Legge Gaetano Marino.
«S’era d’ottobre e pareva ancora piena estate, sebbene di tratto in tratto, entro quel tepore denso di odori inebrianti, sorvolasse dal mare che s’intravedeva prossimo di tra il fitto turbinio di tutti quei fusti d’alberi, qualche primo brivido di frescura autunnale.»
Prime pubblicazioni: Già composta probabilmente nel 1910, pubblicata in poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.
Ignare
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Sui bianchi lettucci tolti dalla corsia e disposti uno accanto all’altro in quella camera remota del collegio piena di luce e di silenzio, le quattro giovani suore giacevano immobili. Le cuffiette di tela, semplici, senza una trina né un nastro, annodate sotto il mento da due cordelline, disegnavano la rotondità del capo e incorniciavano i pallidi visi quasi infantili. Aprivano di tanto in tanto gli occhi, dapprima un po’ esitanti alla luce, poi attoniti e smemorati; li richiudevano poco dopo con lenta stanchezza, ma ormai senza pena.
Non si curavano più di sapere se, così immobili su quei lettucci, fossero in attesa della guarigione o della morte.
Erano tutte e quattro ferite e fasciate. Ma di che gravità fossero le ferite, non sapevano. Stando immobili, non le sentivano. Pareva a ciascuna di star bene e di poter credere che non fosse più a ogni modo, per nessuna delle quattro, caso di morte.
Ma poi, chi sa?
Non erano più sicure di nulla; nemmeno se quella camera fosse d’un ospedale o dell’infermeria d’un collegio di suore; né ricordavano come, quando, da chi vi fossero state portate.
C’era nella loro memoria un abisso: un vero inferno che s’era spalancato loro davanti all’improvviso, inghiottendole e travolgendole; dove tanti demonii avevano fatto esempio e strazio delle loro carni immacolate. Avevano la vaga impressione d’aver navigato a lungo; e sentivano ancora nelle narici, ogni tanto, quel tanfo particolare, alido, nauseante, che cova nell’interno delle navi; negli orecchi, gli scricchiolii della carcassa enorme galleggiante, agli urti possenti e fragorosi del mare; e avevano la visione confusa d’un porto affaccendato, di grandi alberature non ben ferme sotto grosse nuvole candenti immote su l’aspro azzurro delle acque; e meno confuso il ricordo di strani aspetti, di strane voci; rumori d’argani e di catene.
Ora erano qua. E nel candore e nel silenzio di quella camera luminosa che dava loro con la freschezza fragrante dei lini puliti un conforto d’arcana soavità e un senso d’infinita beatitudine, avevano quasi il dubbio che fosse stato un incubo orrendo tutto quell’inferno e quel lungo navigare e quel porto e quegli aspetti strani.
Avevano bisogno di lasciare in quel torpore non solo il corpo, ma anche la coscienza. Se per qualche movimento inconsulto, o anche soltanto per tirare un più lungo sospiro, il corpo aveva una fitta di spasimo, pur essa la coscienza si sentiva subito trafitta dal ricordo di quanto a quel loro corpo era stato fatto, caduto in preda alle voglie infami di gente feroce, nemica di quella fede di cui esse erano andate a spargere l’esempio nell’isola straniera, lontana. L’asilo di pace, una sera, era stato preso d’assalto, invaso e profanato da orde selvagge. Sotto ai loro occhi s’era compiuta la strage dei ricoverati. All’orrore delle ferite aperte dal ferro nelle loro carni rispondeva l’orrore più grande di un’altra ferita insanabile, per cui più del corpo la loro anima aveva sanguinato.
L’ultima a lasciare il letto, quantunque col seno e un braccio ancora fasciati, fu suor Erminia. Le tre altre credevano che fossero trattenute nell’infermeria in attesa della guarigione della compagna, per partire poi tutte insieme alla volta di Napoli, per il ritiro. Ma non fu così. Guarita suor Erminia, la Madre Superiora del Collegio ov’erano state ricoverate e curate, venne ad annunziare che soltanto suor Erminia sarebbe partita quella sera stessa per Napoli.
Ascoltando tutte e quattro a occhi bassi quest’ordine, suor Erminia si chiese in cuore, perché lei sola; e ciascuna delle tre altre, in che la loro sorte potesse essere diversa da quella della compagna che più di loro aveva stentato a guarire. Aveva forse bisogno di qualche rimedio che qua non le si poteva apprestare?
Ma allora perché lasciarla partir sola? E perché rimanevano loro tre, se erano al tutto guarite?
Lo seppero la mattina dopo, all’alba, quando insieme con una suora anziana e una vecchia conversa furono fatte salire su una «giardiniera» traballante e svolazzante di tendine di juta.
Sotto le ampie cornette oscillanti erano vestite tutte e tre d’abiti nuovi, ma troppo larghi per il loro corpo già esile e ora più che mai assottigliato dalle sofferenze.
Avvertivano nel seno, mortificato da anni sotto il modestino, respirando finalmente all’aperto, come un indurimento e, nello stesso tempo, uno strano senso di risveglio che le turbava.
Prima di partire, avevano veduto i vecchi abiti, coi quali erano arrivate, ferite e morenti, da Candia. Stinti, strappati, macchiati di sangue, avevano suscitato in loro quello sgomento e quel ribrezzo che si prova per gli oggetti appartenuti a qualcuno tragicamente morto. E tanto più s’erano costernate, in quanto che alle vestigia, evidentissime lì, d’una violenza terribile, non rispondeva più in loro, ritornate alla vita, una memoria precisa.
Lasciate addietro le ultime case della città, la vettura si mise a correre per uno stradone costeggiato di qua e di là da fitti boschi d’aranci e di limoni.
S’era d’ottobre e pareva ancora piena estate, sebbene di tratto in tratto, entro quel tepore denso di odori inebrianti, sorvolasse dal mare che s’intravedeva prossimo di tra il fitto turbinio di tutti quei fusti d’alberi, qualche primo brivido di frescura autunnale.
Ma le tre convalescenti non poterono godersi a lungo la delizia di quell’ora e di quei luoghi. Il traballio della logora vettura cominciò a cagionar loro un grave disturbo. Tanto che, alla fine, una, suor Agnese, non potendo più reggere, chiese per grazia se la vettura non potesse andare più piano.
La vettura si mise quasi di passo.
Use tutte e tre, ormai da tanti anni, a non curare affatto e quasi a non sentire più il proprio corpo, .a dominarne tutti i bisogni, a vincerne la stanchezza, provavano ora un avvilimento e uno smarrimento strano, un’ambascia smaniosa, per quelle loro sofferenze corporali. La più giovane, ch’era anche la più gracile, suor Ginevra, chiese a un certo punto se, andando così di passo la vettura, non potesse provarsi a seguirla a piedi. Si provò; ma dovette poco dopo rimontare, perché le gambe non le ressero alla fatica del cammino in salita.
La suora anziana che le scortava, annunziò, per confortarle, che poco ormai ci voleva ad arrivare.
La vettura difatti si fermò, poco dopo, davanti al cancello d’una grande villa solitaria in cima a un poggiolino, circa tutt’intorno da un muro. Era la grangia del collegio. La conversa sonò il campanello e, levandosi su la punta dei piedi per guardar sopra la banda che copriva la parte inferiore del cancello, chiamò forte:
– Rosaria!
Rosaria era la moglie del contadino che aveva in custodia la grangia ove ogni estate erano condotte le orfanelle a villeggiare. Invece di Rosaria rispose un grosso cane di guardia con furibondi latrati.
– Ecco «Bobbo» – disse la suora anziana, sorridendo alla conversa.
– Bobbo, Bobbo, siamo noi di casa, – aggiunse la conversa, e sonò di nuovo il campanello.
Accorse alla fine la custode, sbracciata, scarmigliata, col faccione acceso, dorato dal sole, tutto in sudore, due grandi cerchi d’oro agli orecchi, un fazzoletto rosso sgargiante sul seno, e il ventre pregno che le lasciava scoperti, sotto la gonna di baracane tirata su, i fusoli delle gambe entro le grosse calze turchine di cotone, sporche di creta.
– Oh suor Sidonia mia, suor Sidonia! – cominciò a strillare con furiosi gesti di maraviglia e di gioja. – Come va, con tanta compagnia? Anche voi, donna Mita? Come va? Stavo a lavare e, mi vede? – aggiunse, indicando il ventre immane. – Dopo otto anni, suor Sidonia mia! Mah! E queste? Sono tre suore nuove?
Le tre convalescenti s’erano un poco allontanate, e guardavano smarrite le vecchie finestre di quella villa, l’antica cisterna patriarcale, là a principio del lungo pergolato, di fronte al portoncino verde. Si voltarono, nel sentirsi indicate dalla custode, e videro la suora anziana e la conversa parlar piano tra loro; poi la custode prendersi con un gesto d’orrore la testa tra le mani e voltarsi, allargando un po’ le mani, a guardare verso di loro, con la bocca aperta e gli occhi pieni di raccapriccio:
– E lo sanno? lo sanno?
Le tre convalescenti si guardarono negli occhi, angosciate. Quella delle tre, che durante il tragitto non aveva aperto bocca, suor Leonora, ebbe negli occhi come un guizzo di follia; si coprì il volto con le mani, emise un mugolìo sordo fra un tremore delle spalle e delle braccia.
– Perché? – chiese allora, suor Ginevra, volgendo gli occhi azzurri infantili all’altra compagna che s’era recata una mano alle labbra e con gli occhi sbarrati era rimasta come sospesa davanti a un abisso scoperto all’improvviso.
Sopravvennero suor Sidonia e la conversa e, poco dopo, con le chiavi della villa, la custode.
Su per la scala, ove l’aria della campagna stagnava mista col tanfo grasso della corte vicina e con l’umidore esalante della prossima cisterna, suor Leonora afferrò un braccio alla suora anziana e le chiese piano per sé e le compagne se fosse vero ciò che le era parso di dover capire al gesto d’orrore della custode.
Quella socchiuse gli occhi e chinò il capo più volte, sospirando. Suor Leonora scivolò sul gradino della scala. Suor Agnese, ritta addossata al muro, socchiuse gli occhi da cui sgorgarono grosse lagrime. Ignara ancora restava la più giovane dagli occhi celesti. Guardava le lagrime silenziose della compagna addossata al muro, udiva i singhiozzi dell’altra accosciata sullo scalino, ascoltava il conforto e le esortazioni delle tre altre; e non ne capiva ancora la ragione.
Aveva quella villa, nella quiete attonita che regnava tutt’intorno, alcunché di lugubre, con tutti quei fasci di sole che si allungavano di traverso, simmetricamente, nei corridoi. Si vedeva in ognuno di quei fasci fervere lento il polviscolo. Di tratto in tratto, il canto d’un gallo pareva volesse rompere il fascino di quella quiete misteriosa; e un altro gallo, che rispondeva da qualche aja lontana, pareva dicesse che lo stesso fascino di misteriosa quiete gravava anche lì, e più lontano ancora.
Fin dove?
Le tre suore, affacciate alle finestre, si perdevano nella lontananza di quella quiete misteriosa. Non sapevano dove andare con l’anima, a chi rivolgersi per conforto, come nascondere ai loro stessi occhi l’onta di quel martirio.
Era per due di esse in quella lontananza, ma più là, assai più là, dove lo sguardo si perdeva e l’anima non ardiva di arrivare, su in Toscana, più su in Lombardia, una casa da tanti anni abbandonata. Picchiare alla porta di quelle case, per conforto, suor Leonora e suor Agnese non potevano. Né il vecchio padre, né il fratello, né la cognata di suor Leonora dovevano sapere; tanto meno poi, oh Dio, il fratello della cognata! Non dovevano sapere la vecchia madre, né la sorella di suor Agnese in quel tranquillo borgo sul Po, presso Mantova. Beata suor Ginevra, che non aveva alcuna idea né di casa né di famiglia! Sapeva soltanto d’esser nata a Sorrento; non sapeva da chi; era stata allevata dalle suore in un ospizio, e s’era fatta suora: era dunque, tutta, nell’abito che indossava; e la sciagura presente non le mordeva a sangue le carni offese, coi ricòrdi d’una vita estranea, d’estranei affetti, da cui le altre due si erano con violenza strappate.
L’abito che aveva indosso, rappresentava per suor Leonora un sacrifizio. La violenza che aveva dovuto fare a se stessa per serbare intatta, contro l’insidia della sua propria carne, la sua purezza, era stata resa vana dalla violenza altrui, brutale; e Dio aveva permesso che quell’abito, simbolo del sacrifizio, le pesasse ora addosso come uno scherno; Dio permetteva che in un corpo offerto a Lui fosse accolto e stesse a maturare un frutto infame, e sotto quell’abito crescesse la vergogna, il ribrezzo, l’orrore d’una atroce maternità. Come poteva Dio permetter questo?
Finché ai loro occhi la castità dell’abito non cominciò a essere offesa dal progressivo sformarsi del corpo, stettero insieme tutte e tre, per sentirsi nel cordoglio meno sperdute dentro quell’ampio rustico casamento dai lunghi corridoi rintronanti, ove per tante finestre in fila entravano l’aria salsa e il fragorìo continuo del mare, gli odori sparsi della campagna, il ronzio degli insetti, il frusciare delle piante.
Scendevano insieme a pregare nella cappelletta; ma spesso le preghiere erano interrotte dai singhiozzi quasi rabbiosi di suor Leonora, che scappava via. Le altre due allora la seguivano e cercavano di calmarla nell’ombra del lungo pergolato davanti alla villa o per i sentieruoli in mezzo al frutteto, dove al vespro si raccoglievano tanti uccelli a far sbaldore.
Suor Ginevra aveva trovato lì un cantuccio, ove un certo odore amaro di prugnole e un altro denso e pungente di mentastro le avevano ridestato vivo il ricordo dell’ospizio di Sorrento, in cui aveva passato l’infanzia; e spesso andava lì quasi a covare quel ricordo, felice di sentirsi accanto la sua dolce innocenza d’allora. Era ancora come stordita dalla sciagura. Non concepiva affatto l’orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa, soffrendo delle fosche, smaniose ambasce dell’una, delle cocenti lagrime dell’altra.
Rosaria, la custode, qualche volta le raggiungeva e, senza rendersi conto della urtante impertinenza delle sue parole, si metteva a parlar loro come a compagne di sventura, che non dovessero aver più ritegno ormai di guardare quel suo sconcio ventre e di udire certi discorsi circa al loro stato comune. Si lamentava di aver dato via ad altre contadine più poverette di lei, le carnicine, le fasce, le cuffiette, i bavaglini del corredo, perché mai più non si sarebbe aspettato di poterne aver bisogno; e ora non aveva tempo di attendere a prepararne uno nuovo. Aveva comperato la tela: oh, rozza tela per le tenere carnucce d’un bimbo; ma i figli dei poveri, si sa, bisognava che presto imparassero a sentire le durezze della vita.
Subito suor Ginevra si profferse di ajutarla a cucire quel corredino. Anche suor Agnese allora le disse che la avrebbe ajutata. Suor Leonora non ne volle sapere.
Con l’inverno, si chiusero ciascuna in una cameretta tra le tante che avevano l’uscio lì sul lungo corridoio. Le finestre davano su l’orto, e di sul muro di cinta si scorgeva l’azzurro denso del mare, che si congiungeva con quello tenue e vano del cielo. Ma cielo e mare perdevano spesso, ora, quella loro diversa azzurrità, si mescevano sconvolti in fosche brume, e nel silenzio tetro della villa solitaria durava per giornate intere su i vetri delle finestre il crepitio della pioggia.
Suor Agnese cuciva e si sforzava di non intenerirsi alla vista di quelle carnicine, di quelle cuffiette, di quei bavaglini: non doveva pensare al bimbo che sarebbe nato da lei. Erano per un altro bimbo, quelle carnicine, che sarebbe cresciuto lì. Il suo sarebbe scomparso di furto, ignudo. E forse non lo avrebbe neppur veduto.
Non doveva intenerirsene: era appunto questo il martirio: accogliere e maturare nel corpo offerto a Dio quel frutto infame. Ma era in lei; lei lo teneva in grembo, oh Dio! e lo nutriva di sé. Oh Dio! oh Dio! E non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto far nulla per lui? per riscattarlo dall’infamia da cui nasceva? Forse il suo latte, forse le sue cure lo avrebbero redento! Sottratto a lei, allevato in un ospizio, senz’amore, come sarebbe cresciuto, concepito com’era nell’orrore d’una strage, frutto nefando d’un sacrilegio?
Ma Dio, certo, nella sua infinita misericordia, aveva disposto che il martirio di lei, nel tempo ch’ella lo soffriva, giovasse al nascituro, bastasse a mondarlo della colpa originaria, bastassero a lavarlo per sempre di quel sangue osceno le lagrime ch’ella ora versava per l’onta e per il supplizio. Così il suo martirio non sarebbe stato invano.
L’altra, invece, suor Ginevra, sollevando con le mani ceree contro il lume della finestra la carnicina or ora cucita, piegava da un lato la testa, la contemplava e sorrideva.
Scendevano adesso nella cappelletta in ore diverse, ciascuna a pregar sola; prendevano il cibo nelle loro camerette e, quand’erano stanche di cucire e di pregare, s’affacciavano alla finestra, oppresse già dal peso del corpo, a guardare l’orto solingo e il mare vicino.
Venne la primavera, e un bel mattino entrò, col sole, nella vecchia villa, Rosaria, ridente e dimagrita, reggendo alto un grosso bimbo roseo tra le ruvide mani e gridando per il corridojo:
– Eccolo qua! E nato! è nato!
Entrò prima nella cella di suor Agnese, che schiuse appena le labbra a un sorriso di infinita tristezza, contemplando con gli occhi rossi di pianto il bimbo e levando come a riparo davanti al seno le mani bianche.
– Coraggio, coraggio, sorella mia! Si fa presto, sa? Vedrà che si fa presto! Vede com’è bello? Ha gli occhi del padre. E guardi qua, guardi con quanti capelli m’è nato!
Corse poi da suor Ginevra e, senz’altro, le posò in grembo il piccino:
– A lei! Eccolo qua, lo vede che cos’è? Pesa, no? pesa. Con la cuffietta che gli ha fatto lei; e anche la carnicina, vede?
Suor Ginevra si provò a posare le labbra sul petto roseo del bimbo, che la madre aveva scoperto, poi a sollevare su le mani il dolce peso, e con curiosità mista di pena mirava i movimenti delle palpebre del neonato per adattar gli occhi a resistere alla luce. Eccolo: uno così, tra poco, sarebbe nato da lei. E non sapeva ancor come. Uno così!
Rosaria glielo tolse per farlo vedere a suor Leonora; ma questa, storcendo la faccia, la respinse, le gridò su le furie che non voleva vederlo: via! via! via!
S’era spogliata dell’abito. Non scendeva più a pregare. Passava l’intera giornata a sedere sul letto, inerte, coi denti serrati e gli occhi a terra in una dura e truce fissità. La notte le due compagne la intravedevano dall’uscio delle loro camerette, andare su e giù per il corridojo rischiarato a fasci dalla luna: tozza, enorme, con la testa da maschio e i piedi nudi.
Farneticava.
E i tonfi cupi dei passi nella sonorità del lungo corridojo impaurivano suor Ginevra.
La paura diventò terrore una di quelle notti, allorché, destandosi di soprassalto, udì certe grida laceranti e ululi lunghi e mugoli da belva ferita. Volle accorrere; ma fu trattenuta sull’uscio dalla conversa la quale le annunziò che, non suor Leonora urlava così, ma l’altra, l’altra: suor Agnese.
– È l’ora sua. Ora si libera, poverina!
E suor Ginevra rimase atterrita, addossata all’uscio, a udire quegli urli che non parevano umani e che, partendo dalla campagna silenziosa, le rappresentavano spaventosamente il mistero che si compiva di là. Avrebbe tra poco urlato così anche lei? Come avrebbe fatto, debole e gracile com’era, a resistere ai dolori che strappavano quegli urli?
E urli, altri urli, ancora urli, poco dopo l’alba, più selvaggi, più lunghi, fra un gran tramestio per il corridojo, le giunsero agli orecchi. Gelata, allibita, inginocchiata davanti al lettuccio, col rosario in mano, suor Ginevra ascoltava e tremava tutta, senza ardire di alzarsi e di picchiare all’uscio che la conversa aveva chiuso a chiave.
Seppe nel pomeriggio che tutte e due le compagne s’erano liberate, e che ora riposavano tranquille. Una domanda angosciosa le affiorò alle labbra, che subito vanì nel silenzio lugubre della villa. Non si sentiva alcun piccolo vagito. La conversa aprì le mani e scosse il capo mestamente, con gli occhi socchiusi.
Salì, invece, da un albero dell’orto un cinguettio, nella letizia serena del vespro primaverile.
Tre giorni dopo, sul far della sera, venne la volta di suor Ginevra.
Toccò allora alle altre due, ormai consapevoli, di tremare alle grida disperate della piccola compagna; grida, grida che strappavano altre grida di pietà e di rivolta, come allo spettacolo d’una spietata atroce sopraffazione contro un timido inerme, che invano si dia per vinto.
Tutt’a un tratto, le grida tacquero nella notte. Fu, per alcuni minuti eterni, un silenzio orribile. Poi si udì per il corridojo una corsa precipitosa, tra gemiti, e suono di voci cupe tra fiati affannosi, là nella celletta in fondo al corridojo. Le due compagne non seppero resistere più oltre all’angoscia che le soffocava; scesero dal letto, si buttarono addosso le prime vesti che vennero loro sotto mano e, vacillanti, s’avviarono a quella celletta.
Nessuno parlò. La vecchia conversa ricomponeva sul letto le membra della morta, a cui nel pallido, livido visino affilato erano rimasti semiaperti i dolci occhi azzurri. E pareva che in quel pallore la piccola morta sorridesse d’essersi liberata così.
Assalita all’improvviso da un impeto di singhiozzi, suor Agnese andò a buttarsi in ginocchio accanto al letto. Ma suor Leonora, volgendo attorno obliquamente gli occhi da matta, scorse in un angolo un movimento convulso dentro un lenzuolo insanguinato, tutto avvoltolato per terra. Con una mossa da belva balzò a quell’angolo, raccattò da terra una creaturina paonazza, che emise un vagito roco, e scappò nella sua cella; vi si chiuse, e con gioja selvaggia offrì il seno che le scoppiava a quella creaturina.
La Madre Superiora, accorsa alcune ore dopo dalla città, dovette stentare a lungo per persuaderla a riaprire l’uscio. Pareva impazzita; si teneva quella creaturina stretta al seno e gridava:
– La prendo io! la prendo io! O datemi la mia! Butto via l’abito! Dio ha voluto troppo, ha voluto troppo, ha voluto troppo!
Pian piano, dolcemente, quella trovò il verso di sciogliere in lagrime quel fiero ingorgo di demenza; e la piccina fu fatta sparire.
Poco dopo, le due compagne superstiti piangevano e pregavano inginocchiate ai due lati del letto della piccola morta, che certo aveva riaperto in paradiso i suoi dolci occhi di cielo.
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