Di Martina Poláková.
«I Vecchi e i Giovani» sicuramente non appartengono all’insieme dei testi più letti, editi, discussi e sconvolgenti dell’officina pirandelliana, ma il loro apporto particolare allo sviluppo non solo di una poetica autonoma e complessa, ma anche di un concreto genere letterario in ambiente italiano attinge un rilievo considerevole.
La tecnica narrativa sullo sfondo della categoria dello spazio:
|
2006 – da Masarikova Univerzita – Českà repoublika
Doc in PDF diretto Masarikova Univerzita – Českà repoublika
INTRODUZIONE
Luigi Pirandello é noto soprattutto grazie alla sua produzione teatrale, alla sua eccezionale novellistica, al suo romanzo più rinnovatore Il Fu Mattia Pascal. Non tutti i lettori conoscono e ammirano l’opera che sembra essere ancorata piuttosto nella tradizione del realismo ottocentesco che nelle nuove tendenze poetiche del secolo successivo. Stiamo parlando del romanzo I Vecchi e i Giovani, composto tra gli anni 1906-1909. Tale opera rivela la faccia poco nota di Luigi Pirandello, in quanto lo scrittore si presenta come erede immediato e rinnovatore della tradizione del romanzo storico-sociale di origine verista. I Vecchi e i Giovani sicuramente non appartengono all’insieme dei testi più letti, editi, discussi e sconvolgenti dell’officina pirandelliana, ma il loro apporto particolare allo sviluppo non solo di una poetica autonoma e complessa, ma anche di un concreto genere letterario in ambiente italiano attinge un rilievo considerevole. Con questo “genere concreto” intendiamo il filone del romanzo storico, arricchitosi verso la seconda meta dell’Ottocento di un sempre più intenso tono sociale governato dalla concezione estetica verista.
I Vecchi e i Giovani sorgono nel primo decennio del secolo XX, posteriormente a Il Fu Mattia Pascal, l’opera pirandelliana che appartiene tra i primi romanzi italiani decadenti. In tale contesto, I Vecchi e i Giovani con la stilizzazione e l’ambientazione derivate dai precursori veristi e con il loro narratore onnisciente appaiono a molti critici come uno straordinario anacronismo. Il quarto romanzo di Pirandello, accolto all’inizio molto freddamente, comincia ad essere apprezzato e rivalutato solo alcuni decenni dopo la prima edizione, nello stesso torno di tempo in cui esplode il successo de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
Solo una lettura sveglia e attenta de I Vecchi e i Giovani rivela evidenti novità. Secondo la critica recente, l’opera funziona come fucina di elaborazione del romanzo moderno. In questa tesi non intendiamo occuparci dello studio delle tracce de I Vecchi e i Giovani nella narrativa italiana posteriore. Abbiamo scelto la direzione opposta. Secondo noi, in simmetria al “pirandellismo” [1] dei successori esiste anche il “pirandellismo” dei precursori.
[1] Con questo termine d’approccio intendiamo un’insieme aperto di varie somiglianze, ispirazioni e parallelismi tra l’opera di Pirandello e degli altri scrittori.
E perciò vorremmo concentrarci su un anello della rete che costruisce la base genetica de I Vecchi e i Giovani, il quale sarebbe concretizzato a breve. La critica unanimamente concorda su tre fonti principali la cui influenza sul romanzo é indiscutibile. [2]
[2] A queste tre fonti fa riferimento Massimo Onofri in Considerazioni su “ Vecchi e i Giovani”di Pirandello, in La Modernità infelice: Saggi sulla Letteratura Siciliana del Novecento, Cava dei Tirreni, Avagliano, 2003.
Si tratta delle opere di tre maestri della tradizione letteraria italiana sorti nel corso dell’Ottocento: I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, alcune opere (I Malavoglia, Libertà,Mastro don Gesualdo) di Giovanni Verga ed infine I Viceré di Federico De Roberto. I Promessi Sposi si manifestano soprattutto attraverso la modulazione stilistica del narratore onnisciente e da alcuni passi metanarrativi, apertamente riferiti al capolavoro manzoniano. La presenza di Verga, modello (rispetto a Manzoni) molto più vicino non solo nello spazio e nel tempo ma anche nell’ambito delle idee, si sente grazie ai paralleli nelle rappresentazioni di certe situazioni (per esempio il massacro d’Aragona, in cui muoiono Aurelio Costa e Nicoletta Spoto é esemplato su alcune sequenze di Libertà, di certi personaggi, di certa atmosfera. [3] Ibidem p. 60
Il Romano di Pirandello riecheggia il giudizio verghiano “sull’irrimediabile immaturità politica delle masse siciliane, lo stesso orrore per la cieca violenza popolare”. [4] Ibidem.
L’ultima fonte di cui si imitano struttura e forme della narrazione sono I Viceré, saga di una famiglia nobile nel più vasto quadro della storia patria. Pirandello ne accetta la situazione di sfondo: lo scontro sociale e politico in Sicilia nel momento del passaggio a un sistema di rappresentanza parlamentare, da cui infine si eredita un giudizio sugli esiti del Risorgimento nell’isola.
Rendendoci conto dell’importanza e dell’indispensabilità delle fonti soprannominate per la nascita de I Vecchi e i Giovani, abbiamo deciso di connettere il tema di questa tesi a una di esse. L’accorgimento di intrascurabili e frequenti richiami de I Promessi Sposi presenti nel romanzo storico di Pirandello ha stimolato il nostro interesse fino a portarci alla formulazione definitiva del tema. Siccome lo studio comparato completo dei due testi occuperebbe indubitabilmente un volume molto più vasto rispetto a quello previsto dal nostro lavoro, siamo costretti ad una certa restrizione. Abbiamo deciso di analizzare il piano su cui l’affinità delle opere focalizzate é più evidente, cioè il piano della tecnica narrativa. Per poter sviluppare sistematicamente e fruttuosamente l’analisi impostata, abbiamo deciso di mostrare le affinità della tecnica narrativa sul campo delle rappresentazioni delle strutture spaziali.
Vorremmo adesso definire i termini chiave e specificare il metodo della nostra indagine analitica. Con l’espressione “tecnica narrativa” intendiamo il modo con cui il narratore che racconta una vicenda, rivolgendosi a un destinatario (invocato apertamente o meno), comunica informazioni e configura un universo diegetico. Il narratore che formula il discorso appartiene alla strategia dell’elaborazione complessiva dell’opera, presta alla vicenda lo stile e il timbro inconfondibili. Tramite la sua tecnica organizza i componenti integranti dell’universo diegetico: personaggi, spazi, azioni, intrecci, tempi. La definizione e l’analisi delle particolarità di una narrazione richiedono informazioni sulle coordinate della sua realizzazione: il tempo e lo spazio in cui avviene, le circostanze specifiche che influenzano tale spazio, il rapporto del narratore con la storia, con i suoi elementi e con il destinatario al quale si rivolge. Tra i processi che caratterizzano il modo narrativo appartengono il trattamento del tempo (ordine, frequenza e velocità), le modalità di elaborazione dell’informazione diegetica (punto di vista e distanza), voce e situazione narrativa. Segno cruciale per la definizione di una determinata strategia rappresentativa e la focalizzazione, in quanto chi “parla” insinua una sua visione delle cose, d’accordo con le proprie posizioni valutative e affettive. Bisogna ancora affermare che il narratore, anche se ontologicamente indipendente, é un’invenzione dell’autore, e perciò quest’ultimo può proiettare sul narratore certe attitudini etiche, culturali, ideologiche. Tali proiezioni non devono essere fatte in maniera diretta e lineare ma attraverso varie strategie rappresentative come per esempio ironia, costruzione di un alter ego ecc. Vuol dire che le connessioni tra autore e narratore sfociano nell’ampio quadro delle opzioni tecnico-letterarie adottate dall’autore.
Indicati i tratti generali dell’espressione tecnica narrativa, ci spostiamo verso il campo sul quale intendiamo esaminare le sue particolarità, ossia verso la categoria dello “spazio”. Ogni opera letteraria crea un mondo suo, il cui spazio viene “costruito attraverso la messa in opera di un certo numero di figure, di toponimi, di relazioni orientate delle quali l’analisi dovrebbe essere in grado di mettere in luce il senso e il valore”. [5]
[5] Marsciani, Francesco, La Semiotica dello Spazio nel Viaggio di Renzo verso l’Adda, in Leggere i Promessi Sposi, Bompiani, 1990.
Secondo Daniela Hodrova [6] lo spazio é formato da una rete dei luoghi predeterminati dal genere ad un certo dramma, ad un certo avvenimento, portano quest’avvenimento dentro di se, l’eroe entra nelle situazioni immanenti al luogo.
[6] Hodrova, Daniela, Poetika Míst, Torst, 1997.
Si tratta dunque dei topoi –delle stilizzazioni del luogo che non cessano di ricomparire. Francesco Marsciani pone l’accento sul duplice significato dello spazio, il quale riguarda da un lato i protagonisti, “chiamati a organizzarlo, a conoscerlo, a produrlo, secondo i loro propri percorsi e caratteri”,[7] dall’altro lato riguarda l’autore e il lettore, e quindi gli elementi che rimandano ad un contratto enunciazionale: la scelta della localizzazione topografica del racconto, le competenze previste, la scelta di particolari figure che riempiono lo spazio.
[7] Marscani, Francesco, La Semiotica dello Spazio nel Viaggio di Renzo verso l’Adda, in Leggere i Promessi Sposi, Bompiani, 1990.
Questa categoria comprende da un lato le figure di carattere fisico che formano lo scenario della vicenda: lo scenario geografico, gli interni, le decorazioni. Tale livello rappresenta il sistema statico in cui il luogo ha la funzione dell’immagine, del segno. Ogni luogo é concepito come “area di gioco” dinamizzata attraverso l’agire dei personaggi, attraverso il loro modo di percorrerla, d’assumerla o di nasconderla. Dall’altro lato il concetto dello spazio può essere inteso nel senso traslato, il luogo si presenta come metafora, come metonimia la quale rimanda alla mentalità che presiede alla concezione dell’opera, in quanto la categoria é espressione di una peculiare idea della realtà, dell’individuo e della storia.
Per quanto riguarda il metodo, bisogna dichiarare che il fulcro dell’analisi sarà l’opera pirandelliana, in quanto più giovane e quindi ereditaria e rinnovatrice simultaneamente. Perciò organizzeremo la nostra indagine privilegiando la struttura interna de I Vecchi e i Giovani a quella de I Promessi Sposi. Cercheremo di indicare i passi in cui Pirandello introduce nel testo romanzesco i nuovi concetti poetico-filosofici e simultaneamente di stabilire in quali momenti, con quali mezzi, effetti e scopi Pirandello s’ispira della tecnica narrativa manzoniana.
L’angolo visivo tenderà nel corso del lavoro a restringersi gradualmente: cominceremo con le caratteristiche “esterne” delle due opere, ossia con il delineamento del loro posto e della loro funzione particolare nell’ambito del genere storico. Successivamente esporremo alcuni passi in cui avvicineremo la visione pirandelliana tanto del mondo quanto dell’arte, appoggiando il testo alle sequenze della sua saggistica nelle quali lo scrittore espone le premesse fondamentali della nuova poetica, facendo conti con determinati modelli letterari, specialmente con Manzoni. Solo più avanti passeremo all’”interno” del testo romanzesco e, leggendolo a ridosso del modello manzoniano, seguiremo le affinità, le corrispondenze e le differenze principali della tecnica narrativa nelle rappresentazioni dello spazio. Simultaneamente cercheremo di distaccare i momenti cruciali in cui l’autore applica i suoi concetti poetici e filosofici alla materia letteraria.
La parte analitica, introdotta da un’approssimazione generale a I Vecchi e i Giovani, [8] sarà suddivisa in tre blocchi in base al criterio semantico: sfera naturale, privata e sociale.
[8] Sottolineiamo ancora una volta che la centralità dell’opera pirandelliana viene rispettata in tutti i passi della tesi. Tale rispetto é dovuto a due motivi principali: da un lato entra in considerazione il criterio (crono)logico, dall’altro lato siamo costretti a badare alle ragioni pratiche, facendo delle restrizioni per non oltrepassare i limiti prestabiliti del lavoro.
Nel primo blocco ci concentreremo sulle rappresentazioni delle scene paesaggistiche, cercando di descrivere e di paragonare i procedimenti cruciali della tecnica narrativa nelle rappresentazioni di elementi naturali. Indicheremo le affinità e le diversità non solo di carattere formale, ma anche di origine funzionale, in quanto riteniamo che gli obiettivi degli autori sono predeterminati dalle scelte dei mezzi tecnici. Nell’ultima istanza tenteremo di vedere oltre le funzioni diegetiche e di ricavare un messaggio che supera i limiti della narrazione e mira ad acquistare valore universale.
Nell’ambito della sfera privata restringeremo il nostro angolo visivo sull’insieme degli spazi legati inseparabilmente ad alcuni personaggi di primo piano. Utilizzando gli stessi mezzi d’indagine descrittivo-analitica paragoneremo di nuovo sia la tecnica narrativa sia la sua portata extra-testuale. A questo punto si verifica il trasferimento dell’accento dall’elemento naturale a quello umano: piuttosto che seguire l’influenza del paesaggio sul personaggio si metterà in evidenza la relazione capovolta. Per quanto riguarda il significato traslato delle rappresentazioni del privato, sarà da notare il richiamo alla nozione della famiglia. Nell’ultimo campo di osservazione estendiamo le coordinate del precedentemente sfiorato spazio sociale, spostando la nostra lente analitica dall’unità di base (la famiglia) al più vasto concetto storico-politico. Lo sfondo migliore per la rappresentazione della problematica sociale (nel senso ampio della parola) e l’ambiente urbano. Come abbiamo accennato prima, in questo lavoro intendiamo focalizzare in quali punti concorda e differisce il processo di costruzione del mondo (spazio) ne I Vecchi e i Giovani con il processo utilizzato ne I Promessi Sposi. Comparando le due strategie architettoniche speriamo di avvicinarci non solo alla visione della realtà che i due autori trasmettono tramitele loro opere, ma soprattutto al rapporto che assumono nei confronti di quella realtà.
Capitolo I. – Manzoni e Pirandello nel contesto del romanzo storico italiano.
Rendendoci conto del fatto che sia la tecnica narrativa sia i topoi letterari (la prima come strumento, gli altri come costruzioni) dipendono dalle esigenze del genere di cui fanno parte, vorremmo aprire la nostra analisi con la presentazione del filone letterario al quale I Promessi Sposi e I Vecchi e i Giovani appartengono, ossia del “romanzo storico”. Teniamo presente che nessun’opera letteraria nasce come un caso isolato e perciò cercheremo di specificare la posizione particolare di entrambi i romanzi sullo sfondo del panorama conciso dello sviluppo del genere storico in Italia nell’Ottocento.
Il dibattito critico sui limiti dell’espressione “romanzo storico” sicuramente non é del tutto consensuale; un mero elenco delle distinzioni terminologiche occuperebbe il doppio delle pagine che intendiamo dedicare al nostro assunto, dobbiamo quindi ricorrere al denominatore comune di varie proposte classificatrici mediante certe semplificazioni e riduzioni. Seguiremo le ridefinizioni del tipo di romanzo che pone sul primo piano il tema della storia e del passato lungo l’asse centrale del suo sviluppo cronologico.
Il presupposto cruciale dello statuto del genere è
“una sorta di giuramento, più o meno ironico, dell’autore, che promette di limitare la sua libertà inventiva sottoponendola al vincolo della verità storica. Il tratto distintivo dell’identità del genere é la certificazione di “ciò che e accaduto”, mentre il patto letterario, al di la delle differenze delle forme e dei sottogeneri, sembra continuare a dire “ciò che non è accaduto”. In altri termini, il lettore deve essere rassicurato sulla verità dei fatti narrati, anche se sa di trovarsi di fronte ad una scrittura di secondo grado, con le conseguenti operazioni di distanza e di ironia”. [9]
[9] Ganeri, Margherita, Il Romanzo Storico in Italia, Piero Manni, Lecce, 1991, p. 42.
Su questo approccio vogliamo basare il nostro avvicinamento alla problematica e tener presenti certe costanti narrative riguardanti sia il contenuto (le indicazioni cronologiche, le descrizioni di abitudini e stili di vita, i ricorsi alle fonti storiche e storico-letterarie) sia lo stile (le evocazioni esplicite del narratario, i commenti del narratore, la sintassi generalmente ).
La maggior parte degli storici letterari accorda nell’opinione di situare la nascita del genere all’inizio dell’Ottocento e di attribuire la sua paternità a Walter Scott. L’opera di Scott rappresenta il rovesciamento radicale del ruolo della storia nell’ambito di narrazione. Come afferma Margherita Ganeri ([10] Ibidem), mentre nei generi affini sorti nei tempi antecedenti la storia costituisce soltanto uno sfondo stereotipato, immobile e quasi marginale della narrazione, uno degli attributi centrali del romanzo romantico consiste nel capovolgimento di tale rapporto: l’invenzione letteraria diventa secondaria rispetto alla verità fattuale sostenuta dalla precisa documentazione d’archivio. L’interesse per la storia é legato al recupero della tradizione nazionale, letta in chiave patriottica. La comparsa del nuovo genere é dovuta all’affermazione dello statuto sociale della borghesia, le cui esigenze di autopresentazione trionfante evadono anche la struttura romanzesca. Il nuovo pubblico borghese cerca nella ricostruzione d’ambiente, dei costumi e dei personaggi una propria immagine narcisistica. Conseguentemente vengono abbandonate le regole classiche dell’epica e del teatro settecentesco basate sull’armonia spazio-temporale e ritmico-narrativa.
In Italia questo genere sorge con un leggero ritardo rispetto al resto dell’Europa, negli anni Venti, annunciando il declino del romanzo epistolare e della novella. Gli sviluppi politici in Italia contribuiscono fondamentalmente alla prossima crescita della sua importanza. Dopo l’impietosa decisione geopolitica del Congresso di Vienna cominciano a scaturire i fulcri segreti dei moti unificatori e il romanzo storico assume la funzione del portavoce letterario delle idee risorgimentali. Sicuramente anche perche collocazione nel passato fornisce un rifugio sicuro alle allusioni critiche sul presente, in modo da proteggere gli scrittori dal severo controllo di censura.
La prima ondata dei romanzi segue rigidamente il modello scottiano e non é priva di meccanismi del romanzo gotico. [11]
[11] Le opere più importanti di questa fase sono: La calata degli Ungheri in Italia (1823) di Davide Bertolotti, I Lambertazzi e i Geremei (1825) di Defendente Sacchi, La sibilla Odaleta (1827) di Carlo Varese ecc.
La seconda meta degli anni Venti e gli anni Trenta sono tracciati dall’ampia produzione dei liberali moderati, come Cesare Cantù (Margherita Posterla,1838), Tommaso Grossi (Marco Visconti, 1834), Massimo D’Azeglio (Ettore Fieramosca, 1833) e Niccolo Tommaseo (Il duca d’tene,1837). Ovviamente, la ricezione dei testi in quel periodo attinge un pubblico molto ristretto, la lettura é un fenomeno riguardante esclusivamente il ceto aristocratico e quello altoborghese. [12]
[12] Si pensi per esempio ai 25 lettori manzoniani.
La divulgazione graduale del genere é legata alla crescente importanza della stampa giornalistica e all’interesse per la storia che corrisponde all’esigenza delle nazioni recentemente indipendenti di porre le solide basi della nuova identità, inscindibile dalla cultura letteraria nazionale.
L’edizione del capolavoro di Alessandro Manzoni da l’origine all’ondata di accesa polemica sul romanzo storico. La pubblicazione de I Promessi Sposi assicura la piena affermazione del nuovo genere, finora spesso disprezzato e sottovalutato. Manzoni riesce ad evitare imitazioni abusate del modello scottiano, rimane intatto dagli ordinari cliché del romanzo gotico, mantiene l’accento sul fine pedagogico-civile, problematizzando però l’interpretazione dell’idillio borghese ottocentesco. Rilevando sinteticamente gli aspetti più rivoluzionari di uno dei testi cruciali della tradizione letteraria italiana, esaltiamo almeno complessità della sua struttura interna, pleiade di aspre e profonde riflessioni, la plasticità di figure ritrattate, varietà di livelli interpretativi, colorismo delle minuziosi descrizioni, molteplicità di piani capace di attraversare i canoni di vari generi, ceti sociali e registri linguistici e ideologici. La sua visione del mondo e del progresso mantiene una certa riserva nel confronto di passione, zelo e preoccupazioni umani. Tale riserva é dovuta alla moderna religiosità di cui Manzoni dispone, guardando l’esistenza fugace dalla prospettiva dell’eterno. Il grande scrittore, piuttosto che criticare, mette in dubbi tramite il ricorso all’ironia vitale e onnipresente, modificando con le novità ideo-formali introdotte le basi del romanzo storico risorgimentale. Nonostante improrogabile e lampante valore letterario de I Promessi Sposi, l’argomentazione detrattrice da parte dell’intelligenza classicista non si esaurisce. La loro critica spregia soprattutto il carattere ibrido del romanzo storico giacente nella fusione del reale e del fantastico. La frazione romantica ribatte esaltando l’obiettivo del nuovo genere a “essere una lente capace di rendere visibili le angolature nascoste e le zone lasciate in ombra dalla storia ufficiale”. [13]
[13] Ganeri, Margherita, Il Romanzo Storico in Italia, Piero Manni, Lecce, 1991, p. 36.
Manzoni stesso partecipa attivamente alle polemiche, giungendo a condividere il giudizio classicista perché, “con il passare del tempo, il romanzo storico mostrò di essere troppo esplicitamente legato alla propaganda politica, o troppo condizionato dalle mode letterarie con il gusto del patetico”. [14] Ibidem, p. 40.
L’agitato dibattito tra i classicisti ed i romantici tramonta insieme con l’epoca risorgimentale, quindi verso la seconda meta degli anni Quaranta.
Presto il romanzo storico entra nella fase di declino e diventa oggetto di satire e di parodie, le aspirazioni pedagogico-civili del primo Ottocento si sfocano, la nuova realtà sociale trasforma la visione della storia. Come dice De Donato:
“Il passato non é più quello eroico e leggendario, monumentale ed esemplare del d’Azeglio o del Guerazzi, del Grossi o del Tomaseo, non si prospetta più come mitico luogo di valori, non impone più scelte obbligate tra Bene e Male, Dovere e Licenza, Colpa e Redenzione, Vizio e Virtù. Il rapporto tra passato e presente raccorcia le sue distanze, l’obiettivo é puntato sul presente e sulla concretezza dei rapporti sociali e dei problemi oggettivi: vale a dire sullo sviluppo capitalistico e sulle trasformazioni economiche nelle città e nelle campagne che aprono le contraddizioni inedite, rispetto alle quali non basta più appellarsi ai miti patriottici e ad una morale solidaristica.” [15]
[15] De Donato, Gigliola, Gli Archivi del Silenzio: la Tradizione del Romanzo Storico Italiano, Schena editore, Fasano, 1995, p. 26
Il nuovo rapporto con la storia assume in alcuni casi letterari un’espressione particolarmente lugubre, sentimentale e malinconica della rappresentazione del passato (Aleardi, Prati), in altri casi si procede verso il romanzo rurale che tende al realismo, utilizza un linguaggio quotidiano con i termini dialettali (Carcano, Percoto, Dall’Ongaro, Codemo, Molmenti, Nievo). Per quanto riguarda il romanzo storico, possiamo affermare che la sua graduale perdita di forze produttive viene accompagnata da un’importante deviazione delle coordinate anteposte nel periodo precedente.
Nievo e Rovani sono responsabili del mutamento macroscopico degli stereotipi formali tradizionali. Il tratto distintivo di maggior rilievo consiste nell’estensione dell’arco cronologico (Cento anni di Rovani) e nella fusione del passato con il proprio vissuto, cio significa avvicinare l’orizzonte storico al presente e al prossimo dello scrittore. Un altro atto rivoluzionario dei due autori soprannominati risulta nel loro rovesciamento del patto narrativo: la voce omodiegetica testimoniale rimarca il passaggio dal discorso d’accentuazione storiografica al discorso del cronista moderno. Il punto di superamento del romanzo storico risorgimentale riguarda l’abbandono dell’onniscienza del narratore, nell’abbassamento del punto di vista che diventa relativo e di parte, nella sostituzione della ricostruzione storica affidata senza riserve al documento con quella poggiata sulla visione soggettiva. Il particolare della storia quotidiana adombra gli avvenimenti politici di grande rilievo, con l’intenzione di accentuare la veridicità della confessione autobiografica. Come dice la Ganeri ([16] Ibidem), proprio questo aspetto influenzerà maggiormente gli autori veristi.
Con gli anni Sessanta tramontano le forme canoniche e tradizionali del romanzo storico, anche se molte tematiche e topoi vengono rielaborati nell’ambito del naturalismo e del verismo, assumendo il ruolo di testimonianza e di accusa sociale. Tale funzione coincide in molti aspetti con quella che attribuivano al genere i romantici: loro percepivano il romanzo storico anche come un mezzo di denuncia delle fonti storiche ufficiali, controllate e gestite dai detentori del potere politico. In altre parole, sul piano teorico la finalità della letteratura romantica corrisponde a quella della letteratura verista, in quanto entrambe mirano alla verosimiglianza della rappresentazione: di quella storica nel primo caso e di quella sociale nel secondo.
Riassumendo possiamo affermare che nella seconda meta dell’Ottocento il genere del romanzo storico persiste e si sviluppa soprattutto sul piano latentemente percettibile, i suoi tratti distintivi si trasmettono sul romanzo d’appendice e su quello sentimentale ([17] Ibidem), alcune delle sue funzioni e procedimenti vengono assunte dagli scrittori veristi, anche se questi ultimi lo consideravano un genere degradato e artisticamente esaurito. Tale giudizio negativo si proietta nella produzione delle opere parodiche, le quali, però contribuiscono al mantenimento della vitalità del genere. Il romanzo storico riprende il fiato a capo alto e gode soddisfacente rivalutazione soltanto dopo una lunga serie di decenni, grazie al successo de Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa.
Ci sono da notare due grandi eventi letterari appartenenti alla tradizione del romanzo storico-sociale, [18] sorti però durante la fase debole, ossia nel periodo di declino del genere, vale a dire a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento l’uno e nei primi anni del secolo XX l’altro.
[18] Ricorriamo alla tesi lukacsiana, secondo la quale il romanzo storico e quello sociale di carattere verista e naturalista rappresentano due facce della stessa medaglia, ossia due varianti dello stesso genere corrispondenti alle attuali esigenze della borghesia. Tale proposta si basa sul fatto che entrambe le versioni condividono l’obiettivo di descrivere e di accusare certa realtà sociale, ma scelgono diversi mezzi espressivi in modo da colpire più effettivamente il pubblico di due diverse situazioni. in Ganeri, Margherita, Il Romanzo Storico in Italia, Piero Manni, Lecce, 1991.
Il loro destino é tracciato da un ragguardevole parallelo: entrambi i romanzi sono rimasti trascurati o in più sottovalutati da parte della critica quasi fino alla seconda meta del Novecento. Probabilmente non rispondevano ai gusti prevalenti della fin de siècle e solo dalla prospettiva distante di circa una cinquantina di anni potevano raggiungere una soddisfacente rivalutazione. Si tratta dei romanzi I Viceré (1894) di Federico De Roberto e I Vecchi e i Giovani (1913) di Luigi Pirandello. Piuttosto che dimostrazioni di un arretrato e svantaggioso oscurantismo letterario, fungono da momenti di transizione anticipante le direzioni moderne, da presagio di nuove tendenze ed elaborazioni contenuto-stilistiche del romanzo storico.
Il segno più ravvisabile che delinea la frattura de I Viceré dalla poetica naturalistico-verista poggia sull’intenzione di De Roberto di applicare alcuni dei procedimenti creativi di origine verista, ossia il metodo compositivo impersonale all’estesa rappresentazione del vasto affresco storico-politico legato all’eredità del romanzo risorgimentale italiano. Per l’ampiezza dell’angolazione dichiarativa, il capolavoro derobertiano sfugge dalla possibilità di un collocamento indubbio e assoluto nell’ambito del genere storico. Bisogna sottolineare che l’ampiezza rappresentativa del romanzo abbraccia simultaneamente tutte e due facce “della medaglia” [19] di un macrogenere letterario, o meglio oscilla tra l’accentuazione della problematica sociale e di quella storico-politica di ampio respiro.
[19] Ci riferiamo alla tesi lukacsiana introdotta precedentemente, vale a dire al suo legamento del romanzo storico e di quello sociale in base della loro coincidente finalità enunciativa.
Sintetizzando possiamo affermare che la lettura dei Viceré ci porta di fronte a un mutamento delle forme espressive e contenutive del genere letterario la cui costante invariabile equivale a un nodo di trame riferite al dato storico, a un’ambientazione spaziotemporale precisa e identificabile, a personaggi con concreti attributi condizionati socio-culturalmente.
Il pessimismo storico di De Roberto non cerca nessuna soluzione alternativa per sostituire da lui rifiutato positivismo borghese. Invece di trovare un’alternativa ideologica, sceglie la strada della rappresentazione mimetica dell’irrazionalità del mondo, dell’ironico e bizzarro spettacolo dello status quo. Appunto per la dominante carica ideologica negativa Vittorio Spinazzola ha definito I Viceré un “romanzo antistorico”. [20]
[20] Ganeri, Margherita, Il Romanzo Storico in Italia, Piero Manni, Lecce, 1991, p. 74.
Questa definizione riesce ad attingere il significato duplice: la posizione di De Roberto si mantiene antistorica sia sul piano ideologico, sia su quello formale.
Con il tramonto della stagione verista si esaurisce il dibattito critico sul romanzo storico per alcuni decenni, riprendendo il fiato dopo la seconda guerra mondiale. Nonostante il declino del genere nell’ambiente italiano non possiamo parlare della sua scomparsa totale. Nella produzione letteraria della prima metà del Novecento si distinguono due filoni marginali le cui origini e caratteristiche principali bisogna cercare nell’ambito del romanzo storico. Si tratta da una parte del romanzo siciliano che si occupa della tematica del Risorgimento fallito, della disparità tra Nord e Sud, della questione agraria, dall’altra si sviluppa una corrente orientata all’accentuare dei punti di vista storicamente discriminati. L’opera I Vecchi e i Giovani si colloca nel primo filone, il suo insuccesso e affine allo stroncamento de I Viceré e viene vendicato solo dopo una cinquantina d’anni con la pubblicazione de Il Gattopardo. La ricezione positiva dell’ultimo era dovuta alla sua capacità di soddisfare i gusti di due pubblici: quello aristocratico intellettuale il quale ne gradiva il tono di nostalgia di un’elite e anche quello piccolo borghese.
Margherita Ganeri sottolinea il carattere emblematico del fatto che la rinascita del genere ormai sonnecchiante avviene “grazie a un’opera apparentemente non polemica, e anzi per molti versi nobilitante la tradizione ottocentesca, mentre un romanzo corrosivo e contestatario come I Vecchi e i Giovani era relegato nell’ombra”. [21]
[21] Ganeri, Margherita, Il Romanzo Storico in Italia, Piero Manni, Lecce, 1991, p. 87.
Il Gattopardo era l’apostolo della seconda grande stagione del genere, la cui esplosione produttiva negli anni Ottanta del secolo scorso è stupefacente.
Ovviamente, il distacco dalle proprie radici ottocentesche è estremamente elevato, le distanze sia del contenuto che dello stile ormai insuperabili, e perciò estendere il nostro discorso invadendo il campo del romanzo a tema storico dell’epoca postmoderna andrebbe oltre il fulcro tematico di questa trattazione. Conseguentemente intendiamo soffermare il nostro profilo cronologico con il romanzo storico al centro e restringere l’angolo visivo esclusivamente a due opere chiave della tesi, di cui la prima rappresenta vera e propria affermazione canonica del genere in Italia e la seconda delinea, piuttosto che il suo tramonto, il rovesciamento definitivo del paradigma storicistico. La lezione di Pirandello si rivelerà vitale per la futura storia del romanzo storico.
Capitolo II. – Pirandello e il suo tempo.
Come abbiamo menzionato precedentemente, riteniamo che la definizione e l’analisi delle particolarità di una narrazione richiedono informazioni sulle coordinate della sua realizzazione: il tempo e lo spazio in cui avviene, le circostanze specifiche che influenzano tale spazio, il rapporto del narratore con la storia, con i suoi elementi e con il destinatario al quale si rivolge. Siccome I Vecchi e i Giovani sono il punto di partenza e il centro del nostro interesse, il passo seguente della tesi sarà necessariamente sproporzionato, in quanto accentuerà esclusivamente la personalità di Pirandello. I momenti di approssimazione alle circostanze storico-ideologiche del sorgimento de I Promessi Sposi saranno esposti a fianco dell’asse pirandelliana con lo scopo di sottolineare i più rilevanti contrasti e paralleli del processo creativo dei due autori.
L’avvicinamento analitico a I Vecchi e i Giovani sarebbe impossibile senza un riferimento al rapporto tra l’autore a la realtà storica e personale che egli deve affrontare ed elaborare. I Vecchi e i Giovani sono frutto e testimonianza di una crisi generazionale e personale che nella prima meta degli anni Novanta ha segnato profondamente la maturazione di Pirandello. La ricerca completa di tutti i fili culturali, esistenziali e sociali della formazione dell’autore comporterebbe una digressione per i nostri obiettivi inutilmente vasta, perciò sottolineeremo soltanto i momenti cruciali dello sviluppo poetico di Pirandello
Dal punto di vista macroscopico sono da menzionare i turbamenti ed i conflitti dei grandi sistemi filosofici dell’Ottocento: l’infallibilità della scienza positivista si rivela invalida, smentita dalle nuove scoperte proiettatesi sul piano etico nella precarietà dei valori individuali e collettivi. La prospettiva antropocentrica viene sostituita da un’incertezza paralizzante e da un disperato relativismo. La focalizzazione dei punti fondamentali della microstoria pirandelliana ci avvicina al suo nucleo familiare, dominato da una parte dai problemi della borghesia proprietaria siciliana lontana dalla sicurezza e dall’ingegnosità della moderna industria capitalistica settentrionale, dall’altra ancorato nella tradizione del patriottismo garibaldino a cui Pirandello resta fedele tutta la vita. La consapevolezza di una profonda diversità psicologica derivante dal rapporto conflittuoso con la figura paterna e il senso della propria marginalità sociale [22] contribuiscono alla sua precoce dedizione all’arte, l’unica istanza in cui può esprimere legittimamente un’estraneità dagli altri.
[22] “la netta percezione della propria inettitudine, particolarmente nella vita pratica e nel mondo degli affari (da tale punto di vista assume un valore esemplare il fallimento del tentativo, durato tre mesi, nel 1886, a Porto Empedocle, di lavorare nell’amministrazione delle miniere di zolfo appartenenti al padre)” Luperini, Romano, Introduzione a Pirandello, Laterza&Figli, Bari,1992.
Il sentimento di solitudine culturale non abbandona Pirandello neanche dopo il ritorno dagli studi a Bonn. A Roma rimane lontano dagli intellettuali compaesani che aderiscono alle nuove correnti del simbolismo e dell’irrazionalismo decadenti e frequenta il gruppo (fondatore nel 1898 della rivista Ariel) di intellettuali che mantengono qualche legame con la tradizione positivista.
Il gruppo, i cui membri sono soprattutto siciliani stabilitisi nella capitale (tra i più famosi nominiamo almeno Capuana, Fleres e Cesareo), mentre prende atto del declino del positivismo e del naturalismo allontanandosi da tali posizioni, rifiuta simultaneamente l’adesione alle nuove proposte estetiche. L’ambiente romano dell’ultimo ventennio del secolo si offre a Pirandello come frammento esemplare di una vasta crisi storica, la riflessione della quale viene messa a punto nei frutti più significativi della sua produzione saggistica, vale a dire nei volumi L’Umorismo (pubblicato solo nel 1908) e Arte e Coscienza d’oggi (1893).
II.I. La visione del mondo
La caduta della prospettiva antropocentrica viene affrontata fin dai principi della produzione pirandelliana. La solitudine, lo sradicamento dell’uomo dalle sue sicurezze antiche l’imprigiona in un irrimediabile relativismo che minaccia tanto la sua fermezza morale quanto la capacita di agire. Nell’articolo Arte e Coscienza d’oggi [23] l’autore accusa la scienza che ha “corroso il concetto di Dio, senza nulla sostituirgli e ha assegnato all’uomo ‘un malinconico posto nell’universo”. [24]
[23] Pubblicato il 15 settembre 1893 sulla rivista La Critica, ora inserito nel volume Saggi, poesie e scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Milano, 1977.
[24] Maria Argenziano Maggi, Il relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988, p. 15
Pirandello rifiuta il ritorno a false consolazioni e la sua percezione di solitudine traumatica e priva di minima carica titanica superomistica dannunziana. L’uomo abbandonato deve attraversare il buio labirinto [25] della realtà che sfugge a ogni tentativo cognitivo, deve affrontare un mondo di disperazione senza illusioni metafisiche.
[25] “Io immagino la vita come un immenso labirinto circondato tutt’intorno da un mistero impenetrabile”, scrive Pirandello in una lettere del dicembre 1893 alla fidanzata Antoinetta in Maria Argenziano Maggi, Il relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988, p. 16.
Pirandello, al contrario di Manzoni, non ha vissuto il colpo della grazia divina che lo aiutasse a ritrovare un punto fermo nell’universo incomprensibile.
Ma non solo la realtà esterna si sottrae alla possibilità di una valida indagine conoscitiva, anche l’uomo stesso deve fronteggiare lo shock di conoscere solo una piccolissima parte di quello che e. La concezione pirandelliana della complessità e della disorganicità dell’essere umano trova le basi nella teoria di Alfred Binet, psicologo sperimentale francese, interessato nelle analisi di vari casi di scissione del soggetto e dei diversi livelli della vita psichica, consci e inconsci, e dunque anche della pluralità dell’io e della compresenza in esso di varie personalità. Binet accentua la conflittualità e i divari presenti nel soggetto stesso. Secondo Pirandello, la nostra realtà interiore e un flusso continuo il quale si può conoscere solo quando arrestato, o meglio morto. [26]
[26] Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994.
Soffermare quella corrente di stati d’animo eterogenei con l’intenzione di conoscerci vuol dire esaminare quello che non siamo più, ciò che di noi é morto. Nel saggio sull’umorismo Pirandello concorda con Pascal: “Non c’e uomo che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo”. ([27] Ibidem p. 150.)
Tale considerazione viene affermata dall’esperienza personale di molti personaggi pirandelliani.
La riflessione di Pirandello procede verso il riconoscimento dell’indispensabilità di una “forma” che ogni individuo deve assumere per poter sopportare il continuo cambiamento. L’uomo da un’interpretazione del suo essere interiore mascherandosi incoscientemente e vive la “metafora” della sua realtà. Questa, però, non coincide con quella che gli attribuiscono gli altri, perché ognuno lo percepisce a suo modo, in un dinamico gioco di prospettive individuali, il quale regola i rapporti interpersonali.
Neanche il mondo oggettivo é in grado di offrire all’uomo una compensazione del disperato relativismo della verità di persone. La scienza fallisce ugualmente, poiché il suo strumento cruciale, la logica “astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che é mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che é relativo”. ([28] Ibidem) In tale contesto, la ragione perde ogni vantaggio e ruolo di facoltà liberatrice rivelandosi un infelice privilegio grazie al quale siamo in grado di denominare il travaglio, ma non di risolverlo. E Pirandello deride le ambizioni della scienza, nutrendo nei suoi confronti un’ironia divertita. I tentativi di spiegare tutto in base alla credenza nell’infallibilità dei rapporti causali si rivelano vani, vinti da colpo imprevedibile dell’imponderabile caso.
Essendo la realtà dei fatti diversa per tutti, si possono inventare dei “fantasmi” che hanno la stessa validità della realtà e possono condurre la coscienza di un individuo all’ossessione totale, alla follia. La follia, infatti, non rappresenta qualcosa di raro, ma é latentemente presente in tutti noi, basta solo un esiguo stimolo imprevedibile per svegliarla e per farla diventare l’unica realtà. Cancellato un nitido segnale di confine tra il fatto reale e quello dell’immaginazione, risulta chiaro che anche le illusioni ed i sogni hanno una loro realtà. In più, i sogni molte volte liberano individuo dai tormenti interiori, coperti nell’atteggiamento cosciente. [29]
[29] Pirandello tratta tale prospettiva nella novella La Realtà del Sogno, ma dichiara di non conoscere le posizioni di Freud.
In altre parole, gli avvenimenti dei sogni costruiscono una realtà, anche se non esistono sul piano dei fatti oggettivi. Dall’altro lato, Pirandello sostiene che “noi possiamo benissimo non ritrovarci in quello che facciamo, ma quello che facciamo é (…) resta fatto: fatto che ci circoscrive, ci da comunque una forma e c’imprigiona in essa”. [30]
[30] Luigi Pirandello: Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, in Maria Argenziano Maggi, Il Relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988, p. 21.
La verità, quindi, non esiste. Il relativismo gnoseologico dirige l’uomo pirandelliano verso un’esistenza insicura oscillante tra un’ingannevole maschera e il rischio di un totale annientamento. D’accordo con Romano Luperini, possiamo affermare che secondo Pirandello la verità “e solo un processo sociale, un farsi storico e relativo che vive soltanto nella soggettività delle coscienze e nella dialettica e nel conflitto delle interpretazioni”. [31]
[31] Romano Luperini, Introduzione a Pirandello, Laterza & Figli, Bari,1992, p. 83.
La via d’uscita del grande agnostico, l’unica sua fede e sicurezza non sorge dalla fiducia nella solidarietà del Deus absconditus manzoniano, ma dalla possibilità di proiettare le traumatiche contraddizioni dell’esistenza in aspri esiti della sua arte. La relatività della vita può essere oltrepassata solamente nell’assoluto dell’arte, anche se molte volte inquietante e torturante nel suo spietato togliere di maschere e nell’insistente cancellare di illusioni.
II.II. La concezione dell’arte
La premessa fondamentale della poetica pirandelliana, esposta per la prima volta nell’articolo già menzionato, Arte e coscienza d’oggi del 1893, é ancorata nella convinzione che l’arte deve emanare dalla spontaneità. Il mistero della vita può essere penetrato soltanto attraverso il sentimento, ossia attraverso l’esperienza soggettiva dello spirito che stimola la nascita di un atto creativo. Nel saggio citato Pirandello rifiuta e critica ogni espressione artistica basata sull’imitazione dei modelli antichi o di quelli stranieri. Simultaneamente condanna i tentativi di rispecchiare rigidamente la realtà secondo le proposte del naturalismo. Dall’altro lato, siccome immerso profondamente nella problematicità concreta di un determinato momento storico, si oppone anche ai nuovi “ismi” sorti alla fine dell’Ottocento, i quali considerano l’arte molte volte come sogno e evasione dal reale.
Le posizioni di critica e di estetica condivise e approfondite da Pirandello trovano molti spunti stimolanti nell’amicizia con Luigi Capuana il quale accentua la creatività individuale dell’artista. Postulando l’autonomia del personaggio dall’io dell’autore, e la superiorità dell’arte rispetto alla natura, egli dice: “[…] ogni opera d’arte non é la realtà ordinaria, ma la realtà immaginata, lavorata dalla fantasia, idealizzata”. [32]
[32] Luigi Capuana, Gli “Ismi” Contemporanei in Romano Luperini, Introduzione a Pirandello, Laterza & Figli, Bari,1992, p. 86.
Da qui nasce la concezione pirandelliana dell’indipendenza del personaggio dal suo stesso autore. La molla creativa si trova nel sentimento dell’artista, ma tale sentimento poi viene completamente assorbito nella nuova vita d’arte che è nata e il creatore deve seguire e ubbidire la propria creazione.
Le posizioni teoriche di Pirandello sono strettamente legate al pensiero del gia menzionato psicologo A. Binet, soprattutto per quanto riguarda la dinamica della creazione-soggezione. Servendosi del processo di disgregamento di personalità descritto da Binet, Pirandello sostiene:
“Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento […] Ognuno vede quanta luce da queste nuove prove di fatto irrefragabili si riversa sul mistero della creazione artistica. Gli elementi dello spirito d’un artista sono di gran lunga più numerosi e più vari di quelli di uno spirito comune. E l’artista, nel momento dell’estro, in cui la coscienza normale si smarrisce, si disgrega in tumulto, veramente compone, costruisce, crea con gli elementi del suo proprio spirito, altri personaggi, altri individui da se, ciascuno con la propria coscienza, con un’intelligenza propria, vivo ed operante”. [33]
[33] Pirandello, Luigi, Scienza e Critica Estetica in Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994.
Un altro contemporaneo di Pirandello la cui influenza traluce nella sua concezione dell’arte e teorico del vitalismo irrazionalista Gabriel Seailles. Tra le idee condivise da Pirandello quelle più importanti si riferiscono alla nozione della spontaneità d’arte e della sua autonomia da ogni forma di rispecchiamento o passiva imitazione e della presenza di riflessione nella composizione dell’opera. L’arte, secondo Pirandello, e il “subiettivarsi dell’oggettivizzazione”, vale a dire una “sentimentalizzazione” dell’atto cognitivo. La riflessione dovrebbe trasformarsi in sentimento per diventare parte dell’elaborazione estetica. In questo contesto é necessario toccare di sfuggita la viva polemica condotta da Pirandello nei confronti di Benedetto Croce. Il filosofo napoletano vedeva nell’atto creativo un’estrinseca materializzazione dell’intuizione, un processo privo delle preoccupazioni delle strutture formali nuove o preesistenti, delle tradizioni e dei canoni che necessariamente determinano un’espressione estetica. L’intuizione crociana, a parere di Pirandello, rappresenta una conoscenza rigida e meccanica che può essere facilmente fornita da “qualunque scienza naturale”. Il Croce ha escluso dalla sua concezione due componenti soggettive che nell’opinione pirandelliana sostenuta dalle posizioni di Seailles sono indispensabili per la creazione: il sentimento e la volontà.
L’opposizione a Croce e presente anche nel lungo saggio L’Umorismo del 1908. A Croce sembrava impossibile trovare una definizione adeguata d’umorismo, Pirandello invece ne ricerca le coordinate e ne stabilisce la definizione. Già nell’articolo Un Pretesto Poeta Umorista del Secolo XIII del 1896, Pirandello dimostra un interesse particolare per l’espressione umoristica: “L’umorista […] ride delle sue stesse lacrime, dei suoi sogni andati a vuoto o vani, dei suoi desideri sproporzionati alle possibilità del volere”. [34]
[34] L’articolo fu pubblicato in La vita italiana il 15 febbraio 1896, ora in Saggi, poesie e scritti varii, in Maria Argenziano Maggi, Il Relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988.
Il sorgere della condizione umoristica é sempre dovuto da precise situazioni storiche segnate dal tramonto di certi ideali e sicurezze morali. Essa si pone come capacita di “capire il gioco”, aiuta a scomporre le forme ingannevoli del reale e a intenderne la indispensabilità. [35]
[35] “L’umorismo […] induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per la ragione umana un fine chiaro e determinato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolar, fittizio, illusorio, per ciascun uomo, o basso, o alto; poco importa giacche non é ne può essere il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessuno trova, forse perché non esiste”, Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994, p. 130.
Ovviamente, l’amara concezione pirandelliana é generata dalla profonda delusione storica postrisorgimentale (il bilancio della situazione é nitidamente offerto ne I Vecchi e i Giovani). Gli stimoli storici possono essere a volte sostituiti da qualsiasi dolorosa esperienza della vita, la quale può costringere l’artista a riflettere.
L’umorismo nasce da uno stato d’animo complesso, tracciato dalla presenza di tendenze opposte, dalla visione di un mondo sdoppiato. E^ una specifica attività di fantasia che appena coglie un aspetto del reale, ne rivela subito l’aspetto contrario. Il primo contrasto é quello tra sorriso e tristezza: nell’umorismo, ciò che sembra sorriso é dolore, ciò che é dolore é accompagnato dal sorriso triste. Ricordiamo in poche parole le premesse ed i termini principali del famosissimo ragionamento pirandelliano: sulle basi dell’opera umoristica c’e il livello comico accompagnato dal riso suscitato dall’avvertimento del contrario. Il comico nasce dall’accorgersi superficiale che un individuo o una situazione sono lontani dalla normalità abituale. Nel passo seguente la luce della riflessione illumina i nascosti motivi tragici della situazione comica trasformando la risata spensierata in un riso amaro e doloroso. E così dall’avvertimento del contrario si prosegue al sentimento del contrario, dal comico all’umoristico.
Maria Argenziano Maggi afferma che l’umorismo pirandelliano dispone di una certa sfumatura di vendetta e di punizione: “Troppo spesso, il suo umorismo appare lo strascico di un dramma già avvenuto e dolorosamente subito, di cui, stravolgendo la tragedia in caricatura, segna con amara rivalsa una particolare vendetta”. [36]
[36] Angenziano Maggi, Maria, Il Relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988, p. 29.
Tale riflessione dimostra che il riso umoristico non sempre sorge da una lieve comicità, ma molte volte nasce subito amaro, pronto a deridere sicurezze dimostratesi illusorie. L’umorismo pirandelliano non trova soluzioni. I suoi eroi non hanno possibilità di liberazione, l’autore nutre nei loro confronti “la pietà spietata”.
L’esempio per eccellenza di personaggio umoristico, Pirandello lo vede nel Don Quijote di Cervantes che, secondo il nostro autore, rappresenta l’alter ego artistico del suo proprio creatore. Cervantes, antico discendente di una nobile famiglia, imprigionato e povero, costretto ad affrontare la definitiva caduta dei suoi ideali si riconosce nell’oscuro carcere della Mancia e comincia a ridere di se stesso. Ride con tutti i suoi dolori, respirando ostile aria di distacco tra ideali e realtà, così come Pirandello, parecchi secoli dopo, soffre la delusione postrisorgimentale.
Torniamo ancora una volta al concetto della riflessione, il cui ruolo nell’arte umoristica differisce da quello nell’arte in generale. Mentre nell’arte in generale la riflessione resta nascosta e implicita, nell’opera umoristica “la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; […] nella concezione umoristica, la riflessione e, si, come uno specchio, ma d’acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza”. [37]
[37] Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994,pp. 127 e 132.
La riflessione, tuttavia, non può impedire la spontaneità dell’atto creativo che deve essere “ingenuo”. Per chiarire i limiti del termine, citiamo ancora il nostro autore:
“La riflessione dunque, di cui io parlo, non é un’opposizione del cosciente verso lo spontaneo; é una specie di projezione della stessa attività fantastica; nasce dal fantasma, come l’ombra dal corpo; ha tutti i caratteri della ‘ingenuità’ o natività spontanea: é nel germe stesso della creazione, e spira in fatti da essa ciò che ho chiamato il sentimento del contrario”- [38] Ibidem
Ogni artista umorista é anche critico della sua arte, ma un “critico fantastico”. Quel aggettivo esprime il distacco di Pirandello dalle posizioni estetiche giacenti sul binomio arte-conoscenza e, come si é già detto, chiarisce il fondamento spontaneo di tale “fantastica riflessione”.
Quale é la funzione e l’attività di sopra accennato concetto di riflessione? È essa la forza motrice dell’approccio umoristico, l’impulso principale del processo analitico che scompone l’illusorietà di tutte le finzioni, costruzioni ed inganni. L’umorismo, erede estetico del relativismo filosofico, smaschera il parere dell’esistenza di una realtà oggettiva, dell’unanimità individuale e vede la vita come un continuo flusso eracleitano.
L’arte umoristica non può essere mai l’arte imitativa, proprio perché sorge dalla molteplicità di prospettive, afferma la variabilità incessante del reale, la problematicità d’esistenza. Si distacca dalla retorica, avendo bisogno “del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol quando la forma a volta a volta si crea”. [39]
[39] Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994, p. 53.
Un altro termine essenziale da chiarire per poter concepire appropriatamente la poetica pirandelliana é la forma. Essa non rappresenta assolutamente qualcosa di esteriore, legato ai canoni di un determinato genere letterario o ai rigidi modelli tradizionali, ma qualcosa di inseparabile dall’atto creativo. E perciò il linguaggio dell’artista deve essere libero, non ostacolato dalle questioni retoriche. Pirandello dice:
“L’umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua, movimento che si può avere soltanto quando la forma a volta a volta si crea […] L’artista, il poeta, deve cavar fuori dalla lingua l’individuale, cioè appunto lo stile. La lingua é conoscenza, e oggettivazione; lo stile é subiettivarsi di questa oggettivazione. In questo senso é creazione di forma”. ([40] Ibidem.)
L’opposizione arte-retorica, lingua comune-lingua letteraria forma le basi dalla dicotomia che Pirandello stabilisce tra due tipi di scrittori: da un lato riconosce gli scrittori delle “cose”, dall’altro lato quelli delle “parole”. Tale distinzione non é soltanto linguistica, ma soprattutto umana e Pirandello esalta il primo filone, in cui colloca gli autori come Dante, Machiavelli, Ariosto, Manzoni, Verga, se stesso (contro Petrarca, Tasso, D’Annunzio), li definisce come artisti lontani “dal vuoto intellettuale, dal disimpegno etico, dall’evasione umana, dal dilettantismo e dal solipsismo magniloquente”. [41]
[41] Leone de Castris, Storia di Pirandello, Laterza & Figli, Bari, 1992, p. 79.
D’altronde, Pirandello rifiuta ogni precostituito modello nell’ambito dell’arte, d’accordo con la tesi che l’arte sia creazione spontanea, critica il naturalismo appunto per il tentativo di voler “annegare l’arte nella scienza”. Verga, però, agli occhi di Pirandello, era capace di oltrepassare mera imitazione, di staccarsi dalle regole naturalistiche. Prendendo alcuni spunti dal verismo l’adatto per i fini di una poetica assai originale, generata da “libero e spontaneo movimento d’un’immagine di vita ch’era dentro di lui”. [42]
[42] Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994, p. 164.
Il ragionamento teorico pirandelliano presenta chiaramente le basi idealistiche: “Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e perciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte che appunto vive per sempre, in quanto é forma”. [43]
[43] Prefazione all’edizione del 1925 dei Sei Personaggi in Cerca d’Autore, in M.A. Maggi, Il Relativo e l’assoluto (Luigi Pirandello), Federico & Ardia, Napoli, 1988, p. 34.
L’arte rappresenta l’unica sicurezza nel mondo frantumato, pieno di disagio, di miserie, ostacoli e contraddizioni. Pirandello vive profondamente l’inconciliabilità del mondo che si é rilevata dolorosamente proprio nella sua epoca storica. Affronta il sentimento di perdizione nel caos universale, lo soffre, lo combatte, e infine lo vince sul campo dell’arte.
Vediamo adesso come Pirandello percepisce e commenta il più famoso testo dello scrittore lombardo nei suoi saggi teorici, attraverso le lenti della nuova concezione poetica. Tante pagine dei testi cruciali della nuova proposta estetica pirandelliana sono dedicate al capolavoro manzoniano. Il richiamo al mondo dello scrittore lombardo è molto frequente negli scritti di critica di Pirandello: per aprire una polemica con i letterati coetanei, per chiarire qualche motivo di poetica, o per delineare un’idea di estetica.
Pirandello considera Manzoni uno scrittore storico insigne che sa derivare molte situazioni poetiche dalla materia religiosa, e sviluppare l’azione in luoghi d’infanzia con “la chiarezza e la particolarità meravigliosa nel disegno, che son tra i grandi meriti dell’opera sua”. [44]
[44] Pirandello, Luigi, L’Umorismo e Altri Saggi, Giunti Gruppo editoriale, Firenze, 1994, p. 53.
Quando Pirandello ne L’Umorismo fa conti con i più famosi scrittori italiani, dalle origini fino ai suoi tempi, e distingue tra quelli che adoperano uno stile di parole da quelli che usano uno stile di cose, Manzoni viene posto tra gli scrittori che hanno “cose da dire, cose e non parole, cose prepotenti che esigono da noi un assoluto rispetto per la loro nuda verginità”. ([45] Ibidem p, 26)
Vede Manzoni come il creatore di una “prosa viva” che, con una “narrazione mista”, e “atta a rendere più lievi e riposate pieghe della passione e del pensiero”. ([46] Ibidem)
Secondo Pirandello, Manzoni crea e non imita: “dando nuovo e vivo movimento alla lingua, intimità di stile. Merce sua, eravamo riusciti a serbare intatte e resistenti contro il violento irrompere delle correnti straniere le nostre virtù native”. ([47] Ibidem p.154)
Questa valutazione dell’originalità di Manzoni diventa ragione in Pirandello per creare un suo rinnovamento dei mezzi espressivi nei riguardi del verismo contemporaneo, attraverso un uso efficace e rigoroso della lingua parlata, drammatica espressione della coscienza del personaggio, in una rappresentazione che dev’essere sempre un’avventura soggettiva dello spirito e della fantasia, “poiché l’arte, come scienza del soggetto, non può essere mai oggettiva se non a patto di porre ciò che é creazione nostra fuori di noi, come se non fosse appunto nostra, ma una realtà per se, che noi dovessimo solamente ritrarre con fedeltà”. ([48] Ibidem p.156)
Nel saggio L’Umorismo Pirandello si serve largamente di esempi manzoniani per illustrare il suo concetto dell’umorismo. Pirandello vede nel Manzoni lo scrittore umorista, dimostrando tale proposta sulla figura di don Abbondio, “creazione umoristica di prim’ordine”. ([49] Ibidem p.158.) Anche se l’alto ideale sacerdotale del Manzoni s’incarna nella figura del Cardinale Borromeo, l’autore non ne rimane accecato, perché in lui penetra la riflessione che riduce le proporzioni dell’ideale, conduce al lato opposto, lo sdoppia e ne fa nascere l’“ombra”, l’antitesi dell’ideale, l’immagine di don Abbondio:
“Ma questa limitazione dell’ideale che cos’e? é l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio é appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e però non é comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico”. ([50] Ibidem p.161)
Pirandello esprime la propria affinità spirituale col Manzoni, e vede la figura di don Abbondio quasi come un suo personaggio, con una personalità distorta e “fuori di chiave”, in cui Manzoni ha fuso il tragico e il comico, per esprimere la pena di vivere, propria della condizione umana, la scomposizione umoristica tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere, tra le esigenze sociali e l’imperativo della coscienza. Come I Promessi Sposi così la maggior parte delle opere pirandelliane é costituita sul contrasto, sia al livello strutturale che rappresentativo: l’anima della fabula rimane il personaggio intrappolato nei conflitti esistenziali e la sua condizione produce un’ironia sottile dedicata alla funzione demistificante.
Molti sono insomma i motivi che Pirandello e tanti altri scrittori possono derivare o assumere inconsciamente da I Promessi Sposi. L’opera pirandelliana in cui gli echi del mondo manzoniano sono più frequenti e il romanzo I Vecchi e i Giovani. Procediamo adesso alla parte pratica del nostro lavoro la quale concretizza e materializza le premesse teoriche finora sviluppate e ci permette di scoprire alcune regole che guidano il mondo letterario e spirituale dei due autori.
Capitolo III
III.I. Su “I Vecchi e i Giovani” in generale
Delimitata la posizione particolare de I Promessi Sposi e de I Vecchi e i Giovani nel contesto dello sviluppo del romanzo storico italiano, esposti i tratti principali della situazione e della poetica pirandelliana, possiamo ora restringere i limiti del nostro angolo visivo e dedicarci finalmente alla parte analitico-comparativa della tesi.
Poco dopo L’Umorismo, Pirandello scrive il suo romanzo di maggior impegno, I Vecchi e i Giovani. Il romanzo é ambientato in Sicilia e a Roma, nel periodo delle ribellioni dei Fasci siciliani e dello scandalo della Banca romana. L’opera funge da un esuberante affresco storico ma involge anche la vicenda di una regione, di una città e di una famiglia. Pirandello stesso caratterizza I Vecchi e i Giovani come “il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il dramma della mia generazione”. [51]
[51] Luigi Pirandello in Onofri, Massimo, Considerazioni su “I Vecchi e i Giovani “di Pirandello, in La Modernità Infelice: Saggi sulla Letteratura Siciliana del Novecento, Cava dei Tirreni, Avagliano, 2003.
Sullo sfondo dell’opera possiamo osservare sottile consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento dell’Italia, quello dell’unita come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e soprattutto della Sicilia e del Meridione, quello del socialismo che non era in grado di assumere il ruolo di ripresa del movimento risorgimentale, e invece si é perduto “nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e arretratezza delle masse”. [52]
[52] Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, 1960, p. 253.
Il romanzo, ambientato a Girgenti ma con un intermezzo romano, comincia alcuni mesi prima delle elezioni politiche del 6 novembre 1892 e si conclude con i tragici eventi che seguono alla proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia, decretato da Crispi il 3 gennaio 1894. In quel periodo agitato esplode lo scandalo della Banca Romana, travolgendo parlamentari e ministri e in cui nascono, crescono e vengono sconfitti definitivamente i Fasci siciliani.
In questo scenario sono inserite le vicende pubbliche e private dei Principi Laurentano: il borbonico don Ippolito, il figlio Lando simpatizzante socialista, donna Caterina, vedova di un garibaldino e fremente di spiriti patriottici, il figlio Stefano, travolto dagli scandali parlamentari, il forestiero della vita don Cosmo. Le loro vite e azioni si mescolano con quelle di una vasta folla di personaggi: borghesi affaristi e spregiudicati come Salvo e Capolino, uomini del nuovo ceto dei tecnici come Costa, agitatori socialisti disgraziati come Lizio e Pigna, preti di diversa ideologia ma di medesima avidità come Monsignor Montoro e il canonico Agro, ministri e deputati come Francesco d’Atri, Spiridione Covazza e Corrado Selmi, popolani dell’eroico passato garibaldino come Mortara, folli monologanti come Marco Preola, e tanti altri ancora. Cercare un protagonista nel vero e proprio garbuglio dei numerosissimi personaggi che popolano il romanzo sarebbe senza dubbio completamente inutile, nessuno dei personaggi sembra assumere il ruolo principale. Potremmo anche dire che il “sovraffollamento” aiuta o addirittura genera la frammentazione dell’intreccio. Le prospettive di tutti quanti, coinvolti nel miscuglio babelico dei drammi individuali, dei rapporti interpersonali movimentati, delle discordanze politico-sociali rimangono ugualmente pessimistiche e prive di soluzione. Sia i vecchi che i giovani sono semplicemente dei vinti.
La frantumazione totale allude alla profonda diffidenza in qualsiasi pretensione di una visione oggettiva della realtà e del materiale storico. Alla storia di ciascun dei personaggi é riservato un ampio spazio. Tale fatto rende la trama estremamente complessa e difficilmente sintetizzabile: e ricca di articolazioni interne, innumerevoli prolessi e analessi, intrecci di percorsi. L’elemento di base é la digressione, il tempo e lo spazio sono soggettivizzati. La fabula storica conserva in astratto i nessi di causa e di effetto, ma a essa si contrappone l’intreccio caotico dei singoli quadri narrativi, dedicati alle vicende dei personaggi. Essi sono rappresentati secondo le regole della poetica umoristica: tutti sono ritrattati nella complessità del sentimento del contrario che impedisce al lettore la possibilità di un giudizio definitivo. I concetti di bontà e di cattiveria, di moralità e immoralità vengono fortemente relativizzati.
Nonostante il superamento delle regole del genere sul campo delle strutture spaziotemporali, il romanzo torna alla voce narrante extradiegetica. La duplicità stilistica oscilla quindi tra l’onniscienza del narratore e tra la sua immedesimazione nei personaggi, sboccante nella frantumazione della focalizzazione. C’e da un lato presente un’esigenza di giudizio totalizzante, espresso dall’alto con la voce del narratore onnisciente, dall’altro la necessita della scomposizione umoristica che segue dal basso le contraddizioni e i dettagli minimi del comportamento e della psicologia dei personaggi.
Romano Luperini [53] accenna alla doppia conclusione del romanzo, affidata dapprima alla riflessione di don Cosmo sul non senso della storia e sulla vanità dell’esistenza, poi al carattere esemplare della morte di Mauro Mortara, che fugge per unirsi alle truppe dell’esercito italiano inviato in Sicilia contro il movimento popolare e viene da esso ucciso.
[53] Luperini, Romano, Introduzione a Pirandello, Laterza & Figli, Bari, 1992..
Quando i soldati scoprono sul suo petto le medaglie dell’impresa garibaldina, il narratore si chiede polemicamente: “Chi avevano ucciso?”, [54] ponendo il lettore di fronte al dramma della fine del Risorgimento, della ferocia e dell’assurdità della repressione militare nell’isola.
[54] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 493.
In questo romanzo troviamo sia l’avvertimento del contrario, sia il il sentimento del contrario, i toni e i temi dell’umorismo, i contenuti filosofici della premessa poetica pirandelliana: don Cosmo é uno che “ha capito il giuoco” e vive “fuori della vita”; Aurelio Costa e Francesco d’Atri hanno scoperto l’esistenza, nelle loro anime, di altri se stessi e il fastidio dello sdoppiamento, quello per “propria ombra”, Lando ha intuito che la coscienza razionale e morale dell’uomo non é che un argine al flusso della vita, un mezzo per fissare in una “forma” tendenze inconciliabili ecc.
Il tema di fondo de I Vecchi e i Giovani non é tanto di carattere storico, non mira principalmente a rappresentare la degradazione del potere politico e economico, ma piuttosto a mostrare l’irrazionalità e l’agonismo dell’esistenza, guidata dall’insensatezza e dal caos. Tale posizione é lontanissima dalla razionalità del Cristianesimo manzoniano, la quale aiuta a creare un mondo romanzesco organico, guidato dalla prepotenza divina che garantisce una conclusione positiva della sua storia.
I due autori hanno quindi in comune la rappresentazione di una realtà sociale e storica piena di elementi negativi. Sia Manzoni che Pirandello creano un universo romanzesco dominato dagli incessanti scontri tra le forze contraddittorie che delineano l’esistenza storica e individuale dell’uomo, ma ognuno di loro vede un’origine e una soluzione diversa della conflittualità eterna. Sulle pagine successive cercheremo di captare almeno alcuni frammenti di tale differenza, focalizzando un’area concreta e limitata delle opere letterarie poste in causa.
III.II. La tecnica narrativa sullo sfondo della categoria dello spazio: approssimazioni de “I Vecchi e i Giovani” a “I Promessi Sposi”
Prima di esporre l’analisi vera e propria, occorre ancora fornire un’informazione generale sull’organizzazione spaziale dei due romanzi: la topografia de I Vecchi e i Giovani non é di grandi proporzioni. I luoghi chiave nei quali si muovono i personaggi sono la città di Girgenti, il Porto Empedocle, le campagne circonvicine con i resti monumentali dei grandi Templi antichi e con le tenute di Valsania e di Colimbetra. L’aria della nuova Italia unita é raffigurata per metonimia tramite l’immagine di Roma corrotta e degradata dall’affarismo politico e finanziario.
I luoghi chiave riguardano tre personaggi: il Principe don Ippolito Laurentano, chiuso in volontario esilio nella sua villa di Colimbetra, sul ciglione da cui si apre la visione dei Templi Akragantini. Il suo figlio Lando, socialista che vive a Roma ed infine don Cosmo Laurentano, il fratello di Ippolito, il quale abita nella villa di Valsania, sul burrone a sud di Villa Seta, che guarda il mare.
Né la geografia d’insieme de I Promessi Sposi assume delle dimensioni particolarmente estense. Francesco Marsciani [55] riferisce dell’organizzazione triangolare della topografia complessiva del romanzo.
[55] Marsciani Francesco, La Semiotica dello Spazio nel Viaggio di Renzo verso l’Adda, in Leggere i Promessi Sposi, Bompiani, Milano, 1990.
Il triangolo territoriale che fa da sfondo a tutta l’opera ha sul vertice più alto la zona di Lecco con la salienza percettiva del monte Resegone e sui vertici della base la città di Milano con la salienza del duomo al lato sinistro, il Bergamasco con il punto più alto equivalente alla colle di Bergamo Alta al lato di destra. Dal territorio originario, quello di Lecco, emerge l’Adda ed é proprio questo fiume l’elemento decisivo che rappresenta la linea centrale nella figuratività spaziale de I Promessi Sposi.
Per quanto riguarda i tratti generali della tecnica narrativa delle opere poste in causa, ripetiamo che conforme al modello classico del romanzo ci presentano una figura di narratore onnisciente il quale “ne sa” più dei personaggi,li attraversa anche nello spessore dell’io, nell’intimo dei pensieri, dei sogni e delle fantasia. Nonostante tale corrispondenza di base, il modo in cui i due narratori comunichino il messaggio al destinatario rappresenta tantissime distinzioni tecnico-funzionali la maggior parte dei quali sarà esaminata successivamente.
III.II.I Sfera naturale
Nell’ambito di questo capitolo intenderemo focalizzare le descrizioni paesaggistiche de I Vecchi e i Giovani indicando i tratti in cui la tecnica narrativa pirandelliana assume, si avvicina o si allontana dal modello manzoniano. [56]
[56] Con l’espressione “modello manzoniano” nel contesto del nostro tema intendiamo la narrazione che si svolge secondo il modo del “narratore onnisciente”, la cui voce, quando descrive gli spazi romanzeschi, sembra trasferire quello che osserva nella natura con scrupolosa veridicità e con minuzia affettuosa di particolari sulla pagina. La descrizione iniziale de I Promessi Sposi serve da matrice spaziale del racconto. La voce narrante da inizio a un viaggio conoscitivo che coincide con la lettura, con il viaggio attraverso il testo: dal luogo e dal tempo ai personaggi e alle loro azioni.
Tenteremo di esporre quali funzioni diegetiche le scene naturali possano compiere in ambedue i romanzi e di intravedere le intenzioni autoriali che predeterminano tali funzioni.
All’apertura de I Vecchi e i Giovani ci troviamo davanti alla descrizione di un paesaggio desolato e distrutto dal diluvio della pioggia notturna, seguiamo estesa presa del “lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte”. [57]
[57] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 9.
L’angolo visuale si allarga, captando i tratti del paese emergente dalle “fosche ombre umide della notte” ([58] Ibidem.) ascendenti dal grigio crepuscolo dell’alba.
La voce narrante investe direttamente il luogo, gli oggetti, e sembra seguire i movimenti dell’occhio che registra una sorta di paesaggio topografico su vettori sia orizzontali (lo stradone, i luoghi con gomiti e giravolte, sostegni distrutti ecc) che verticali, procedendo dal basso verso l’alto: partendo dal mare, attraversando le spiagge arriviamo fino alla città “alta e velata sul colle […] Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto d’un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo”. ([59] Ibidem.)
La tecnica della descrizione presenta evidenti paralleli con il modello manzoniano: il tono realistico della voce narrante ci fa subito credere che copia la realtà. Entrambi i romanzi si servono già nella frase iniziale dell’aggettivo dimostrativo “quel” [60] in modo da legare il lettore ad uno spazio storico concreto: a quello delle Alpi Orobie nell’opera di Manzoni, al paesaggio della provincia di Girgenti nel caso de I Vecchi e i Giovani.
[60] “Quel ramo di lago di Como […]”, Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, p. 6.
“La pioggia, caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone […]”, Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 9.
Un altro tratto comune dei due testi é l’introduzione della vicenda mediante il grande topos della strada, motivo che infila il sistema delle relazioni umane dentro il sistema della natura. Con l’entrata in scena del personaggio, in entrambi i romanzi l’occhio del narratore finisce per coincidere con quello della figura, con il suo punto di vista.
Mentre il procedimento descrittivo basato sulla progressione conoscitiva si mantiene analogo in tutte e due opere, l’impressione dell’immagine offerta suscita un’atmosfera completamente opposta: il quadro idilliaco del paesaggio montanaro delle Alpi Orobie viene sostituito da una visione disperata e dolente degli aspri territori siciliani, al momento devastati dalla crudeltà del cielo. [61]
[61] Tale risposta antitetica inserita da Pirandello nel dialogo intertestuale potrebbe essere interpretata come un’allusione all’opposizione tra Nord e Sud italiani, ossia come il tentativo di riscrivere la più recente storia nazionale a partire dal sud della penisola, “vera pietra dello scandalo di una mancata modernizzazione e democratizzazione dell’intero paese” Onofri, Massimo, La Modernità Infelice: Saggi sulla Letteratura Siciliana del Novecento, Aragliono, Cava dei Tirreni, 2003, p. 61. Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 10.
Gli effetti distruttivi della tempesta sono raffigurati dettagliatamente, l’impressione dello squallore senza limiti viene rafforzata tramite scelte linguistiche adeguate. Il disegno paesaggistico è costruito attraverso lunghi periodi staccati, provvisti di espressioni ricche d’aggettivi provenienti da un campo semantico orientato a generare nell’animo del lettore umore malinconico corrispondente all’atmosfera della piovigginosa mattina d’apertura.: “alba livida”, “ostinata crudeltà del cielo”, “fosche ombre”, paese cruccioso”. ([62] Ibidem.)
Il tono dell’incipit pirandelliano corrisponde piuttosto all’atmosfera esposta dal Manzoni nell’ambito del quarto capitolo de I Promessi Sposi, in cui viene presentato padre Cristoforo. [63]
[63] Anche il padre Cristoforo ci é presentato con la stessa tecnica dell’avvicinamento visuale. Il suo camminare non é velato dall’atmosfera di tranquillità idilliaca, ma dall’umore poco allegro del paesaggio di Pescarenico: “A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancora tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne campi di stoppia(…)La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero (…) La fanciulla scarna, tenendo per la coda la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibodella famiglia, qualche erba…” Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, pp.46-47.
Occorre inoltre menzionare la differente maniera ed efficacia con cui i due romanzi coinvolgono i singoli sensi. Manzoni, raffigurando lo spazio, accentua evidentemente la dimensione visiva, cercando di esplorare e contemporaneamente di mettere in scena il mondo. Al nostro parere, Pirandello va oltre, non solo perché fornisce alle descrizioni dei toni, colori e sfumature più espressionistici, in maniera da investire più piani sensoriali oltre a quello visivo, ma soprattutto perché trasferisce l’accento sulla percezione del personaggio-spettatore. Umberto Eco afferma che Manzoni “disegna dei paesaggi reali o immaginari come se fossero dei teatri davanti ai quali il lettore si allena a percepire, oltre che a decifrare, a gettare delle occhiate, oltre che a ricostruire dei significati”. [64]
[64] Eco, Umberto, Semiosi naturale e parola, in Leggere I Promessi Sposi, Bompiani, Milano, 1990.
In altre parole, i quadri paesaggistici offerti dal Manzoni sono molto dettagliati e rappresentati con precisione, tralasciano il primato rappresentativo alla voce narrante. Nel Pirandello invece, si favoriscono le sfumature soggettive dell’ottica dei singoli personaggi. Tale procedimento corrisponde perfettamente a una delle premesse principali della poetica pirandelliana, basata sulla convinzione che la realtà oggettiva non esiste (secondo Manzoni invece si) e che i personaggi, anche se nati nel genio del creatore, una volta inventati, diventano nuovi individui, con la propria coscienza, vivi, operanti, indipendenti dal loro stesso autore. Il discorso indiretto libero diventa lo strumento più adeguato ed efficace per garantire l’individualizzazione della percezione spaziale.
La nostra affermazione si verifica già nell’ambito del capitolo iniziale, con l’apparizione del primo personaggio. Il silenzio ed il grigio che dominano la scena sconsolante vengono interrotti dallo strillo e dalla successiva comparsa di “una giumenta bianca montata da un fantoccio in calzoni rossi e cappotto turchino”. [65]
[65] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 10.
L’illusione di una sfumatura allegra introdotta nel quadro deprimente viene subito cancellata dalla voce narrante:
“[…] a guardar bene, quella giumenta bianca si scopriva anch’essa compassionevole: vecchia e stanca, sbruffava ogni tanto dimenando la testa bassa, come se non ne potesse più di sfangare per quello stradone; e il cavaliere, che la esortava amorevolmente, pur in quella vivace uniforme del soldato borbonico, non appariva meno avvilito della sua bestia, le mani paonazze, gronchie dal freddo, e tutto ristretto in se contro il vento e la pioggia”. ([66] Ibidem.)
Il primo personaggio introdotto ci viene presentato come una creatura bizzarra e fuori tempo, rimandando subito al parallelo con Don Chisciotte di Cervantes, più tardi confermato dalla voce del narratore stesso. [67]
[67] Uno dei personaggi minori, lo sciagurato figlio del segretario del principe Laurentano Marco Preola, rivolge a Sciaralla un poemetto derisorio, in cui lo paragona a don Chisciotte. Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 20.
Seguendo il viaggio del capitano Sciaralla entriamo tramite il discorso indiretto libero nella sua mente, scoprendo i suoi lamenti, le opinioni, le preoccupazioni, i ricordi, le chiacchiere del paese, e veniamo a conoscere in anticipo i personaggi di primo piano che saranno messi in scena posteriormente (i tre fratelli Laurentano, Mauro Mortara ecc). La triste visione dello stradone e della campagna distrutti dal nubifragio notturno rafforzano nel capitano la convinzione dell’inerzia e dell’incapacità dei suoi compaesani di opporsi alle contrarietà e alla miseria dell’esistenza:
“[…] a Girgenti nessuno si moveva, ne accennava di volersi muovere! Paese morto […] L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda confidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose” ([68] Ibidem., p. 15.)
Seguendo i passi di Sciaralla, il lettore giunge ai resti dei Templi girgentini, testimoni della gloria dell’antichissima città scomparsa. L’accenno alla favolosa grandezza del passato si contrappone alla concreta miseria del presente. Il fiume Drago s’integra pienamente nel deprimente quadro: d’estate secco e ragione di malaria per le trosce stagnanti, d’inverno impetuoso e torbido. Come se le condizioni paesaggistiche predeterminassero tanto gli abitanti quanto gli elementi di natura ad una vita senza consolazione e senza speranza:
“Veramente da quella triste contrada maledetta dai contadini, costretti a dimorarvi dalla necessita, macilenti, ingialliti, febbricitanti, pareva spirasse nello squallore dell’alba un’angosciosa oppressione di cui anche i rari alberi che vi sorgevano fossero compenetrati: qualche centenario olivo saraceno dal tronco stravolto, qualche mandorlo scheletrito dalle prime ventate d’autunno”. [69]
[69] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 16.
Il passo precedente suggerisce che il primato del punto di vista dei singoli individui é necessariamente accompagnato dalla corrispondenza tra condizioni ambientali e stati d’animo dei personaggi che entrano in scena. Nel primo capitolo tale corrispondenza e rispettata con puntualità fino all’ultimo momento, quando don Cosmo s’affaccia alla terrazza di Valsania:
“Guardo gli alberi, davanti alla villa: gli parvero assorti anch’essi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del giorno, invano l’aria smovendo loro le fronde tentassero di scuoterli. Da un pezzo, ormai, nel fruscio lungo e lieve di quelle ronde egli sentiva, come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita”. ([70] Ibidem, p. 43.)
Quello che nei semplici personaggi incontrati fin qui era appena accennato e sfiorato, nelle figure di alta cultura capaci di riflessioni e di sentimenti più complicati, assume qualità e spessore del tutto diversi. Accade più volte nel decorrere della vicenda che il luogo, la natura diventano portavoci del mondo interiore e sentimentale di un personaggio, oppure di un rapporto umano, come per esempio nel quinto capitolo, in cui Dianella e Salvo rimangono soli affacciati alla notte buia:
“La notte era scurissima. Le stelle profonde, che pungevano e allargavano il cielo, non arrivavano a far lume in terra (…) Poi la luna emerse, paonazza, su dall’ampia chiostra di Monserrato in fondo, e s’avverti un lievissimo brulichio di foglie per tutta la campagna. Un cane, lontano, abbaio”. ([71] Ibidem, p. 150.)
Il buio notturno, il mormorio delle foglie sottolineano l’incomprensione tra padre e figlia. Il dialogo non li avvicina e non li svela l’un l’altro. Si scambiano le parole, attenti a non scoprire i propri sentimenti. L’uno all’altro rimangono misteriosi quanto é misteriosa per ciascuno di loro la voce sottile della natura. Nell’avanzare della scena, appena Dianella rimane sola con la sua infelicità radicata nella scarsità dell’affetto paterno, lo spettacolo vivo del paesaggio diventa più animato:
“Dianella torno a nascondersi il volto tra le mani. Nel vuoto angoscioso, fissando l’udito, senza volerlo, nel fitto continuo scampanellio dei grilli, le parve ch’esso nel silenzio diventasse di punto in punto più intenso e più sonoro […] Scopri il volto: come un sogno le apparve allora la pace smemorata della campagna, li presente, all’umido e blando albore lunare. E un fresco rivo inatteso di tenerezza le scaturi dal cuore […].Ah, era pur bello lo spettacolo di quella profonda notte lunare su la campagna. ([72] Ibidem, p. 152-153.)
Gli esempi di don Cosmo e di Dianella a faccia a faccia con la natura non riferiscono soltanto della funzione contemplativa dei quadri paesaggistici. Oltre a rendere più colorati e suggestivi i sondaggi nella psicologia dei personaggi, le rappresentazioni del contatto uomo-natura rimandano anche alla dimensione metafisica. Le espressioni come “vuoto angoscioso”, “la pace smemorata della campagna”, “intimità misteriosa con la natura” ([73] Ibidem, p. 152-153.) evocano l’immensità indeterminata della natura. La descrizione delle vedute é priva di eccessivi particolari, l’indefinitezza delle immagini suscita nel lettore l’impressione di un’incomprensibile enormità. Spesso sono i personaggi vicini alla morte i cui sguardi mirano appunto quell’immensità della campagna, del cielo, del mare, l’immensità che rimanda all’ “oltre”. Basta pensare al suicida Corrado Selmi, il quale sale sul colle, dedicandosi al grembo dell’elemento naturale, “sotto l’azzurro intenso del cielo” si sublima “sopra e oltre il tempo”. ([74] Ibidem, p. 373.) Ed evidentemente, per Pirandello, la morte non significa la fine, ma la liberazione salvatrice, la soglia da oltrepassare per diventare tutt’uno con la natura, con il “flusso di vita”. Perciò anche Corrado Selmi “Si senti lassù libero e solo, libero e sereno, sopra tutti gli odii, sopra tutte le passioni (…), assunto a quella altezza dal suo grande amore per la vita ch’egli difendeva, uccidendosi”. ([75] Ibidem.)
Nel testo manzoniano non è possibile trovare i passi paesaggistici di simile portata metafisica, il ciò corrisponde ad un diverso sfondo concettuale dell’autore. Il suo profondo cristianesimo creazionista non ammette l’esistenza di una “Natura” autonoma, il cui funzionamento é gestito unicamente da una forza motrice immanente. Manzoni può descrivere soltanto una “natura–prodotto” del magnifico atto divino, completamente dipendente dalla volontà del suo Creatore.
Un altro passo considerevole nel complesso della spazialità de I Vecchi e i Giovani é situato a meta del quinto capitolo della prima parte. L’“Addio, Sicilia” di Mauro Mortara, espresso nel momento del ricordo della sua fuga per Malta, rappresenta il più palese riferimento al capolavoro manzoniano. In entrambi i romanzi, la carica emotiva rivelata nei confronti di terra natale sembra raggiungere il culmine nel congedo poetico. Nel Manzoni le pagine dell’“Addio” sono una sommessa armonia di suoni e di tinte: ne viene un’impressione di silenzio e di lenta, malinconica pace. Tutto sembra traduzione della realtà in parole, e il solito Manzoni, sempre fedele al vero, la solita precisione che sembra lasciar parlare le cose. Le parole pronunciate non appartengono a Lucia, anche se il ritmo é il suo, della sua anima semplice e pura, dolente ma rassegnata e serena, ma piuttosto all’autore, che costruisce così un monumento lirico all’armonia dell’idillio. Pure il motivo dell’acqua da oltrepassare (nel primo caso del fiume, nel secondo del mare) si trova in tutti e due romanzi e conserva il significato simbolico: da una riva all’altra, dalla sicurezza della terra natale verso i posti sconosciuti ed avventure imprevedibili. Mentre l‘“Addio” di Lucia rivela i sentimenti presenti, quello di Mauro fa parte dell’analessi riguardante il piano della sua memoria. In questo caso, la funzione diegetica attribuita alla scena paesaggistica cambia. Piuttosto che referenza alla corrispondenza tra lo stato d’animo e condizione naturale, colpisce l’accento trasferito al patriottismo. Il paesaggio-natura viene in tale maniera adombrato dal paesaggio-patria in corrispondenza al ricambio del discorso indiretto libero con il monologo pronunciato ad alta voce. Secondo Massimo Onofri, tale fatto metanarrativo porta ad un effetto parodico:
“Come se Pirandello, sostituendo Lucia il cui destino romanzesco é governato dalla divina Provvidenza, con il vecchio Mortara, la cui tragica vicenda emblematizza al sommo grado il fallimento delle idealità risorgimentali, avesse voluto, con ciò stesso, liquidare il provvidenzialismo dell’alto modello manzoniano. Con uno stratagemma simile a quello di Verga, che aveva significativamente aperto I Malavoglia con l’affondamento di una barca chiamataProvvidenza”. [76]
[76] Onofri, Massimo, Considerazioni su “I Vecchi e i Giovani” di Pirandello, pp. 59-60.
Ma perché Pirandello vorrebbe liquidare il provvidenzialismo, ormai sepolto non solo nella coscienza umana generale ma anche sul piano letterario (al quale fa riferimento Onofri stesso)? Forse si potrebbe aggiungere all’affermazione di Onofri che Pirandello piuttosto che liquidare il provvidenzialismo liquida e deride l’adesione assoluta ad un certo credo. Manzoni, invece di Pirandello, non ha sopravvissuto alla morte del proprio ideale, e perciò la sua reticente Lucia, anche se espulsa dal “paradiso” alla fine afferma l’onnipotenza divina. Pirandello che ha assistito sia alla distruzione del provvidenzialismo del suo predecessore letterario (grazie alle nuove scoperte scientifiche, ai nuovi postulati filosofici e ai propri travagli interni), sia al fallimento dell’ideale risorgimentale, rivolge l’“Addio” alla fede in una verità assoluta. E lo fa con certa aria di caricatura, collegata anche al personaggio, che capisce tutto a modo suo e pensa che il vecchio principe Gerlando sia fuggito a Malta in nome dell’unita d’Italia, mentre (come don Cosmo ha spiegato al lettore molto prima) il generale pensava solo all’indipendenza della Sicilia dominata da una ristretta aristocrazia feudale. Dunque il passo ha un valore diegetico tutto differente, forse il suo ruolo principale é solo quello di svelare il mondo interiore di Mauro Mortara che é un simbolo dell’ignorante illuso e infine deluso, destinato a morire ammazzato da chi ha il potere in mano.
Le immagini campestri, oltre alla funzione di corrispondere allo stato d’animo dei personaggi, di rasserenare i loro tormenti interni o di rimandare a livello metafisico a volte assumono un’altra funzione diegetica. In molti passi il narratore sfiora l’acuta problematica sociale, rivelando che le tenute di Valasania e di Colimbetra dei quali parleremo successivamente, sono soltanto due isole sperdute nel mare dei campielli coltivati dai poveri contadini oppressi dall’insopportabile usura. La Sicilia dell’arretratezza economico-sociale, dell’immaturità politica delle masse, dell’orrenda violenza popolare e cresciuta sullo scenario della formidabile natura. La problematica socio-politica viene poi sviluppata con maggiore approfondimento e concretezza soprattutto sullo sfondo dell’ambiente cittadino.
Pure Manzoni mostra la povertà e la condizione misera degli umili inserite nell’armonico seno naturale: “La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero” [77] scrive nel quarto capitolo mentre fa entrare in scena il padre Cristoforo.
[77] Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, pp. 46-47.
Il lettore avverte subito il netto contrasto tra la bellezza degli elementi naturali, usciti direttamente dalla mano di Dio e tra l’aspetto penoso e triste di quello che dipende dall’uomo.
Dentro le viste panoramiche che si estendono davanti ai personaggi e ai lettori, ci sono da focalizzare alcuni elementi particolari caricati di uno specifico valore. Tra essi colpisce in primo piano il motivo del fango che diventa denominatore comune non solo delle disperate scene paesaggistiche iniziali, ma, sul piano metaforico, anche dello spazio socio-politico focalizzato soprattutto nei capitoli avanzati del romanzo. L’immagine del fango materialmente pervade le prime pagine sommergendo sia il capitano Sciaralla, sia lo spregevole Marco Preola, ed infine i due poveri e scombinati fondatori del fascio di Girgenti, Nocio Pigna e Luca Lizio. Guardando oltre la loro scomoda condizione fisica, scopriamo facilmente un’altra dimensione della fangosità esposta: fango come metafora politica del cieco antistoricismo borbonico del vecchio principe Laurentano, la cui vittima primaria e il capitano Sciaralla costretto a vestire la divisa compromettente; fango dell’incapacità di prendere la parola in pubblico che imprigiona il vangelo delle idee socialiste di Lizio; e infine il fango morale di Preola sciagurato per natura. Il senso preciso del fango portato dalla pioggia all’apertura del romanzo si chiarirà solo nel primo capitolo della seconda parte dell’opera, dove il cavaliere Cao in attesa del ministro Francesco D’Atri, nei suoi ragionamenti interiori arriva alla conclusione che:
“dai cieli d’Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate sui campi di battaglia e su le croci e le commende, e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali”. [78]
[78] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p.262.
Il motivo di fango mostra come dalla prima alla seconda parte del romanzo il paesaggio possa passare da una prospettiva realistica a una metaforica. Tale procedimento corrisponde profondamente a una delle tesi principali della poetica pirandelliana, secondo cui la realtà all’interno della letterarietà é una finzione la quale é unicamente in funzione del significato che di volta in volta si attribuisce ad essa. Ne I Vecchi e i Giovani, ogni luogo e ogni paesaggio ha una funzione precisabile nell’economia del racconto. Ogni componente topografica e geografica si riferisce a qualche elemento del racconto, qualche personaggio.
Pure Manzoni inserisce nel suo universo diegetico degli elementi naturali dotati di un valore simbolico. Il fango pirandelliano che “piove dai cieli d’Italia”, sembra quasi un’antitesi della pioggia purificatrice che verso la fine [79] de I Promessi Sposi sciacqua la terra dalla peste, designa la definitiva sconfitta delle forze del male e la fine del percorso formativo di Renzo.
[79] Precisamente nel capitolo XXXVII.
Con la rappresentazione della pioggia culmina nel romanzo la tensione simbolica, sempre affacciata alla più forte vena realistica.
Sintesi
Nel primo capitolo abbiamo visto gli avvicinamenti ed i distacchi della tecnica narrativa pirandelliana da quella manzoniana sul piano delle descrizioni paesaggistiche. Dall’analisi sopraffatta si possono ricavare alcune premesse sostanziali che intendiamo mostrare nel seguente riassunto.
Pirandello utilizza i più importanti procedimenti della strategia descrittiva del predecessore. Si serve del suo tono realistico, utilizza il metodo dell’avvicinamento graduale. Anche se la tecnica narrativa dei due incipit é uguale, l’atmosfera del quadro rappresentato é completamente opposta, il ciò predetermina significativamente la disposizione mentale e le aspettative del lettore. [80]
[80] Il quadro idilliaco all’inizio de I Promessi Sposi suscita nell’animo del lettore piuttosto tranquillità e armonia, mentre l’immagine del paesaggio distrutto che apre l’opera pirandelliana butta immediatamente il ricettore in un mondo problematico e preoccupante.
Nonostante l’indiscutibile affinità dello stile, ci sono alcune differenze molto significative da trattare. Manzoni pone accento sul piano visivo, costruendo dei paesaggi come delle scene teatrali, i cui tratti vengono delineati dalla voce del narratore onnisciente, il quale sembra lasciar parlare le cose, sempre fedele al vero. Pirandello invece coinvolge più piani sensoriali, rendendo le immagini più forti ed espressive. Mentre il narratore manzoniano tiene le fila delle rappresentazioni, sceglie gli elementi del paesaggio e resta l’osservatore privilegiato del mondo, lo scrittore novecentesco favorisce l’ottica dei personaggi. Così la realtà si frantuma nella molteplicità degli sguardi. Questo procedimento aiuta i personaggi pirandelliani a unirsi in un’intimità misteriosa con la natura, a interiorizzarla. Essa completa le manifestazioni degli stati d’animo. Tale corrispondenza tra le condizioni naturali e quelle mentali dei protagonisti, tipica del romanticismo letterario, occorre nel Manzoni un’unica volta: nel momento della conversione dell’Innominato.
Pure la dimensione metafisica presente in alcune scene pirandelliane in cui lo sguardo umano si disperde nel tutto della natura sicuramente non discende dal modello manzoniano. Nell’universo guidato dalla Provvidenza certo non può esistere una forza autonoma che muove il cosmo, un flusso di vita universale, perennemente pulsante, al quale lo spirito si unisce appena liberato dalla forma dell’esistenza umana. Per Manzoni la natura è semplicemente una creazione, la testimonianza che celebra e rispecchia grandezza divina. E come tale viene rappresentata, con scrupolosità scientifica, secondo le regole d’una prosa esatta e aderente alle cose.
Il più palese richiamo a I Promessi Sposi è situato nel quinto capitolo della prima parte de I Vecchi e i Giovani. Si tratta dell’“Addio, Sicilia” pronunciato dal vecchio patriota Mauro Mortara. Tale passo si riferisce apertamente all’Addio ai Monti di Lucia, in cui culmina il tono poetico delle descrizioni manzoniane. Nel momento del congedo, la giovane promessa sta per abbandonare involontariamente il suo paese natale, scambiando l’innocenza intatta per un futuro insicuro nei posti sconosciuti e alla portata di mano delle forze del male. Le parole nostalgiche di Mauro fanno parte del ricordo, e perciò l’insicurezza e paura nei confronti dell’avvenire sono sostituite dall’amara esperienza del fallimento di un ideale. Manzoni sulle pagine dell’”Addio” costruisce un monumento lirico all’armonia dell’idillio che sarà sciolto definitivamente nella conoscenza del mondo acquistata dai protagonisti nel corso della vicenda, ma persevera l’infallibile fiducia nella Provvidenza. Pirandello, indottrinato del forte scetticismo, si congeda parodicamente con illusori ideali.
Come è già stato detto, il narratore manzoniano nelle descrizioni paesaggistiche pone l’accento sull’accurata dimensione visiva. La volontà di esplorare il mondo, di metterlo in scena aiuta a spettacolarizzare la realtà senza di pretendere dal lettore un particolare sforzo di decifrare e di ricostruire dei significati di fronte alle descrizioni. Naturalmente ci sono degli elementi forniti di un certo significato simbolico, ma il loro ruolo nella narrazione non é talmente portante come nel Pirandello, il quale da maggiore importanza all’uso di metafora. L’esempio più caratteristico è il motivo del fango che diventa denominatore comune non solo delle scene paesaggistiche iniziali e finali, ma, sul piano simbolico, anche dello spazio sociopolitico focalizzato nei capitoli avanzati del romanzo.
Osservando la strategia narrativa sullo sfondo delle rappresentazioni paesaggistiche, possiamo vedere come il piano tecnico della scrittura rimanda al rapporto che s’istaura tra l’autore e la realtà circostante. Per Manzoni tale realtà si presenta come un oggetto da osservare, da esplorare scientificamente. Pirandello invece rinuncia alla possibilità di dare un’immagine complessiva e sicura del mondo. Il suo narratore trasmette e organizza gli sguardi dei singoli personaggi, facendo trasparire i loro sentimenti e disposizioni mentali, ma anche i frammenti delle preoccupazioni metafisiche dell’autore.
III.II.II Sfera privata
Nella parte precedente ci siamo concentrati piuttosto allo studio della tecnica narrativa rivolta alla rappresentazione del paesaggio aperto in generale, non legato esclusivamente a un personaggio concreto. Abbiamo individuato i punti in cui Pirandello evidentemente prende gli stimoli dalla strategia manzoniana, cercando di indicare le funzioni diegetiche dei singoli passi messi in causa.
Successivamente tenteremo di restringere la nostra lente analitica concentrandoci all’insieme dei principali spazi privati in cui si svolgono le azioni dei personaggi di primo piano. Il punto di partenza non sarà più “la natura che ingloba l’uomo” ma piuttosto la relazione capovolta: “l’uomo che ingloba la natura (l’ambiente adiacente)”. Ci concentreremo al modo del narratore di rappresentare il più stretto “raggio d’azione” dei protagonisti e vedremo quali fini ne si possono ricavare. Come abbiamo accennato prima, la parte della vicenda ambientata in Sicilia, con al centro la vita privata, ha come epicentri narrativi la villa di Valsania, la tenuta di Colimbetra e Girgenti.
Dinnanzi tutto occorre affermare che la rappresentazione del privato ci avvicina al personaggio, evidenzia i tratti del suo profilo caratteriale, aiuta a penetrare nella sua psicologia e nei suoi rapporti interpersonali intimi. Per la nostra analisi a questo punto diventa molto rilevante il fatto che Pirandello, rispetto al Manzoni, dedica più spazio e maggior interesse alle scene private. Questa osservazione trova spiegazione nelle circostanze storiche [81] e soprattutto nello sfondo autobiografico [82] de I Vecchi e i Giovani che sbocca naturalmente in una più nutrita inclinazione al piano individuale.
[81] É ben noto che lo spazio privato, al riparo dagli sguardi altrui, acquista sempre maggior protezione legislativa nel corso dell’Ottocento. Nella seconda meta del secolo la linea di separazione tra la sfera pubblica e quella privata e già marcata, le scene della vita domestica suscitano conseguentemente l’interesse degli artisti. La letteratura risponde alla nuova situazione con l’esplosione del romanzo sociale e quello di costume.
[82] La dimensione autobiografica del romanzo é stata studiata con tanto rigore da Leonardo Sciascia che considera I Vecchi e i Giovani “l’opera più autobiografica di Pirandello”. I paralleli tra i personaggi e luoghi del romanzo e tra i posti e i familiari reali di Pirandello sono illuminati nel libro Pirandello e la Sicilia scritto da Leonardo Sciascia. Sciascia, Leonardo, Pirandello e la Sicilia, Adelphi Edizioni, Milano, 1996, p. 72.
La nozione del privato, oltre ad approfondire la caratterizzazione psicologica dei personaggi, rimanda nel significato più ampio del termine anche al campo sociale, ossia al concetto della famiglia. Conseguentemente cercheremo di ricavare dall’insieme delle singole rappresentazioni domestiche un’interpretazione in grado di illuminare il giudizio dei due autori sull’istituzione familiare. La prima immagine dell’ambiente privato ne I Vecchi e i Giovani ritratta la villa di Valsania, circondata da “la campagna lieta della vicinanza del mare, tutta a mandorli, a olivi e a vigneti […]. [83]
[83] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 33.
Sono da notare i diminutivi del narratore che rivestono l’immagine esposta di un’atmosfera ben diversa rispetto a quella delle pagine precedenti, fornendole per un attimo una carica affettuosa e quasi idilliaca; lo stradone é scambiato per il sentieruolo e passando accanto alla chiesuola Sciaralla raggiunge pochi ettari di campo sativo, il vigneto, l’antico oliveto saraceno ed il mandorleto appartenenti a don Cosmo.
Nell’universo diegetico pirandelliano il carattere del padrone si rispecchia chiaramente nella sua proprietà domestica, nell’ambiente che crea e che anima. E perciò la villa di don Cosmo soffre la noncuranza ed il disinteresse del padrone, come qualsiasi altra cosa che non riguarda la sfera dei pensieri filosofici e dei ragionamenti metafisici a cui egli si é dedicato e consacrato. Don Cosmo si é rinchiuso tra i suoi libri, ha scelto la vita solitaria e isolata, aliena di ogni preoccupazione mondana, “vivendo in quell’esilio, assorto sempre in pensieri eterni, con gli occhi alle stelle, al mare li sotto, o alla campagna solitaria intorno […]”. ([84] Ibidem, p. 64.)
Però le passioni intellettuali del vecchio scettico non gli offrono risposte e soluzioni concilianti alle interrogazioni esistenziali, anzi, don Cosmo preferisce la saggezza naturale dei cani, concentrati solo al soddisfare dei loro bisogni fisici.
L’atteggiamento familiare e caloroso [85] del narratore nei confronti della vecchia casa culmina nel momento in cui essa diventa l’oggetto dei forzati rinnovamenti dovuti al prossimo incontro di don Ippolito con la sua promessa sposa.
[85] Tale atteggiamento familiare é motivato dal rapporto personale di Pirandello con il luogo. In Valsania è riconoscibile la campagna in cui l’autore é nato, a sua volta chiamata Cavasu “corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xaos, cosa che lo (Pirandello) legittimava a sentirsi di fatto figlio del Caos”. Onofri, Massimo, Considerazioni su I Vecchi e i Giovani di Pirandello, p. 72
L’effetto d’immedesimazione e di compassione é raggiunto tramite personificazione della villa:
“Non se l’aspettava, intanto, il vecchio cascinone di Valsania, nel desolato abbandono in cui da tanti anni viveva, tutti quei fronzoli e quei pennacchi, tutti quei paramenti sfarzosi che i tappezzieri gli appendevano dalla mattina. Pareva se li guardasse addosso, triste e un po’ stupito, con gli occhi delle sue finestre. “ [86]
[86] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, p. 203
Il passo successivo rimanda all’interessante analogia tra la casa e il suo padrone. Entrambi godono d’isolamento sociale e si sentono a loro agio o nel mondo astratto dei pensieri filosofici, o nel ritornare al seno della natura:
“Lontano dalla vita degli uomini e quasi abbandonato da essa, aveva da un pezzo cominciato a sentirsi, nel sogno, cosa della natura: le sue pietre, nel sogno, a risentire la montagna nativa da cui erano state cavate e intagliate; l’umidore della terra profonda era salito e s’era diffuso nei muri, come la linfa nei rami degli alberi; e qua e la per le crepe erano spuntati ciuffi d’erba, e le tegole del tetto s’eran tutte vestite di musco. Il vecchio cascinone, dormendo, godeva di sentirsi così riprendere dalla terra, di sentire in se la vita della montagna e delle piante, per cui ora intendeva meglio la voce dei venti, la voce del mare vicino, lo sfavillio delle stelle lontane e la blanda carezza lunare.”([87] Ibidem.)
La villa pare quasi un castello incantato, la descrizione é lontana dai canoni delle rappresentazioni realistiche, basandosi piuttosto a un tono fiabesco.
Simile strategia di caratterizzazione di un certo personaggio tramite paralleli evidenti con la sua dimora occorre anche nel Manzoni, per esempio quando il suo narratore descrive il castello dell’Innominato.
Pure se Manzoni introduce il personaggio nella luce dei dati precisi ricavati dalle cronache, conseguentemente tralascia la referenzialità storica e si abbandona al tono di legenda dell’immaginario popolare. Il castello é ambientato in uno spazio la cui matrice descrittiva riprende il modello di “Quel ramo di lago di Como”, ma il motivo dominante diventa la natura cupa e “uggiosa” del tiranno che ha ai suoi piedi una valle e una giogaia “angusta […]aspra […] di massi e di dirupi […] di tane e di precipizi”. [88]
Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, p. 271.
L’altezza irraggiungibile in cui é posato il castello simboleggia non solo il chiudersi del padrone dal resto del mondo ma anche l’eccezionalità del personaggio predestinato a diventare il protagonista della più grande manifestazione della grazia divina nell’ambito della narrazione. Il narratore manzoniano quindi caratterizza il personaggio tramite la descrizione della sua abitazione, ma non ricorre alla vera e propria personificazione della figura spaziale. Il castello rimane soltanto un oggetto da osservare. Nel Pirandello il narratore sembra più libero, può andare oltre, dedicando alla villa di don Cosmo, almeno per un attimo, la vita, i sentimenti, i sogni che rimandano all’origine naturale degli elementi da cui la casa é costruita. Viene così sfiorato il concetto del predominio della Natura sulle creazioni dell’uomo, anche le cose inanime come pietre e legno vogliono perdere la forma di una casa e tornare nello stato originario, nella vera vita fondendosi con la terra da cui sono stati presi.
Come é già stato detto, la villa di Valsania in alcuni momenti sembra un castello incantato, e come ogni castello incantato, anche essa ha una sua stanza d’ingresso proibito, protetta da una creatura spaventosa: c’e il “camerone” del generale Laurentano, difeso e custodito da fedelissimo Mauro Mortara il quale sembra un cane di guardia:
“E non l’uscio soltanto, ma anche le persiane dei due terrazzini e della finestra stavano sempre chiuse, quasi che l’aria e la luce, entrandovi apertamente, potessero fugare i ricordi raccolti e custoditi con tanta gelosa venerazione.” [89]
[89] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, p. 136.
La stanza del Generale é il tempio degli ideali risorgimentali del vecchio rivoluzionario:
“Ne i suoi colombi, ne la pace dei campi, ne il governo della vigna, ne il canto delle allodole, riuscivano a rasserenargli lo spirito dopo tanto tempo: quel camerone era come la sua chiesa; e usciva di la com’ebbro, e s’aggirava per la campagna sotto i mandorli e gli olivi, parlando tra se di battaglie e di congiure, guardando biecamente il mare dalla parte di Tunisi, donde immaginava un improvviso assalto dei Francesi…” ([90] Ibidem, p. 147.)
Il momento del significativo non-incontro, di incomprensione generazionale avviene emblematicamente nel “santuario della libertà”. L’atteggiamento derisorio dei giovani compagni di Lando Laurentano durante la visita del “camerone” alla fine del romanzo implica una vera e propria profanazione dei sacri ideali risorgimentali e l’anticipazione della vicina morte del loro più appassionato sostenitore Mauro Mortara.
Nel Manzoni, gli spazi sacri sono le chiese ed i conventi dei cappuccini, d’accordo con la convinzione dell’autore. Tali posti non sono mai descritti con un’attenzione particolarmente scrupolosa, ma nella vicenda hanno un ruolo importantissimo: quello di rifugio sicurissimo e di protezione da ogni male.
Le terre di Valsania, con la vecchia casa abbandonata al centro, rappresentano il luogo più idilliaco e conciliante, quasi il locus amoenus del romanzo. L’atmosfera di tranquillità e di sicurezza é sottolineata sia dalle scelte linguistiche del narratore (sono da notare il cambiamento del tono, il lessico contrastante a quello della descrizione iniziale, segnato dall’uso dei diminutivi) [91] che evocano l’aspetto pittoresco del paesaggio, sia dal tipo di avvenimenti e di azioni ai quali é il posto nel corso della vicenda destinato (il primo incontro dei due promessi sposi, il ristabilimento di Dianella dopo la guarigione miracolosa di un’infezione tifoidea, l’asilo di Lando Laurentano e dei suoi compagni socialisti in fuga per Malta).
[91] Lo stradone su cui procede il capitano é scambiato per il sentieruolo e passando accanto alla chiesuola Sciaralla raggiunge pochi ettari di campo sativo, il vigneto, l’antico oliveto saraceno ed il mandorleto appartenenti a don Cosmo.
Ma niente in Pirandello é univoco, chiaro e ben definito. E così con gli attributi armonici sopra accennati, con la serenità della natura idilliaca di Valsania contrasta paradossalmente la visione dell’universo, dell’essere e della storia del padrone stesso della tenuta. Don Cosmo, il cui nome ironicamente rimanda ad ormai fallita visione dell’universo come d’un sistema organizzato e coerente, si rivela uno scettico totale, convinto soltanto dell’assoluta vanità di tutto, dell’assenza di finalità nel decorrere storico.
A Valsania si apre e si chiude il romanzo: la si dirige all’inizio Sciaralla dopo una notte tempestosa, di la parte Mauro Mortara, nonostante la tempesta e il buio notturno, per andare incontro alla morte, precisamente verso la fine del libro. Tale schema organizzativo della materia narrativa rimosso dalle pagine del libro rimanda alla visione piuttosto ciclica che lineare della storia, il ciò discorda chiaramente con la concezione manzoniana. Ne I Promessi Sposi i due protagonisti non tornano al mondo rassicurante e protettivo da cui sono stati cacciati, la maturazione dovuta alle nuove esperienze di Renzo li spinge a trasferirsi. La concezione della storia come d’un continuum progressivo si rispecchia così nell’organizzazione dello spazio della vicenda.
Nella rappresentazione delle terre di Valsania e del loro padrone possiamo vedere l’unione di due poli contraddittori sorgenti appunto dal carattere autobiografico del posto. Da un lato ci colpisce il tono affezionato e tenero, con cui la voce narrante descrive i luoghi. Tale aspetto rivela un forte legame sentimentale dell’autore al paese natale. L’idillio é però negato dalle considerazioni corrosive del padrone don Cosmo sull’infinita vanità di tutto, sul non senso della Storia vista nel contesto del pessimismo cosmico. Il vecchio scettico inserito nei luoghi più prossimi al cuore di Pirandello diventa il portavoce delle sue più profonde convinzioni: “Una sola cosa e triste, cari miei: aver capito il giuoco![…] Bisogna vivere, cioè illudersi […]; e pensare che tutto questo passera…passera…” [92]
[92] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 482.
Mai nel Manzoni un determinato luogo appartenente all’insieme degli spazi privati e corrispondente perfettamente al campo d’agire di un personaggio di primo piano assume un ruolo strategico nella trasmissione d’un concetto. Le rappresentazioni degli spazi privati inseriti nell’ambiente campestre non rimandano e non approfondiscono il sondaggio nelle preoccupazioni intime dell’autore. Ovviamente, il tono e le scelte linguistiche del narratore svelano il suo rapporto con l’ambiente contadino: gli stessi valori di cui é dotata la natura idilliaca possono essere incontrati anche sotto i tetti delle case popolane. Le abitazioni degli umili, le chiese, i conventi non sono mai ritrattati con la scientifica scrupolosità del paesaggio. Nel caso della casa popolana, piuttosto che concentrarsi ai minuziosi riferimenti architettonici, preferisce il sottolineamento dei valori e dell’atmosfera sociale, ritrae le scene domestiche nella loro umile quotidianità commovente, esprimendo una simpatia sincera
La prima ampia scena domestica é collocata nel sesto capitolo de I Promessi Sposi, nella casa del contadino Tonio. Il quadretto é fedele alla convinzione che l’arte e lo studio e la riproduzione del vero. Pure le scelte lessicali arricchite dall’uso dei diminutivi (“casetta”, “murettino” ecc) confermano e rafforzano l’impressione della familiare propensione e del tenero affetto che lo scrittore mostra di sentire nei confronti degli umili. [93]
[93] Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, p.31.
Pure l’atmosfera e l’aspetto della tenuta di Colimbetra corrispondono pienamente al carattere e agli interessi del padrone. Don Ippolito, analogamente a suo fratello, vive inisolamento dalla realtà attuale. Mentre il distacco di Cosmo é dovuto alle ragioni astratte di carattere spirituale e nelle questioni politiche l’intellettuale resta imparziale, don Ippolito ha deciso di esprimere la propria protesta contro le novità sociali conservando nel suo territorio l’ordine prerisorgimentale. Isolatosi dal 1860 nel suo feudo continua a coltivare rigidamente la propria nostalgia e mantiene inutilmente la guardia privata i cui membri indossano le divise dell’esercito borbonico. La sua posizione reazionaria e clericale é accompagnata dal vivo interesse per l’antico passato girgentino, in particolare per la precisazione topografica della tramontata città greca. Serbando la passione per i templi ellenici ma anche per i monumenti ecclesiastici cristiani, vive radicato profondamente nel passato, senza alcuna speranza di poter rivedere la città natale da cui si é esiliato tanti anni fa.
La villa di Colimbetra con il suo splendore contrasta notevolmente con la sciatta condizione della casa di don Cosmo. Pure l’aspetto fisico dei due fratelli corrisponde a quello delle loro abitazioni: Ippolito é sempre elegante, nonostante la sua eta, molto chic e ben curato, bada al proprio aspetto con minuziosa attenzione. Cosmo, invece, non sente necessita di oltrepassare i criteri d’utilità e di praticità per quanto riguarda la sua apparenza.
Ippolito cerca di afferrare lo splendore antico, gestisce un museo in cui raccoglie gli oggetti antichi scavati a Colimbetra. E’ da notare l’ironia del narratore nei confronti del reazionarismo di don Ippolito, come dimostra la scena iniziale del quarto capitolo. Davanti alla chiesa é posata la statua della nuda Venere acefalache non vuole vedere i fantocci in divise borboniche di don Ippolito inginocchiati davanti ad un’altra divinità:
“In fondo al vestibolo, tra i lauri e le palme, su lo sfondo della gran porta a vetri colorati, la preziosa statua acefala di Venere Urania, scavata a Colimbetra nello stesso posto ove ora sorge la villa, pareva che non pervergogna della sua nudità tenesse sollevato un braccio davanti al volto ideale che ciascuno, ammirandola, le immaginava subito […]; ma per non vedere inginocchiati alla soglia della cappella che si apriva a destra tutti quegli uomini così stranamente parati: la compagnia borbonica di capitan Sciaralla” [94]
[94] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 90.
Attraverso la dea il narratore come se deridesse la tentazione che riesce a suscitare nei poveri uomini di guardia, incapaci di concentrarsi alla preghiera davanti alla sua nudità.
Ma pure il conservatore impetuoso di un passato ormai perduto deve affrontare la fugacità delle cose, inarrestabilità del tempo:
“Don Ippolito guardo i Templi che si raccoglievano austeri e solenni nell’ombra, e sentì una pena infinita per quei superstiti d’un altro tempo e d’una altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città scomparsa solo ad essi era toccato in sorte di vedere quegli anni lontani: vivi essi soli già, tra la rovina spaventevole della città: morti ora essi soli in mezzo a tanta vita d’alberi palpitanti, nel silenzio, di foglie e d’ali […] Sono a un tratto, nel bujo sopravvenuto, il chiurlo lontano d’un assiolo, come un singulto. Don Ippolito si senti stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto.” ([95] Ibidem, p. 115.)
Dalla situazione del don Ippolito altra volta traluce la convinzione dell’autore sulla forza autonoma della natura che distrugge spietatamente ogni costruzione dell’ingegno umano, predestinando all’estinzione i tentativi creativi della civiltà. I resti dello splendore antico semisepolti dalle erbacce, l’incontro dopo tantissimi anni con la sorella, ormai ridotta a mera ombra della bellissima giovane del medaglioncino in miniatura, i segni della propria vecchiaia sono gli indizi principali che confermano l’impotenza umana (ma anche personale, sofferta dallo stesso principe) davanti al fluire dell’esistenza. La penetrazione nello spazio privato dell’Ippolito rivela molti aspetti della sua vita interiore. L’impegno convulso con cui egli si dedica all’indagine storico-topografica acquista una dimensione penosa dell’incapacità di assorbire ed elaborare il nuovo. La sua paura della terminabilità si compensa mediante l’adesione al glorioso passato.
Spostandosi dalla prospettiva campestre a quella cittadina, é da menzionare l’importanza esclusiva della casa di donna Caterina Laurentano, sorella di Ippolito e di Cosmo. La vedova del grande patriota Stefano Auriti che ha seguito contro il volere della famiglia, si é chiusa in povertà dignitosa, sdegnosa di ogni aiuto dai fratelli. Ora se ne sta quasi in volontaria clausura, in una casa sotto la Badia Grande, con la figlia Anna, vedova anch’essa e con il nipote Antonio del Re. La sofferenza subita nel corso della vita, la miseria ed il dolore hanno ridotto la vecchia donna, a suo tempo bellissima, forte e ferma, l’hanno imbruttita e indurita. L’atmosfera della vecchia casa in cui abita rispecchia precisamente l’aria della padrona:
“ […] vecchia e vasta casa sempre silenziosa, nella quale il sole, entrando, pareva non recasse mai ne luce ne calore. Che casa! […] Logorati i mobili, anneriti i soffitti, consunto il pavimento, inaridite e stinte le cornici delle imposte, sbiadita in tutte le stanze la carta da parato. Pur curata e pulita e rassettata sempre, pareva che anch’essa sentisse oscuramente la doglia della vita. […] Calma, e non pace! Non poteva aver pace l’anima di donna Caterina Laurentano. Forse perché non credeva più in nulla?” [96]
[96] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 250-251.
Un’altra volta abbiamo possibilità di notare il procedimento descrittivo che si serve di personificazione. Fa parte integrante della poetica pirandelliana l’abitudine di spirare la vita agli oggetti inanimati, il ciò rende l’immagine esposta molto più emozionante. Tale atteggiamento supera i canoni “fotografici” delle rappresentazioni naturaliste.
Davanti alla descrizione della casa di donna Caterina possiamo un’altra volta evidenziare la compattezza tra lo spazio privato ed il personaggio che l’anima. A Caterina é attribuito il ruolo della fata crudele, la sua ottica cupa e lugubre impedisce la penetrazione di qualsiasi prospettiva o visione positiva nel suo modo di percepire il mondo. Affronta con serissima disperazione sia il passato, sia il futuro, priva del minimo alleggerimento ironico, delle illusioni, sembra un’ombra viva.
La rappresentazione dello spazio animato da donna Caterina sembra essere in relazione con la chiusura dell’infelice Monaca di Monza manzoniana. Anche lei ha vissuto il suo dramma, e infine, abbattuta dall’avversità del destino é rimasta separata dal mondo e dalla vita. Mentre Caterina é in prigione volontaria e può esprimere liberamente le sue cupe profezie, la chiusura di Gertrude rispecchia l’impossibilità di rivelare i propri sentimenti. Il silenzio delle celle e dei corridoi del monastero di Monza contrastano con l’inquietudine interna del personaggio.
Dalle immagini degli spazi privati esposti sul piano letterario si può tra l’altro ricavare la visione degli autori dell’istituzione familiare. Allontanando lo sguardo dai singoli elementi (le case e soprattutto le azioni dei tre fratelli Laurentano) possiamo giungere ad una prospettiva più ampia che assorbe tutto l’insieme (la famiglia Laurentano). Gia il fatto che i tre rappresentanti della vecchia generazione legati per il rapporto di parentela vivono ciascuno nella sua isolazione, é di portata abbastanza significativa. La loro comunicazione e minima, in più la posizione politica garibaldina e gli avvenimenti del passato portano Caterina a ignorare completamente don Ippolito. Un altro esempio considerevole é la situazione tesa della famiglia Salvo: la madre psichicamente malata e la scarsità totale dell’affetto paterno fanno soffrire terribilmente la sensibile figlia Dianella, la quale infine esce di senno. Il romanzo é ricco di momenti, situazioni e rapporti che rimandano ad una visione del nido familiare molto pessimista. La famiglia risulta il luogo sprovvisto della sua originale funzione protettiva e affettuosa, in cui la comune solitudine umana diventa più dolorosa.
Esattamente il motivo principale della vicenda de I Promessi Sposi dichiara che la visione dell’istituto familiare é completamente opposta alla cupa immagine pirandelliana. Il capolavoro del Manzoni privilegia il mondo degli umili con la famiglia al centro. Le scene domestiche nelle case dei poveri popolani rappresentano il nido incontaminato, fonte originaria dei valori esatti, lontani dalla corruzione e dell’ambiguità. Però il narratore manzoniano non tralascia tale idillio stabile e immutabile. L’esperienza mondana dell’eroe ingenuo implica perdita della sua semplicità noncurante. Il paese come luogo dell’innocenza non è più adatto per i due protagonisti, poiché innocenti non sono più, hanno conosciuto il male ed i meccanismi che regolano storia. Manzoni unisce sotto un unico tetto coniugale due elementi contrastanti: la morale pragmatica di Renzo é quella passivamente abbandonata alla provvidenza di Lucia.
Sintesi
Sulle pagine precedenti abbiamo ristretto la nostra prospettiva dal piano delle ampie scene paesaggistiche alle più importanti rappresentazioni delle figure spaziali legate intimamente ai personaggi di primo piano. Il topos centrale della sfera privata e naturalmente la casa. In tale contesto, il punto più significativo che allontana decisivamente i quadri degli spazi privati di Pirandello da quelli manzoniani, consiste in diverso grado d’importanza ad essi attribuito.
Non esiste nel Manzoni la centralità di un concreto spazio chiuso. Pare che ne I Promessi Sposi la sfera del privato raffiguri soltanto un sottoinsieme di un più ampio campo semantico. Conseguentemente le scene domestiche nelle case popolane sono esposte con un tono amorevole e tenero, in quanto esse si inseriscono nella dimensione naturale, dotata nell’universo manzoniano di valori decisivamente positivi. La tecnica narrativa in tali occasioni mantiene il tono realistico, ma la scrupolosità scientifica che caratterizza le descrizioni paesaggistiche cede posto al sottolineamento dell’atmosfera familiare e della modesta cristiana.
Pirandello invece distacca nell’ambito dell’universo romanzesco l’immagine della tenuta di Valsania e le attribuisce delle funzioni molto significative. Il tono affettuoso con cui e descritta rivela il legame personale dell’autore al luogo. Nelle terre di Valsania é facilmente riconoscibile la campagna in cui Pirandello é nato chiamata Càvasu, variante dialettale del greco Xaos. Il padrone della villa chiamato don Cosmo quindi vive nel Caos. Il personaggio Cosmo, profondamente convinto del caos universale: tale rapporto ovviamente oltrepassa i limiti del romanzo e rimanda alle preoccupazioni intellettuali ed esistenziali dello stesso autore. Pirandello si dichiara “figlio del Caos” tanto in senso concreto quanto in quello astratto, proiettando e approfondendo le proprie convinzioni tramite il suo alter ego romanzesco.
Gli aspetti esterni della villa coincidono con i tratti caratteristici del padrone, il ciò succede più volte anche nella vicenda manzoniana. Il narratore de I Promessi Sposi rimane però sempre fedele al tono realistico, percepisce e rappresenta le figure spaziali come degli oggetti inanimi. Pirandello va oltre, attribuendo in alcuni passi i sentimenti e vita propri alla villa di Valsania. Tale procedimento aiuta ad approfondire il sondaggio all’interno del padrone della casa e a rendere la descrizione più suggestiva.
L’immagine della tenuta di Colimbetra é ritrattata con la tecnica analoga. La casa rispecchia il carattere e gli interessi del padrone, anch’essa rappresenta il luogo d’isolamento volontario, il suo aspetto sottolinea il contrasto tra i due fratelli Laurentano. La raffigurazione del posto é dotata anche di funzione ironica: mostra la vanità della lotta dell’ingegno umano contro la supremazia della Natura.
L’ultima figura dello spazio privato che abbiamo preso in considerazione é stata la casa di donna Caterina Laurentano ambientata nella città di Girgenti. Pure in questo caso il narratore ricorre alla personificazione, il ciò rende sia la descrizione, sia l’analogia con la padrona molto più espressiva. La clausura della vecchia donna rimanda alla prigione monastica della Gertrude, anche lei isolata definitivamente dalla vita pregevole. Tutte e due si sono ridotte otto i colpi del destino a mere ombre delle loro speranze sconfitte.
Nell’ultima istanza abbiamo accennato al legame tra la nozione del privato e la visione dell’istituto familiare. Pure in questo caso assume un ruolo importante sia lo sfondo autobiografico de I Vecchi e i Giovani [97] sia la situazione sociale.
[97] Leonardo Sciascia interpreta nel suo libro Pirandello e la Sicilia alcuni passi e motivi de I Vecchi e i Giovani a ridosso delle tensioni e dei problemi familiari dello scrittore.
La storia della famiglia Laurentano svela una crisi profonda dei rapporti interpersonali. L’affetto familiare viene scambiato per il “familismo” affaristico che accompagna le pratiche del clientelismo meridionale.
La fine aperta de I Promessi Sposi che ha fuso il razionalismo con la fede cristiana trova ne I Vecchi e i Giovani una triste continuazione: eliminato l’idealismo provvidenzialista, il pragmatismo diventa freddo e spietato. L’istituto familiare corrotto rispecchia la crisi dell’intera società sommersa in fango.
III.II.III. La sfera sociale
Nell’ultimo passo del capitolo precedente abbiamo preannunciato la rappresentazione della crisi dell’intera società attraverso l’immagine del nucleo familiare corrotto. Spostiamo adesso il nostro angolo visuale dall’interno delle case e dei personaggi che le animano verso gli spazi più aperti della vita pubblica e concentriamoci alla problematica sociale di più ampio respiro. Al centro della sfera sociale sta il topos della città. Il sentimento fondamentalmente ostile nei confronti dell’ambiente metropolitano unisce i nostri autori e aiuta a rendere abbastanza simmetrica l’ultima tappa dell’analisi comparativa. Sia ne I Vecchi e i Giovani che ne I Promessi Sposi la città si contrappone alla campagna, assumendo quella prima sempre dei connotati negativi. Vediamo adesso le singole rappresentazioni dello spazio urbano nell’opera pirandelliana e cerchiamo le corrispondenze con le immagini offerte dal narratore manzoniano.
L’insistente problematica politico-sociale a cui la narrazione ne I Vecchi e i Giovani dedica vasto spazio viene esposta ed affrontata soprattutto sullo sfondo degli ambienti cittadini. Il rapporto difficile Italia-Sicilia assume delle dimensioni regionali, rispecchiandosi per metonimia nella relazione Girgenti-Roma. Nella capitale le descrizioni ambientali cedono posto alle dispute infiammate dei sostenitori di diverse posizioni politiche e ideologiche.
Pure nel Manzoni la città diventa protagonista della narrazione nel momento in cui la trama si concentra sulle vicende storiche. Il mondo urbano toglie all’uomo le capacità dell’orientamento presbite, predeterminando anche la perdita dell’orientamento sulla scala dei valori.
Vediamo adesso le singole apparizioni della città ne I Vecchi e i Giovani. Girgenti sorge nel primo capitolo del romanzo solo da lontano. Levata sul colle, esce dalla nebbia mattinale,abbandonata in “una miseria senza riparo”, “silenziosa e attonita superstite nel vuoto d’un tempo senza vicende”, esposta spietatamente all’ostinata crudeltà del cielo. Ogni tentativo del lettore di trovare qualche tratto allegro o almeno conciliante sulla faccia di questa città risulta vano; gli é presentata come una povera ombra della propria gloria tramontata.
Il narratore ricorre spesso al paragone del grandioso passato dell’antica Akragas con l’infelice presente, con lo spegnersi della sua energia vitale il cui pulsare si é trasferito a Porto Empedocle “giallo di zolfo, bianco di marna, polverulento e rumoroso, in poco tempo divenuto uno de’ più affollati e affaccendati emporii dell’isola”. [98]
[98] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p.154.
La greca civiltà di Agrigento é evocata quasi sempre in funzione ironica, “come una fragile costruzione della ragione cui si é contrapposta, vittoriosamente sommergendola, l’irrazionale natura”. [99]
[99] Sciascia, Leonardo, Pirandello e la Sicilia, p.48.
I resti dell’antica gloria sepolti nelle erbacce sembrano un cimitero delle illusioni sulla grandezza delle azioni umane.
Girgenti appare “in persona” nel sesto capitolo, afferrata nell’atmosfera delle prossime elezioni:
“A Girgenti, solo i tribunali e i circoli d’Assise davano da fare veramente, aperti come erano tutto l’anno. (…) I molti sfaccendati della città andavano intanto su e giù per la strada maestra, l’unica piana del paese, dal bel nome greco, Via Atenea, ma angusta come le altre e tortuosa. Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle…-nomi: luce di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza dei luoghi”. [100]
[100] Pirandello,Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, pp. 155-156.
L’immagine di Girgenti é disperata, quasi apocalittica:
“Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto. Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l’invito alla preghiera, diffondendo per tutto un’angosciosa oppressione. Non passava giorno che non si vedessero per via in processione funebre le orfanelle grigie del Boccone del povero: squallide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, e un cero in mano”. ([101] Ibidem, p. 157.)
La descrizione é molto suggestiva, l’immagine delle orfanelle rafforza l’effetto emotivo sul lettore. I cittadini sembrano inanimati, oppressi, spenti, camminando su e giù per la strada maestra con “l’automatismo dei dementi”. Da tutte le parti respira carenza, povertà, tristezza e rudezza. Dal tono del narratore si sente l’acuta critica sociale, la cui urgenza viene rafforzata tramite domande retoriche insistenti:
“Chi poteva curarsi, in tale animo, delle elezioni politiche imminenti? E poi, perché? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, ne mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso, chiunque si levasse a gridarle contro”.(Ibidem)
L’immagine di Girgenti assomiglia in molti tratti a Milano manzoniana distrutta dalla peste. I mezzi espressivi che rimandano ad un campo semantico legato all’atmosfera infernale dominano entrambi i quadri La differenza principale nella rappresentazione delle due città sta nel contraccambio delle prospettive tra i due autori: mentre ne I Vecchi e i Giovani viene privilegiato lo sguardo del narratore onnisciente, Manzoni attribuisce il ruolo decisivo all’ottica di Renzo. Tale procedimento dipende dalla diversa funzione diegetica dei singoli passi descrittivi. Pirandello cerca di dare una visione lucidamente disingannata di un microcosmo artificiale, sottolineando con il tono oggettivo la convinzione sull’illusorietà della speranza d’imporre ordine al caos. Nell’ambito della dieresi il quadro di Girgenti assume dinnanzittutto il ruolo espositivo, rafforza la suggestività della grave situazione sociale. L’immagine di Milano rovinata dalla peste é filtrata attraverso la vista del protagonista Renzo. Il narratore abbandona il suo solito tono realistico e assumendo lo sguardo del personaggio fa entrare il lettore in uno spazio avvolto nel fumo e nella nebbia infernali che sembra sorto da un sogno maligno:
“[…] nessun segno di uomini viventi: se non che, da un certo punto del terrapieno, s’alzava una colonna d’un fumo oscuro e denso, che salendo s’allargava e s’avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi nell’aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano”. [102]
[102] Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, p. 472.
La città di Milano viene a proporsi come il luogo fondamentale per l’evoluzione di Renzo. E perciò l’ottica é la sua. Il protagonista deve vivere l’esperienza della città del sospetto, della superstizione, della violenza per poter giungere alla purificazione assoluta. La dimensione storica deve quindi cedere posto a quella personale.
Torniamo adesso a Girgenti. Nonostante l’atmosfera oppressa, la città si mantiene relativamente tranquilla. Però la situazione differisce nelle campagne e nei paesi della provincia, dove “la miseria”, “la selvaggia ignoranza”, “l’asprezza delle fatiche”, “le vaste solitudini brulle e mal guardate” scoppiano in delitti sanguigni, sequestri e vendette. [103]
[103] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p. 154.
Nel corso della vicenda risulta chiaro che il narratore non nutre la minima fiducia nella potenza delle masse abbattute di cambiare lo stato attuale delle cose. E questa prospettiva scettica riguarda sia i cittadini che i contadini. A Girgenti, piuttosto che delle imminenti elezioni, la gente si interessa del duello tra due membri delle frazioni opposte.
L’inerzia politica della provincia tormenta soprattutto l’attivista socialista Nocio Pigna, il quale segue con rammarico il fermento nelle altre parti del territorio siciliano, dove le forze proletarie si mobilizzano formando dei fasci. Infine anche lui riesce ad organizzare il Fascio di Girgenti, grazie agli operai del Porto Empedocle, differenti dai contadini, “imbecilliti dalla miseria” ancora più grave:
“Come le pecore questi poveretti! Pecore però, che sapevan la crudeltà delle mani rapaci che le tassavano e le mungevano; pecore che, se riuscivan ad acquistar coscienza dei loro diritti, a compenetrarsi minimamente di quella famosa virtù della loro forza, sarebbero diventate lupi in un punto.[… ] creta, creta, creta, su cui Dio non aveva soffiato, o la miseria aveva da tempo spento quel soffio; creta indurita, che destava pena e stupore se, guardando, moveva gli occhi e, parlando, le labbra”. ([104] Ibidem, p. 167.)
In realtà, la convinzione politico-sociale di Nocio e della maggior parte dei suoi seguaci rappresenta solo una sostituzione poco soddisfacente del cristianesimo indebolito. Per attirare i contadini ha tralasciato alla sala principale del Fascio l’aria di chiesa, ponendo sulla tavola della presidenza anche un crocefisso. Quell’eclettismo ideologico-religioso svela al lettore un aspetto della sicilianità: l’inclinazione al irreale, al mito, alle radici. Attraverso gli occhi di Nocio possiamo seguire la descrizione del quartiere più povero della città: “Guardava lassù, gonfio d’orgoglio e con aria di protezione, quelle vecchie casupole del quartiere di San Michele, tane di miseria; quelle anguste viuzze storte, sudice, affossate, piene tutte di quel tanfo che suol lasciare la spazzatura marcita […]”. ([105] Ibidem, p. 164.)
La visione del socialismo siciliano é avvolta di un intrascurabile scetticismo, derivante dal conoscimento doloroso dello stato attuale: l’analfabetismo, la miseria, l’ignoranza governano in tutta l’isola.
La seconda visione di Girgenti e delle regioni [106] siciliane governate dall’aggressione delle masse analfabete presenta molti paralleli con l’immagine di Milano dominata dalla folla affamata.
[106] Abbiamo deciso di ricorrere a una semplificazione inserendo nell’ambito della “sfera urbana” anche le scene delle ribellioni campestri, in quanto i loro centri organizzativi trovano luogo prevalentemente nelle città. Conseguentemente, le loro rappresentazioni letterarie condividono piuttosto il campo semantico delle immagini metropolitane che di quelle paesaggistiche.
La città come un luogo dell’irrazionalità e della contraddizione si presenta alla vista di Renzo con la nevicata di farina e con i pani al posto delle pietre. L’interesse dell’autore si concentra scrupolosamente al fenomeno della folla, facendone in alcuni capitoli vera e propria protagonista della vicenda. Il narratore manzoniano si dedica ad un vasto sondaggio psicologico del fenomeno della massa, non nascondendo il proprio disprezzo e spavento. Le sue scelte linguistiche esprimono con necessaria espressività i meccanismi di base della psicosi collettiva. La folla é uguale a un “branco” [107], paragonata a “gocciole sparse sullo stesso pendio” [108], alla “coda di una serpe”. [109]
[107] [108] Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, p. 246. [109] Ibidem p. 290.
L’organizzazione del periodo rispecchia la frenesia della situazione:
“Metton mano ai sacchi, li strasciano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe […], chi, gridando: ‘aspetta, aspetta’, si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio […] uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverio che per tutto si posa, per tutto si solleva e tutto vela e annebbia”. ([110] Ibidem p.264.)
Il narratore pirandelliano, a rappresentare i massacri collettivi, non si “butta” mai tra la folla infuriosita, non dedica un determinato spazio del racconto a un profondo sondaggio analitico del fenomeno. Le violenti ribellioni sono sempre osservate da distanza spaziotemporale, esposte come testimonianze dei singoli personaggi. Manzoni combina la tecnica di osservazione scientifica con quella di penetrazione diretta nella situazione concreta, trasportando sulle pagine la dinamica distruttiva del fenomeno. Pirandello fa disperdere l’immagine complessa degli effetti tragici e delle cause irrisolvibili della strage in vari luoghi della narrazione. Il problema ritrattato non assume quindi il ruolo di primo piano nell’ambito di un compatto segmento dell’intreccio, ma tale fatto non lo porta a perdere l’acutezza e l’intensità rappresentativa.
L’asse narrativa de I Vecchi e i Giovani si scosta dal territorio siciliano nei quattro capitoli iniziali della seconda parte del romanzo, in cui la vicenda si sposta alla capitale. Il narratore preannuncia però i contorni del quadro romano nei capitoli antecedenti, servendosi delle angolature soggettive dei diversi personaggi. E così si estende davanti a noi Roma come simbolo dell’unita italiana e dell’ideale compiuto (agli occhi di Mauro), Roma come luogo del fallimento morale di Roberto Auriti, Roma come un passo incontro all’indipendenza del giovane Antonio del Re, Roma come possibilità dell’ascesa politica ed economica di Salvo e di Capolino.
All’insieme delle aspettative piuttosto positive, anche se segnate di nostalgia e rimpianto, si oppone la cupa visione della donna Caterina Laurentano che suggerisce profeticamente a Mauro in partenza: “[…] chiudi gli occhi, turati bene gli orecchi e ritornatene subito subito in campagna: segui il consiglio mio!” [111]
[111] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori,Verona, 1931, p. 232.
Il procedimento con cui il narratore anticipa la raffigurazione dell’ambiente urbano e analogo nell’opera manzoniana. La presenza della città ne I Promessi Sposi si rivela per la prima volta in una forma non ricavata dall’esperienza degli eventi narrati, ma piuttosto come il preannuncio profetico a conclusione dell’”Addio monti” :
“Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose: le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifici ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messi gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a suoi monti”. [112]
[112] Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi, Garzanti, Milano, XXIV edizione, 2000, p. 117.
Il giudizio della condizione deforme della metropoli influenza le aspettative del lettore prima che essa si fa lo sfondo scenografico della vicenda. Secondo il parere del narratore manzoniano, in città non si può andare che spinti da una forza estranea: che può essere d’origine economica, oppure, come nel caso di Renzo, provocata dall’ingiustizia sociale. Ne I Vecchi e i Giovani il campo di motivazioni evidentemente si amplia: non solo le condizioni oggettive danno gli stimoli per il trasferimento in città. Pure le cause soggettive entrano in gioco e risvegliano la tentazione di cercare fortuna nel grande mondo. Basta pensare al giovane Antonio del Re, per cui la partenza per Roma rappresenta non solo una fuga davanti al cupo negativismo della nonna, ma soprattutto davanti al proprio amore distruttivo per l’accesa socialista Celsina Pigna.
Appena Roma ne I Vecchi e i Giovani diventa vero e proprio teatro d’azione, la sua immagine acquista dei tratti più concreti, da noi accennati in precedenza. É possibile individuare una certa simmetria tra i capitoli iniziali delle due parti del romanzo. Questi condividono il motivo chiave della vicenda che é quello di fango. Il fango fisico della descrizione paesaggistica si é trasformato nel fango politico in cui é sommersa la capitale.
La prima scena romana si svolge nell’ufficio del ministro Francesco D’Atri, dove il segretario ministeriale cavaliere Cao sta in attesa del superiore. Il monologo interiore del segretario ci offre le prime informazioni sia sulla situazione politica, sia sull’atteggiamento del ministro. La visione di Roma é completamente opposta ai sogni dei numerosi personaggi che ci vanno con varie speranze:
“Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell’aria densa e fumicosa, mentre come scialbe lune all’umida tetra luce crepuscolare s’accendevano ronzando le lampade elettriche, e nell’agitazione degli ombrelli, tra l’incessante spruzzolio d’una acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt’intorno […]”. [113]
[113] Pirandello, Luigi, I Vecchi e i Giovani, Mondadori, Verona, 1931, p.262.
Tale fragore d’immagini ripugnanti esprime le dimensioni enormi della delusione suscitata dal fallimento degli ideali. Solo a questo punto di lettura si rivela il vero valore metaforico del fango che piove all’inizio del romanzo. Il fango simboleggia la decadenza dell’ancora giovane regno d’Italia, la corruzione politica sboccata nello scandalo della Banca romana. Roma degradata nell’affarismo e nell’infamia incorona la tragedia dell’ideale risorgimentale fallito.
La capitale apparsa inizialmente soltanto nel flusso di pensieri del cavaliere Cao, in successione ridotta alle tensioni dello spazio privato del ministro D’Atri, rivela i suoi esterni con l’arrivo di Mauro Mortara. La percezione di Roma negli occhi del vecchio patriota coincide con la sua cieca adesione agli ideali risorgimentali:
“Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. […] non voleva saper nulla, non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava”([114] Ibidem, p. 288)
Mauro, evidentemente, non é uomo di pensieri, ma di grandi emozioni. Sommerso nel proprio entusiasmo, non si rende conto delle risate beffe dei nuovi romani, la sua gioia ingenua gli impedisce il minimo sospetto del disprezzo divertito, dello spettacolo grottesco che i passanti ammirano a vedere “vecchiotto nodoso e ferrigno, con lo zaino sulle spalle, quattro medaglie sul petto, il barbone lanoso abbatuffolato”. ([115] Ibidem, p. 287) Il narratore fa però amaro confronto della realtà con le percezioni di Mauro, ponendo a nudo tutta la tristezza della situazione. Ma nemmeno il sogno del vecchio siciliano rimane ininterrotto. Ad un certo punto prende coscienza del fango attraverso il quale passava ignaro, si strappa le medaglie e se le pone sotto i piedi. Poi li riprende, perché gli sono sacre.
L’immagine finale della capitale si allontana inesorabilmente dalle speranze che tutti volevano trovare all’inizio. Resta la Roma delle truffe parlamentari, degli scandali bancari, la Roma definitivamente sommersa dal fango.
Mentre Mauro nel momento di pronunciare il suo “Addio, Sicilia” rimanda direttamente al congedo di Lucia, Mauro entrato a Roma di malessere socio-politico fa subito pensare all’arrivo di Renzo a Milano. Entrambi i protagonisti evidentemente non appartengono all’ambiente urbano, si vede subito che sono estranei. Vengono dal mondo “delle cose”, non “delle parole” di cui la città fa parte. Pirandello condivide l’opinione manzoniana della città come ”d’un luogo dove la norma, la natura, il buon senso, il bene in genere risultano capovolti nel loro contrario”. [116]
[116] Squarotti, Giorgio Barberi, Il Romanzo contro la Storia, Pubblicazioni della Università Cattolica, Milano, 1984.
Squarotti afferma [117] che attraverso Renzo passa il giudizio della condizione deforme della città, la quale, per il Manzoni é fondamentalmente babelica: e la città della confusione delle lingue, in cui la verità delle cose e delle parole non hanno spazio, dove invece l’equivocità della parola riesce a ottenere risultati che l’ingenuità e la sincerità non raggiungono. [118]
[117] [118] Ibidem
Lo stesso vale anche per Roma de I Vecchi e i Giovani. I monologhi interiori, i discorsi indiretti liberi, i passi contemplativi di fronte alla faccia dei paesaggi siciliani cedono posto ai vasti dialoghi delle accese polemiche politiche. La città e lo spazio dell’ambiguità e della confusione, si regge sul sistema di equivocità e di menzogna. Da un lato c’e la Milano della doppiezza linguistica di Ferrer e dell’ipocrisia degli osti, [119] dall’altro la Roma de I Vecchi e i Giovani sommersa nel fango della corruzione e dell’affarismo.
[119] Il governatore spagnolo Ferrer approfitta del suo bilinguismo per ingannare la gente. L’ipocrisia dell’oste che denuncia Renzo a Milano é rivelata tramite monologhi interiori.
Per Renzo l’esperienza della città é quella di un mondo dei valori e del linguaggio capovolti, necessaria per la sua maturazione. Tale trasformazione lo porterà alla fine a nutrire diverse opinioni e nuovi propositi. Per Mauro, invece, l’ultima visita di Roma rappresenta un’avventura traumatica che si trasforma in delusione totale.
Nell’osservazione dell’agire di Renzo nei capitoli milanesi c’e al tempo stesso ironia e serietà: il narratore si serve del tono comico quando salta fuori l’ingenuità del protagonista ma dall’altro lato quell’ingenuità costituisce un valore nei confronti della furbizia e dell’ingiustizia. L’elemento comico attenua la drammaticità dell’azione. Invece la situazione di Mauro é molto più drammatica, anzi tragica, siccome la sua esperienza e priva di qualsiasi esito positivo. Il narratore espone il suo arrivo e il suo ricevimento nella capitale immediatamente attraverso l’ottica umorista: la gente non comprende le lacrime di commozione del bizzarro vecchietto, lo ritiene ridicolo e matto (avverte il contrario, per dirla con termini pirandelliani), ma il lettore, conoscendo il concetto e il carattere del personaggio(sentendo il contrario) si rende conto dell’amarezza della situazione.
Le immagini della Roma di Mauro e della Milano di Renzo rappresentano quindi da un lato l’uomo, nella sua realtà morale e psicologica, dall’altro le maschere pubbliche che viene ad assumere o che gli vengono imposte. La situazione narrativa é analogica, ma la sua soluzione molto differente.
Sintesi
Osservando la tecnica narrativa sulle rappresentazioni dell’ambiente urbano abbiamo individuato molti paralleli tra i due romanzi, sia sul piano dei mezzi espressivi sia su quello dei valori. Entrambi gli autori utilizzano le scene cittadine soprattutto come sfondo per gli eventi storico-politici. Il topos della città si presenta nei due romanzi trattati come un luogo essenzialmente negativo, opposto all’ingenuità della campagna. Ne I Vecchi e i Giovani c’e in più da individuare il contrasto Girgenti-Roma che rimanda per metonimia all’antitesi Sicilia-Italia.
La prima apparizione di Girgenti assomiglia in molti momenti a Milano manzoniana distrutta dalla peste: assenza di vita, declino, miseria si vedono e sentono da tutte le parti. I cittadini sembrano inanimati, oppressi, spenti, camminando su e giù per la strade respirando da tutte le parti carenza, povertà, tristezza e rudezza. Ne I Vecchi e i Giovani e il narratore a prendere parola, accentuando con il tono urgente e forti l’acuta critica sociale. Pure Manzoni mira a ritrattare un quadro della concreta crisi storica, ma lo fa attraverso l’ottica di Renzo. Tale procedimento sottolinea la necessita dell’esperienza urbana per la formazione del protagonista.
La seconda visione di Girgenti e delle regioni siciliane governate dall’aggressione delle masse analfabete presenta molti paralleli con l’immagine di Milano dominata dalla folla affamata. La città (la regione) ora si presenta come un luogo dell’irrazionalità e del fanatismo. Nel corso della vicenda risulta chiaro che il narratore pirandelliano non nutre la minima fiducia nella potenza delle masse abbattute di cambiare lo stato attuale delle cose. E questa prospettiva scettica riguarda sia i cittàdini che i contadini. Piuttosto che studiare la psicosi collettiva come un fenomeno isolato, Pirandello cerca le cause della catastrofe sociale nella mentalità dei siciliani, riportando i ragionamenti delle loro guide socialiste. Tale procedimento lo allontana dalla strategia manzoniana basata sulla vera e propria indagine e analisi della psicologia del “branco”.
Prima del trasloco del teatro d’azione sullo sfondo dell’ambiente romano, ci sono diversi passi narrativi che presentano la capitale come un’incarnazione dei sogni illusori dei diversi personaggi. Il procedimento con cui il narratore anticipa la raffigurazione dell’ambiente urbano è analogo nell’opera manzoniana. La presenza della città ne I Promessi Sposi si rivela per la prima volta in una forma non ricavata dall’esperienza degli eventi narrati, ma piuttosto come il preannuncio profetico a conclusione dell’”Addio monti”. Secondo Manzoni solo le motivazioni oggettive possono spingere i contadini a trasferirsi per la città. Ne I Vecchi e i Giovani il narratore allarga l’insieme degli stimoli prendendo in considerazione anche il piano soggettivo.
Appena Roma diventa il teatro d’azione, salta fuori il valore metaforico del fango rappresentato fisicamente all’apertura del romanzo. Il fango fisico della descrizione paesaggistica si è trasformato nel fango politico in cui é sommersa la capitale, la melma simboleggia decadenza dell’ancora giovane regno d’Italia, la corruzione politica sboccata nello scandalo della Banca romana. Roma degradata nell’affarismo e nell’infamia incorona la tragedia dell’ideale risorgimentale fallito. La capitale apparsa inizialmente soltanto nel flusso di pensieri del cavaliere Cao, in successione ridotta alle tensioni dello spazio privato del ministro D’Atri, rivela i suoi esterni con l’arrivo di Mauro Mortara. La capitale, che all’inizio per il vecchio patriota simboleggia gli ideali della lotta risorgimentale, ad un certo punto perde il velo delle illusioni e mostra il fango in cui é sommersa. L’immagine finale di Roma si allontana inesorabilmente dalle speranze che tutti volevano trovare all’inizio.
La rappresentazione di Mauro appena arrivato a Roma trova molti punti analoghi con l’entrata di Renzo a Milano. I due paesani ingenui e semplici devono affrontare le maschere che gli vengono imposte dai cittadini. Camminano per le strade osservati con diffidenza e derisione dei cittadini. L’esperienza del mondo ambiguo porta infine Renzo alla maturazione voluta (anche se riscattata da tante peripezie spiacevoli), invece Mauro è costretto a seppellire le sue più grandi illusioni.
Conclusione
Nelle pagine precedenti abbiamo tentato di costruire un “ponte” tra due testi importantissimi della tradizione letteraria italiana. Le opere esaminate fanno parte del genere “romanzo storico” e ambedue svolgono una funzione rilevante nel contesto del suo sviluppo: I Promessi Sposi di Manzoni rappresentano la sua vera e propria affermazione in Italia, mentre I Vecchi e i Giovani di Pirandello confermano pienamente il declino del paradigma storicistico tradizionale e nello stesso tempo predeterminano le nuove possibilità della sua evoluzione. Abbiamo cercato di individuare nel romanzo pirandelliano alcuni aspetti di affinità e di distacco dal modello canonico di Manzoni, analizzando un campo strettamente definito: la tecnica narrativa utilizzata nelle rappresentazioni dello spazio romanzesco. Il nostro obiettivo non era soltanto creare una descrizione comparativa delle strategie narrative adoperate dagli autori, ma soprattutto quello di avvicinarci alla loro visione e al loro rapporto con la realtà.
Siccome I Vecchi e i Giovani stanno al centro del nostro interesse, abbiamo dedicato varie pagine alla presentazione teoretica delle posizioni estetico-filosofiche di Pirandello, distaccando i punti in cui commenta il capolavoro manzoniano. Successivamente abbiamo proceduto alla parte pratico-analitica della tesi. Seguendo la suddivisione dello spazio letterario in tre campi semantici (sfera naturale, privata e sociale) abbiamo osservato i procedimenti tecnici con cui i due autori creano l’universo romanzesco, quali funzioni diegetiche attribuiscono alle figure spaziali e qual é la portata extra-testuale e assiologica delle loro rappresentazioni.
Tutti e due gli scrittori concedono voce al narratore extradiegetico, il quale tiene i fili del racconto ne I Promessi Sposi, ma ne I Vecchi e i Giovani cede il primato ai singoli personaggi, causando una frantumazione quasi totale della focalizzazione.
Per quanto riguarda le descrizioni paesaggistiche, possiamo concludere che Pirandello utilizza i più importanti procedimenti della strategia manzoniana: il tono realistico, il metodo dell’avvicinamento graduale, sintassi complessa. Una delle differenze principali riguarda il grado di coinvolgimento dei piani sensoriali. Manzoni privilegia il piano visivo, costruisce i paesaggi come delle scene teatrali, resta fedele al “vero”. Siccome Pirandello favorisce l’ottica dei personaggi, non esita a ricorrere anche ad altri sensi per ottenere maggior espressività e forza delle immagini. Per Manzoni la natura é semplicemente un oggetto da osservare e da esplorare scientificamente, una creazione che celebra e rispecchia la grandezza divina. Pirandello invece ritiene impossibile offrire un’immagine complessiva e sicura del mondo. Il suo universo é sprovvisto della protezione sovrastante della Provvidenza é guidato da un flusso di vita universale, perennemente pulsante e inafferrabile.
Nell’ambito della sfera privata abbiamo individuato come principale il topos della casa. Mentre ne I Promessi Sposi non possiamo incontrare la centralità di un concreto spazio chiuso (la sfera del privato generalmente raffigura soltanto un sottoinsieme di un campo semantico più ampio), Pirandello attribuisce al privato delle funzioni molto significative. Le caratteristiche delle abitazioni generalmente corrispondono ai tratti e agli interessi dei loro padroni. Manzoni rimane sempre fedele al tono realistico, percepisce e rappresenta le figure spaziali come degli oggetti inanimi. Pirandello supera questa concezione, attribuendo in alcuni passi sentimenti e vita propri alla villa di Valsania, ciò é dovuto allo sfondo autobiografico del suo romanzo. Ne I Vecchi e i Giovani la nozione del privato é legato anche all’opinione sull’istituto famigliare. La storia della famiglia Laurentano svela una crisi profonda dei rapporti interpersonali. L’idealismo provvidenzialista manzoniano é sparito dall’ambiente famigliare, quello che resta é un pragmatismo freddo e spietato, l’immagine della crisi dell’intera società sommersa nel fango.
Esaminando la strategia narrativa sulle rappresentazioni delle scene cittadine abbiamo trovato molti punti in comune, sia sul piano tecnico sia sul piano assiologico. L’ambiente urbano serve da sfondo ideale per raffigurare una concreta crisi storica e politica. Il topos della città si presenta nei due romanzi come un luogo essenzialmente negativo, in opposizione all’ingenuità della campagna. In entrambe le opere possiamo incontrare le immagini della urbis governata dalla povertà, rudezza, fanatismo delle masse. Mentre l’esperienza della Milano infernale ne I Promessi Sposi é indispensabile per la formazione morale e personale di Renzo, l’immagine di Roma corrotta, sommersa nel fango e piena di maschere simboleggia soltanto gli ideali falliti e le illusioni perdute.
Infine, possiamo ripetere che in tutti e due i romanzi l’organizzazione dell’universo diegetico corrisponde alla visione della realtà dei loro autori. L’universo di Manzoni e guidato é gestito dalla Divina Provvidenza. Anche se l’uomo non vede oltre ai propri progetti e orizzonti, non riesce a capire il senso e la portata di molti avvenimenti, la coscienza dell’esistenza di un’istanza più alta aiuta a tranquillizzare i suoi tormenti interni. Nel mondo manzoniano il bene é chiaramente distinguibile dal male, la piccolezza umana e compensata dall’onnipotenza divina. La storia corre linearmente e questo fatto genera una speranza nel progresso e nel possibile miglioramento.
Per Pirandello non esiste un’istanza sovrastante che organizzi tutto il correre dell’universo e che garantisca un telos degli avvenimenti. Il caos domina il mondo e come se governasse analogamente anche le pagine del suo romanzo. L’universo e un organismo incomprensibile e spietato, senza alcun progresso. Pirandello nega le false consolazioni, dichiarando l’irrazionalità dell’esistenza, trovando l’unica sicurezza nell’eternità dell’arte.
Martina Poláková
Bibliografia
|
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com