavano bene. E che importa che sul visino affilato abbi tutte quelle lentiggini? Se aprissi gli occhi che non t’ho nemmeno visti! Ah, fosse avvenuto il miracolo che tu, là per terra, fra tutto quel sangue, per far passare a tutti lo spavento, d’improvviso scoprissi la furbizia di due occhietti vispi. Ma non è avvenuto questo miracolo. Gli occhietti te li ho visti soltanto chiusi, per sempre. Forse, malatuccia, non potevi più averli vispi. Non importa, non importa: aprili, aprili, Betty, e sorridi. Forse ti manca qualche dentino; non li avrai ancora rimessi tutti; non importa, sorridi. Ma queste labbra bianche, queste labbra bianche; bisogna lavare subito tutto questo sangue.
Insulto epilettico? Chi dice insulto epilettico?
Lo dicono per lui, e spiegano i sintomi del male. Ma lui è sicuro di non aver mai provato nulla di simile. Può darsi che sia affetto di quel male senza saperlo, rimasto nascosto fino al momento del delitto e tutt’a un tratto esploso in lui?
Se seguitano a dire di queste cose gli faranno scoppiare il cuore, o lo faranno impazzire.
Ma ora dicono istinto malvagio.
Preferisce che dicano così, perché non è vero. Lui, istinto malvagio? Non ha mai potuto assistere senza ribellarsi alle crudeltà dei suoi compagni di ricreazione contro qualche bestiolina o un insetto. Mai rivelato, lui, istinti malvagi. E se credono che ne sia prova quel chiodo raccattato per terra, fanno ridere. Non lo conoscono. Non parlano di lui. Nessun istinto s’era risvegliato in lui nell’atto di raccattare il chiodo; l’aveva raccattato senza neppur pensare a quello che faceva; ed era così al tutto alieno che, nel tratto di strada prima di svoltare, pensava soltanto al carro, a un carro da cui quel chiodo poteva esser caduto; un carro che forse s’avviava verso la campagna lontana. Perché lui tornava proprio dalla campagna in quei giorni, dov’era stato a villeggiare con la famiglia, l’estate, e ne aveva visti passare tanti di quei carri lungo i sentieri tra le erbe alte.
Ma, del resto, dicano quello che vogliono; inventino; facciano le più assurde supposizioni; non gli importa più di nulla: è già lontano, nella campagna di Old Lime dove ha passato l’estate; rivede la villa e tutti i dintorni deliziosi nell’aria serena; la barchetta a vela del padre ormeggiata presso la sponda del fiume, il Connecticut, più azzurro del mare tra tanto verde d’intorno; è andato col padre su quella barchetta fino all’oceano; più oltre la mamma non permetteva che s’andasse: la barchetta con tutta la vela era così piccola; ma la villa era grande, con tante colonne per finta sulla facciata, e tutta circondata da tanti tanti grandi alberi belli, che il nonno era sicuro fossero eucalipti e il babbo diceva platani e faggi; eucalipti, eucalipti; platani, faggi; ma il fatto era che facevano tanta ombra, che dentro la villa quasi non ci si vedeva ed era meglio passare le giornate all’aperto; del resto in campagna ci si va per questo; ma attento, gli gridava dietro la madre, di non allontanarti troppo; e loro, seduti sul davanti, restavano a spiegare agli amici che venivano a trovarli che quella villa era la più antica di Old Lime, e una delle più antiche di tutta l’America; mentre lui o correva felice come un pazzo lungo le sponde del fiume o si perdeva nella campagna, in mezzo all’erba così alta e spessa e che sentiva così di tutti i succhi della terra che quasi soffocava e ubriacava. Ma ora non può più esser solo. Ora e là in mezzo a tutta quell’erba, con Betty; vuole giocar con lei; ma Betty dapprima non vuole; poi gli dà la manina, una manina ancora fredda fredda, di gelo, che dà un brivido a toccarla; non bisogna più pensarci; si china a guardarla; lei ora lo segue a capo chino e col ditino dell’altra mano all’angolo della bocca. Vanno e vanno. Ma così è inutile, se non debbono giocare. Non vuole più giocare? Non può? E allora? Si vuol gettare di nuovo a terra? No! No! Betty ora è guarita, e dev’esser vispa di nuovo, e ridere, ridere, sì. Ma Betty si ferma e con la manina gli fa segno d’attendere un po’. Che cosa? Deve allontanarsi un momento, un momentino solo. Un bisogno. Lui resta un po’ mortificato. Non gli piace che le femminucce facciano saper certe cose. Ma ecco che invece di lei, dal punto dove è andata a nascondersi, vien fuori un’altra ragazza; no, non è quella della zuffa; è una sua cuginetta, grassa e brutta, quasi della sua età, venuta da Harlem con la madre per passare in campagna tutta la giornata; lui non la può soffrire. Dov’è andata Betty? Eccola là lontano lontano che corre; ha preso questo pretesto per fuggire; ha paura di lui. No, no, Betty; lui non ti farà più male; lui darà la sua vita per farti rivivere e lascerà che tu prenda in casa il suo posto. Ora sei qui; ci penserà la mamma a lavarti bene; e via tutti questi straccetti; con un abitino nuovo ti vestirà, d’un colore che ti stia bene, d’accordo con questi tuoi capellucci rossi, un abitino color pervinca; oh come ora sei carina così; peccato che lui non ci debba esser più per vederti, se ha dato per te la sua vita; e tu resterai sempre piccina così, qua in campagna, senza mai farti grande per nessuno; in campagna, come in un paradiso, Betty.
Non l’hanno incriminato.
Dichiarato libero, il ragazzo non ha dato segno di nulla. Ha tratto soltanto un sospiro. È sicuro che lui morrà di pena per Betty.
Ma forse non morrà. Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty. E la vedrà, sempre piccina, che lo aspetta in campagna a Old Lime, con l’abitino color di pervinca sempre nuovo, che s’accorda bene coi suoi capellucci rossi.
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