La Sicilianità Mediterranea ne «I Vecchi e i Giovani»

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Di Karl Chircop

Una caratteristica molto postcoloniale della mediterraneità siciliana di Pirandello – uno scrittore che si era autoesiliato dalla Sicilia – è il tentativo di ristabilire una forma di intimità con la propria terra d’origine che solamente la letteratura può concedergli.

Indice Tematiche

i vecchi e i giovani. Saggio

La Sicilianità Mediterranea ne «I Vecchi e i Giovani»

Da L-Università ta’ Malta (UM)

La sicilianità della narrativa di Luigi Pirandello ebbe uno strettissimo rapporto con la civiltà del Mediterraneo, dalla quale colse temi, contesti, e personaggi. Prendendo però atto della costanza e della compiutezza con cui Pirandello ritorna ad affrontare la sua sicilianità nella sua narrativa, oserei intravedere in essa un progetto tematico-culturale di ampio respiro. Questo saggio infatti cercherà di rilevare come nel romanzo I Vecchi e i Giovani la rappresentazione della sicilianità di Pirandello spesso si universalizza, elevandosi così ad una metafora – se non ‘del mondo’ come la intendeva Sciascia in una celebre intervista – almeno dei paesi che si bagnano nel bacino del Mediterraneo. La sicilianità pirandelliana è una forma di condizione storico-culturale mediterranea che viene elevata dallo stesso autore ad un’insularità cosmica universale, ed essendo universale, diventa una sorta di condizione siciliana assimilabile ad altri contesti mediterranei ben più ampi.

Benché Luigi Pirandello non abbia mai affrontato direttamente il concetto di una mediterraneità europea, la sicilianità della sua narrativa ebbe uno strettissimo rapporto con la civiltà del Mediterraneo, dalla quale colse temi, contesti, e personaggi. Indubbiamente, la rappresentazione più eloquente della sicilianità di Pirandello si trova nel romanzo I Vecchi e i Giovani e nelle Novelle per un Anno. Purtroppo gran parte della critica pirandelliana degli ultimi cinquanta anni l’ha spesso relegata ad una mera funzione cosmetica nella narrativa di un Pirandello giovane ancora attaccato al Verismo  di Capuana e di Verga. Prendendo però atto della costanza e della compiutezza con cui Pirandello ritorna ad affrontare la sua sicilianità nella sua narrativa, oserei invece intravedere in essa un progetto tematico-culturale di ben più ampio respiro.

Questo saggio infatti cercherà di rilevare come la rappresentazione della sicilianità di Pirandello spesso si universalizza, elevandosi così ad una metafora – se non ‘del mondo’ come la intendeva Sciascia – almeno dei paesi che si bagnano nel bacino del Mediterraneo. Il lettore attento capisce che la sicilianità di Pirandello è una forma di condizione storico-culturale mediterranea che viene elevata dallo stesso autore ad un’insularità cosmica universale, ed essendo universale, diventa una sorta di condizione siciliana assimilabile ad altri contesti mediterranei ben più ampi. Infatti, l’originalità della rappresentazione della sicilianità mediterranea di Pirandello consiste soprattutto nella sua capacità di universalizzare la rilevanza di una condizione particolare e di tradurla in una parabola dell’intera condizione umana. Pirandello era uno scrittore italiano che conosceva bene la realtà della Sicilia, e che continuava ad esser convinto – proprio come sarebbe poi accaduto con Sciascia – che la Sicilia offriva la rappresentazione di svariati problemi e contraddizioni che non erano solo italiani ma anche europei, al punto da poter approssimarsi ad una metafora della mediterraneità europea.

La sicilianità mediterranea di Pirandello è spesso considerata come un’identità culturale caratterizzata da un forte senso di evasione e da un realismo ibseniano inteso a smascherare le ipocrisie ideologiche, religiose, e sociali, proprio come era, per esempio, l’Irishness più eurocentrico di James Joyce. Se la sicilianità mediterranea di Pirandello rappresentò un rapporto pseudocoloniale della Sicilia con il resto dell’Italia unita, il lettore odierno deve soffermarsi a riflettere sul suo valore universale, in fattispecie quando si notano le affinità con altri contesti storico-culturali. È evidente in questo caso, che sia la Sicilia di Pirandello sia l’Irlanda di Joyce percepirono un neocolonialismo malizioso che si nascose dietro alle grandi promesse dell’unità e dell’assistenzialismo. La sicilianità mediterranea di Pirandello può dunque perfettamente elevarsi ad una metafora della mediterraneità europea applicabile ad altre culture europee durante il periodo del Modernismo.

Nel romanzo I Vecchi e i Giovani (1913) Pirandello ha inequivocabilmente scelto di rappresentare la stasi della storia siciliana, la quale viene espressa nel risentimento verso il governo postrisorgimentale italiano, dedito solamente a sviluppare gli interessi del Settentrione. Risulta infatti dai testi che la delusione delle speranze postrisorgimentali e la violenta repressione dei Fasci Siciliani assillavano Pirandello. Bisogna considerare anche la correlazione di questi temi con quell’asfissia morale e sociale provocata da una Chiesa arcaica e anacronistica davanti alle prorompenti realtà morali dei siciliani. Si denunciano così le istituzioni religiose in Sicilia, compromesse da o indifferenti all’attività politica, e che assecondano le ipocrisie della borghesia e provocano l’inerzia delle classi operaie siciliane. Queste classi economicamente e socialmente inferiori, caratterizzate da molti risentimenti, occupano lo spazio urbano e i paesaggi di Girgenti. Pirandello rappresenta personaggi immersi in paesaggi lugubri caratterizzati dallo squallore, dalla povertà e dalla miseria spirituale. La soluzione finale per il personaggio artista che desidera l’autonomia totale nella sua arte non può che essere una risposta affermativa alla chiamata dell’esilio dalla propria cultura insulare.

Una caratteristica molto postcoloniale della mediterraneità siciliana di Pirandello – uno scrittore che si era autoesiliato dalla Sicilia – è il tentativo di ristabilire una forma di intimità con la propria terra d’origine che solamente la letteratura può concedergli. Per il personaggio, la sicilianità mediterranea diventa una realtà che ‘non conclude’ (secondo la definizione di Don Cosmo Laurentano nei Vecchi e i Giovani) e dopo ‘aver capito il giuoco’ (TR2:509–10) [1]  l’esiliato ne è perennemente turbato, come nel caso delle eredità mitizzate della Magna Grecia.

[1]  Nel corso di questo saggio, tutti i riferimenti alle opere di Pirandello si faranno con le seguenti due abbreviazioni: i) TR2 per il romanzo I Vecchi e i Giovani (Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia, II, Milano, 1973–2005); ii) SI per Saggi e Interventi (Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura di Ferdinando Taviani, Milano, 2006). La cifra dopo i due punti indica la pagina citata.

Il concetto di Magna Grecia trascende il passaggio del tempo e Pirandello ne afferma spesso la presenza fatidica nella sua poetica. In un celebre scritto autobiografico, Pirandello scrive ‘Io dunque son figlio del Caos’ (SI:55), dove enfatizza il ruolo mitico del proprio suolo natio. Infatti la casa della famiglia era ubicata in una contrada chiamata Kaos, un nome che risale all’epoca della colonia greca. Il fatto che Pirandello scrive di essere nato nel caos è un elemento chiave nella creazione della sua mitologia personale, ed è un segno allegorico del suo universo creativo, caratterizzato dalla credenza in un mondo incomprensibile e incontrollabile dove il caos e il caso regnano incontrastati. Il personaggio più rappresentativo di questo retaggio, Don Ippolito Laurentano del romanzo I Vecchi e i Giovani, si porta dietro il peso del mondo antico attraverso l’effetto che esercita su di lui la città antica di Akragas (la Girgenti di Pirandello). Però l’influenza della Magna Grecia non è solo un’idea negativa nell’opera di Pirandello, come nota Antonio Gramsci – forse per motivi ideologici – quando scrive della rappresentazione in dialetto siciliano di Liolà (1916), lodando il modo in cui Pirandello ‘si riallacci con l’antica tradizione popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco’. [2]

[2] Antonio Gramsci, Pirandello, Ibsen e il teatro (Roma, 1992),

La rappresentazione dell’alienazione politica 

Negli ultimi decenni dell’Ottocento lo status politico ufficiale della Sicilia di Pirandello avrebbe dovuto essere tutt’altro che desolante. La Sicilia si era unita al Regno d’Italia dopo il processo risorgimentale, ma nonostante il clamore nazionalistico e patriottico che caratterizzava quell’epoca, i siciliani si sentivano abbandonati da un governo democratico postunitario. Pirandello crebbe in una cellula familiare dove la fede politica paterna veniva tramandata come memoria nostalgica di un sentimento politico nazionale irrecuperabile. Stefano Pirandello, il padre di Luigi, partecipò come soldato garibaldino alla battaglia di Aspromonte e nutriva vigorosamente valori nazionalistici. In questo contesto politico, è evidente l’egemonia della Chiesa cattolica locale che controllava moralmente la società e divenne responsabile del tradimento politico dei valori patriottici indipendentisti.

Il romanzo I Vecchi e i Giovani ci permette di percepire Pirandello nel ruolo dell’intellettuale disincantato dalla propria patria e dalla mediocrità politica postrisorgimentale. Pirandello presenta una Sicilia di fine Ottocento che è distaccata dal resto della penisola e contrassegnata da un mondo arcaico pieno di anacronismi politici e sociali, e da una ‘selvaggia ignoranza’, tipicamente feudale, diffusa per tutta l’isola: ‘reati di sangue, aperti o per mandato, … erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza’.

Nel romanzo un complesso mosaico di personaggi assiste al crollo totale dei valori patriottici e morali del Risorgimento italiano (‘le putride carcasse del vecchio patriottismo’ ), al tradimento del governo verso la Sicilia tramite atti di sfruttamento e infine alla frode e alla repressione violenta delle classi lavoratrici e contadine, che porta il popolo siciliano all’inestinguibile sfiducia verso le istituzioni governative: ‘era vivo e profondo il malcontento contro il governo italiano, per l’incuria sprezzante verso l’isola fin dal 1860’.

In Italia, il Risorgimento aveva paradossalmente alimentato l’ideale della capacità dell’Uomo di modificare la storia ma non era riuscito a suscitare iniziative politiche che alleviassero la sofferenza dei siciliani. I Vecchi e i Giovani è l’unico romanzo in cui Pirandello affronta tematiche storico-politiche, sposando una posizione ideologica fortemente parziale, antidemocratica e antistorica, frutto di una profonda delusione nel processo degli eventi. Quando il narratore racconta il passato di Donna Caterina Laurentano si ha una descrizione molto cupa della realtà politica italiana dopo il risorgimento. Il primo governo storico della Destra parlamentare è descritto con un’accumulazione di immagini negative: ‘liti e duelli e scene selvagge’, ‘i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo’, ‘falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi’ (TR2:85). La descrizione dell’avvento della Sinistra al potere non è migliore della precedente; si usano i termini ‘usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico’, ‘prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali’, ‘clientele spudorate e brogli elettorali’, ‘spese pazze, cortigianerie degradanti’, ‘l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori’ (TR2:85–6).

La Sicilia non diventa soltanto una regione abbandonata alla sua sorte ma anche roccaforte del brigantaggio e delle prime bande mafiose che operarono come una forza sociopolitica protetta dall’omertà del popolo (‘Accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia’; TR2:163). L’isola di Pirandello è colma della miseria dei contadini, dei solfatari e dei carusi imbestialiti dalle spaventevoli condizioni di lavoro e dallo sfruttamento (‘facce terrigne e arsicce’, ‘occhi lupigni’; TR2:162), i quali spesso si sfogano in rivolte e insurrezioni violente (‘stupidità armata di diffidenza e d’astuzie animalesche’; TR2:465). Pirandello si sente tradito dalla mediocrità e dalla corruzione del paese che era rinato nel sogno dei grandi ideali della solidarietà e del rinnovamento. Con I Vecchi e i Giovani Pirandello ritorna in Sicilia e a Roma nel 1893 per raccontare il fallimento totale di due generazioni, una vecchia e l’altra giovane, di cambiare la storia siciliana.

La negatività della storia è rappresentata in questo romanzo da vari elementi: la nascente borghesia spregiudicata arricchitasi velocemente dopo l’Unità, la formazione dei Fasci Siciliani, la dichiarazione dello stato d’assedio dopo la rivolta dei Fasci e la violenta repressione del governo. Tutti questi eventi sono vissuti da due famiglie ragguardevoli, quella vecchia e aristocratica dei Laurentano e quella borghese dei Salvo. La presenza di Roma ritrae la corruzione governativa denunciando lo scandalo della Banca Romana che causa la caduta del governo di Giolitti: ‘Lo scandalo bancario era come una voragine di fuoco aperta davanti al Parlamento nazionale’ (TR2:317). [3]

[3] La questione riguardava dei crediti sproporzionati che venivano concessi ad una folle politica edilizia che in vent’anni portò al raddoppio gli abitanti di Enzo Lauretta spiega che la circolazione di carta moneta della Banca Nazionale da 462 milioni di lire nel 1883 salì a 611 milioni di lire nel 1886, mentre scendeva paurosamente il livello delle riserve auree. Cfr. Enzo Lauretta, Luigi Pirandello: storia di un personaggio ‘fuori chiave’ (Milano, 1980), 44.

Il romanzo rivela sia i tradimenti pubblici e privati degli ideali del Risorgimento sia l’inettitudine del nascente socialismo del Meridione. I ‘vecchi’ del titolo del romanzo sono la generazione che ha voluto dare vita alla nuova nazione nel 1860, gli stessi però che Pirandello giudica come responsabili almeno in parte della decadenza degli ideali patriottici e dei mali che affliggono la società contemporanea. La vecchia generazione del romanzo consiste di ministri e altri membri del parlamento, imprenditori, proprietari del latifondo e nobili che testimoniano le grandi promesse del Risorgimento. La generazione dei ‘giovani’ è impantanata nelle rigide strutture sociali e si sforza inutilmente ad adattarsi ai propri ruoli in una società che sta cambiando, come per esempio Lando Laurentano, che è incapace di mettere in atto i suoi ideali socialisti nell’Italia postrisorgimentale che non ha mantenuto le sue promesse. Il modo in cui Pirandello osserva questi fallimenti dopo le illusioni risorgimentali suggerisce una lettura sociologica dei fatti, però i personaggi si percepiscono isolati dalla storia e dalla società, e le speranze fallite diventano una perdita personale. Quasi tutti i personaggi cedono il loro destino alle forze storiche più grandi di loro, in un mondo alogico dominato dal caos e dall’alienazione. Gli eventi accadono senza una causalità logica, come la morte assurda del personaggio Mauro Mortara, il patriota e veterano del Risorgimento, decorato con tante medaglie, che nell’aiutare i soldati mandati a mantenere la pace viene falciato da loro stessi nella confusione in piazza: ‘Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro medaglie. I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti. Chi avevano ucciso?’

La rappresentazione dell’alienazione religiosa 

La cultura in cui si plasma la sicilianità di Pirandello testimonia una presenza storica molto forte della Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica siciliana viene rappresentata da Pirandello come colpevole di poco interesse e di omissioni morali nella vita sociale e politica della Sicilia, una realtà espressa bene nel rammarico di Don Ippolito Laurentano sulla poca religiosità del popolo siciliano (‘le chiese… eh, quelle non erano edifizii che la nuova gente potesse aver piacere d’abbellire’, TR2:114). Nei Vecchi e i Giovani, la città di Girgenti assume gli stessi connotati gravosi di morte e decadenza (‘era la città dei preti e delle campane a morto’; TR2:164) appartenenti al mondo ecclesiastico che domina acusticamente con le sue campane tutto il paesaggio siciliano (‘le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l’invito alla preghiera, diffondendo per tutto un’angosciosa oppressione’; TR2:164).

Pirandello include la descrizione di una processione funebre a Girgenti in cui le orfanelle dall’aspetto spettrale (‘grige’, ‘squallide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, e un cero in mano’; TR2:164) accompagnano un feretro. Un’altra immagine cupa della città viene data dal narratore: ‘Paese morto. Tanto vero – dicevano i maligni – che vi regnavano i corvi, cioè i preti’ (TR2:12). Inoltre, il narratore rivela come la sala capitolare della curia di Girgenti riflette allegoricamente lo stato del clero e della città: ‘dal tetro soffitto affrescato e coperto di polvere, dalle alte pareti dall’intonaco ingiallito, ingombre di vecchi ritratti di prelati, coperti anch’essi di polvere e di muffa, appesi qua e là senz’ordine sopra armarii e scansíe stinte e tarlate’ (TR2:459). La Chiesa cattolica siciliana nei Vecchi e i Giovani rimane indifferente ai danni provocati dallo sfruttamento dei poveri. Sceglie di consolidare la tradizione e i privilegi di sempre, appoggiandosi sia sull’aristocrazia filoborbonica che era in declino, sia sulla ricca e spietata borghesia capitalista (‘Ma sì! La vittoria, la vittoria sarà nostra senza dubbio,’ concluse il vescovo’; TR2:116). [4]

[4] La Chiesa rimane immobile perché è storicamente divisa sul modo di reagire alla nascente crisi sociale dei Enzo Lauretta spiega che la gerarchia ecclesiastica siciliana era stretta, da un lato dalla linea dura suggerita dall’enciclica di Pio IX Quanta cura del 1864, che conteneva le celebri ottanta proposte del Sillabo contro la libertà della stampa e tutti i principi democratici che salvaguardano i diritti della classe lavoratrice, e dall’altro lato più distensivo del De conditione opificum di Leone XIII con le sue preoccupazioni riguardanti il capitalismo e lo sfruttamento dei lavoratori. Cfr. Lauretta, 51.

I poveri, ovviamente, a malapena sopravvivono al loro fatalismo, ai lati superstiziosi della loro fede cattolica e al tragico vissuto quotidiano come creature allibite e fuori dal tempo. Nei Vecchi e i Giovani, Pirandello ritrae la vecchia generazione del clero che resta indifferente alla realtà dei Fasci e alle sofferenze dei lavoratori e dei contadini, e che guarda con sospetto qualsiasi pensiero socialista o liberale (si rifiutano, per non lasciarsi inquinare, di leggere il ‘proclama rivoluzionario ai lavoratori dell’isola’ lanciato dal ‘Comitato centrale dei Fasci’; TR2:462). Il clero di Girgenti è dunque incapace di qualsiasi compromesso con la modernità, relegandosi in un mondo anacronistico e arcaico, tagliato fuori dalla storia contemporanea della Sicilia. Un episodio singolare del romanzo è la riunione del capitolo diocesano che discute il problema dei Fasci nella curia di Girgenti, dove la giovane generazione dei preti prova disgusto per l’ipocrisia e l’indifferenza, non solo del loro vescovo, ma di tutta la vecchia generazione del clero a lui fedele.

Il personaggio negativo del vescovo, Mons. Montoro, è descritto come un ricco e un ipocrita (‘uomo di mondo e senza ubbíe d’alcuna sorta’; TR2:113), con un corpo che fa ribrezzo (‘molle rosea grassezza donnescamente curata’; TR2:119); si parla di lui come ‘molle molle’ (TR2:216); ha le mani ‘bianche’ (TR2:115) e ‘molli feminee’ (TR2:108); gli occhi sono ‘chiari, pallidi, globulenti’ (TR2:218), ‘ovati’ (TR2:460), con le ‘palpebre lievi’ (TR2:460) e ‘esilissime come veli di cipolla’ (TR2:111). Montoro è abilissimo nella retorica e nel paternalismo (‘parlava proprio bene’, TR2:11; ha una ‘voce melata, dalle inflessioni misurate e quasi soffuse di pura autorità protettrice’, TR2:108). La lettera pastorale che manda ai fedeli della sua diocesi è un miscuglio di paternalismo, di politica conservatrice intrisa di retorica e di sfoghi dogmatici contro qualsiasi forma di massoneria. I preti della vecchia generazione si congratulano devotamente con il vescovo per questa lettera: mentre accoglie l’adulazione di quei canonici lui viene descritto come ‘dentro gongolante, ma fuori con un’aria di stanca condiscendenza’ (TR2:460).

I giovani canonici della diocesi però si sentono paralizzati dalle ovvie lacune della lettera riguardanti le sofferenze della classe contadina: ‘I più giovani canonici, intanto, che più di tutti avevano prestato ascolto alla lettura, si scambiavano tra loro occhiate di disgusto per quei vecchi e sciocchi piaggiatori’ (TR2:460–1). Stabiliti i temi politici e religiosi nei Vecchi e i Giovani, passiamo a discutere dello spazio urbano e dei paesaggi con cui si rappresentano una sicilianità mediterranea.

Lo spazio urbano e il paesaggio siciliano 

Il ruolo fondamentale della città natale di Pirandello è stato ampiamente trattato dalla critica che ha sottolineato il forte elemento di territorialità nello spazio mentale del suo immaginario. In questa sede mi limiterò a presentare la rappresentazione dei paesaggi di Girgenti nei Vecchi e i Giovani. Girgenti è un luogo emblematico in cui le crisi storiche forniscono a Pirandello sia i più diversi e assurdi intrighi umani, sia un’infinita varietà di paesaggi che non sono astratti, né naturalistici e neanche tradizionali (cioè non vengono usati come elemento di decorazione o di cornice). Hanno un valore strutturale e rappresentativo, e nascono dall’osservazione della realtà dei luoghi in cui ha vissuto Pirandello e poi si rivestono funzionalmente della visione pirandelliana della vita.

Nella sicilianità mediterranea di Pirandello, Girgenti gioca il ruolo di prototipico paese del sud e di cardine inceppato del mondo di fine Ottocento, intrappolato nell’immobilità sociale, e toccato solo marginalmente dalla storia. L’isolamento storico-risorgimentale di Girgenti è anche peggio di quello delle altre città siciliane; infatti Garibaldi sbarcò a Marsala senza neppure sfiorare la provincia di Girgenti, emarginandola dalla storica vicenda; neanche le prime elezioni e, più tardi, l’accesa rivolta dei Fasci produssero lo stesso entusiasmo che si ebbe in altre zone della Sicilia. Nell’incipit dei Vecchi e i Giovani  Pirandello rappresenta emblematicamente la campagna agrigentina colpita da una pioggia torrenziale e da un vento gelido, attraverso cui deve passare il personaggio di Placido Sciaralla. [5]

[5] Per la mia analisi testuale del brano mi sono ispirato da quella condotta dalla studiosa Anna Mauceri nel suo saggio La scrittura. Cfr. Anna Mauceri, ‘La scrittura’, in I Vecchi e i Giovani: storia, romanzo, film, a cura di Enzo Lauretta (Agrigento, 2006), 99–116.

È una descrizione fisica delle terre vicine ad Agrigento che allude alla loro desolazione morale e sociale:

La pioggia, caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il guasto dell’intemperie appariva tanto più triste, in quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi con gomiti e giravolte e opere or di sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a dirupate scorciatoje. Piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido a raffiche da ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena, cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un brivido, dalla città, alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù, torbido e rabbuffato. Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo. Le alte spalliere di fichidindia, ispide, carnute e stravolte, o le siepi di rovi secchi e di agavi, le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente che reggeva un cancello scontorto e arrugginito o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anziché conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti (per la maggior parte campagnuoli e carrettieri) che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene. Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col timido volo delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva mettere neppure un lamento in mezzo a tanto squallore (TR2:5–6).

Pirandello apre il romanzo con un’accumulazione di elementi negativi del paesaggio che è rovinato dalle intemperie e dall’inerzia dei siciliani che già alludono ad un universo di dolore: la pioggia è ‘caduta a diluvio’, lo stradone è ‘impraticabile’, l’alba è ‘livida’, i sentieri per la campagna sono diventate ‘dirupate scorciatoje’, il mare è ‘torbido e rabbuffato’, i fichidindia sono ‘ispide, carnute e stravolte’, le siepi sono composte di ‘rovi secchi’, i rami degli alberi sono ‘ispidi’, i sostegni sono ‘crollati’, i ripari sono ‘abbattuti’, i tabernacoli ‘rozzi e squallidi … ispiravano un certo sgomento’, i muri sono ‘screpolati’, un pilastro è ‘cadente’, un cancello è ‘scontorto e arrugginito’. Anche la natura è partecipe in questa desolazione: il vento e la pioggia ‘parevano un’ostinata crudeltà del cielo’ e il ‘triste uccelletto sperduto’ non osava ‘mettere neppure un lamento in mezzo a tanto squallore’.

Tale rappresentazione della campagna girgentina mi serve anche come preambolo per introdurre l’idea dell’inerzia degli abitanti agrigentini (‘era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via’, ‘nell’abbandono d’una miseria senza riparo’). La zona urbana dell’antica città greca di Girgenti è descritta dai termini ‘cruccioso’, ‘silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende’ e ‘resti miserevoli’. Tale raffigurazione del paesaggio ha un valore strutturale e rappresentativo nella narrativa pirandelliana: infatti tutti gli elementi del paesaggio, desolato e scosso dalle intemperie, sembrano condurre alla visione di una Girgenti, desolata anch’essa, ma a causa della negatività della sua condizione sociale e politica, priva di speranza. Questa descrizione paesaggistica e ambientale, non ha solamente un ritmo piuttosto lento ma anche una lingua molto poetica. È interessante notare che i verbi all’imperfetto che usa Pirandello in questo brano non indicano che un evento è passato o durativo, ma introducono un tempo narrativo, attraverso il quale la voce narrante mostra quel dato paesaggio e si sofferma sui dettagli. Questo si vede nell’uso dei verbi di percezione visiva come ‘appariva’ e ‘pareva’ che sono usati ripetutamente.

Tale struttura verbale rallenta la narrazione insieme alle scelte di tipo sintattico che sollevano il tono, lo ritmano e lo accostano al linguaggio della poesia. Per esempio, si veda il fenomeno di preposizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo, tipico della tradizione poetica (‘dirupate scorciatoje’, ‘un’ostinata crudeltà’, ‘antichissima vita’), e anche la sequenza aggettivo-nome-aggettivo (‘fosche ombre umide’) e l’altra aggettivo-aggettivo-sostantivo (‘silenziosa e attonita superstite’). L’influenza della poesia è evidente anche nelle particolari figure di ripetizione come i parallelismi (‘opere or di sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti’, ‘nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo’) e il chiasmo posto in apertura (‘in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi’).

I Vecchi e i Giovani è popolato da personaggi che si rispecchiano nel paesaggio desolante dell’agrigentino. A questo senso di desolazione e di sgomento i personaggi reagiscono ritirandosi sempre più nelle loro fantasticherie o abbandonandosi completamente al fascino della natura che diventa un rifugio, come accade per esempio a Dianella che è immersa in un’intimità arcana con la terra (‘non sentì più di vivere per sé; visse per un istante quasi incosciente, con la terra, come se l’anima le si fosse diffusa e confusa in tutte le cose della campagna’; TR2:138). Don Cosmo Laurentano, fratello minore del principe Ippolito, all’ora del crepuscolo nella sua tenuta di Valsania, contempla i mandorli e gli olivi su cui alita ‘la prima frescura d’ombra, dolce, lieve e malinconica, della sera’, e il suo sentimento della precarietà della vita si trasmette ‘lieve e vago nel mistero impenetrabile di tutte le cose’ (TR2:58). Don Cosmo vive in maniera semplice e povera; lontano dal mondo, chiuso nelle sue riflessioni filosofiche, si rispecchia negli alberi davanti alla sua villa che gli paiono ‘assorti anch’essi in un sogno senza fine’, e nel fruscio lungo e lieve di quelle fronde’ egli sente ‘come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita’ (TR2:42).

Anche il principe Ippolito si rispecchia nel paesaggio che lo circonda. Dopo l’unificazione del regno d’Italia egli si è chiuso nella sua splendida villa di Colimbetra, rifiutando il presente e vivendo nel culto delle memorie, quelle recenti del governo borbonico, e quelle lontane dell’antica Grecia. Fissa spesso lo sguardo sulle rovine della Valle dei Templi con ‘una pena indefinita per quei superstiti d’un altro mondo e d’un’altra vita’ (TR2:119). I templi sembrano animarsi – come gli artigli della città di Praga che Kafka immaginava che lo attanagliassero – e non diventano solamente ‘superstiti’ ma addirittura ‘spettri’ nel paesaggio (TR2:120), e offrono al personaggio momenti di estrema desolazione e commozione. Il paesaggio con i suoi templi, i suoni del crepuscolo e il cielo stellato, dà vita all’epifania negativa del personaggio: ‘si sentì stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto.

Guardò le stelle che già sfavillavano nel cielo, e gli parve che al loro lucido tremolío rispondesse dalle campagne deserte il tremulo canto sonoro dei grilli’ (TR2:120). Questo personaggio s’impegna in studi e scavi archeologici molto approfonditi sul mondo perso di Akragas (‘studio appassionato e non mai interrotto delle antichità akragantine’; TR2:94), che lo isolano ulteriormente dal clamore dei Fasci Siciliani. La sua residenza fortificata, presieduta da una trentina di guardie del corpo, è anche il sito di un museo privato di antichità della Magna Grecia, dove lui stesso ha collezionato ‘statue, sarcofaghi, vasi, iscrizioni, scavati a Colimbètra’ (TR2:94).

Gli studi che ha pubblicato sotto il titolo di Memorie d’Akragas, non hanno nessun significato per il presente, né per le condizioni di povertà e di sfruttamento dei contadini e dei solfatari, e neanche per la rivoluzione dei Fasci. Tutta l’eredità storica di Akragas si muta in un idealismo alienante che distrae il protagonista politico che dovrebbe essere Don Ippolito, e getta una specie di incantesimo morale sulla povera gente costretta a comportarsi secondo una predeterminata storia mediterranea negativa (‘il marchio degli Arabi era rimasto indelebile negli animi e nei costumi della gente’; TR2:163). Tuttavia, pur rifugiandosi nel passato, nelle memorie e nelle fantasie, il principe non riesce ad escludere completamente il tormentoso presente e il timore della morte. Quando guarda la Valle dei Templi da lontano osservando una ‘folta teoria d’antichi chiomati olivi’ (TR2:120) che vanno dal poggio di Tamburello al tempio di Hera, si identifica con un olivo in particolare: ‘innanzi a tutti, curvo sul tronco ginocchiuto’ che ‘forse pregava pace per quei clivi abbandonati, pace da quei Templi, spettri di un altro mondo e di ben altra vita’ (TR2:120). La desolazione del paesaggio con le sue illustri rovine e l’olivo inginocchiato a pregar per la pace riflettono, sia la coscienza che il principe ha di essere il superstite di un passato per lui glorioso, sia il senso di angoscia e di morte che lo affligge e che lo spinge ad affrontare un matrimonio assurdo e a scontrarsi con una realtà avvilente.

Pirandello viene profondamente ispirato anche dai paesaggi legati al commercio dello zolfo, come ad esempio la sua famosa e spesso citata rappresentazione del paesaggio portuale di Porto Empedocle nei Vecchi e i Giovani in cui presenta un’altra immagine negativa di arretratezza, violenza, risentimento e sfruttamento dei siciliani. Pirandello rappresenta Porto Empedocle come una realtà parassitaria: il porto era cresciuto ‘a spese della vecchia Girgenti’ (TR2:29), e le sue case sono ‘addossate, fitte, oppresse, quasi l’una sull’altra’ (TR2:29). La spiaggia è piena dello zolfo ammassato alla rinfusa sulla spiaggia (‘I depositi di zolfo s’accatastano’; TR2:29) dove i lavoratori caricano lo zolfo (descritti negativamente come ‘uomini scalzi’, impegnati in un ‘Lavoro da schiavi’, ‘Schiacciati sotto il carico’, ‘Uomini? Bestie!’; TR2:29– 30).

La scogliera del porto è ‘sempre in riparazione’ e le fogne sono ‘ancora scoperte’ (TR2:30). Il caos mediterraneo di Porto Empedocle viene rappresentato anche da un’accumulazione di suoni: il frastuono dei carri (‘uno stridor continuo’), i passi dei lavoratori (‘ciattío di piedi nudi sul bagnato’), le grida dei lavoratori che litigano (‘sbaccaneggiar di liti’), ‘le bestemmie e i richiami’ e ‘lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia’ (TR2:29). Lo spazio mediterraneo in cui si inseriscono le rappresentazioni di Pirandello non è solo squallido, paralizzante ed alienante. Girgenti diventa un personaggio che compete per l’attenzione del lettore e ha una funzione strutturale nel racconto.

La chiamata all’esilio 

Se la sicilianità mediterranea non offre in situ soluzioni gratificanti ai personaggi di Pirandello, l’unica soluzione è quella di rispondere alla chiamata di un esilio autoimposto, di trasferirsi altrove e di scriverci sopra con ironia. Il distacco fisico dal luogo natio diventa centrale al processo creativo: con l’alienazione dalla Sicilia, Pirandello si sente obbligato dalla distanza ad approfondire il suo senso di sicilianità tramite la letteratura. Pirandello lascia alle sue spalle la sua isola per rifletterci sopra, e susseguentemente per attuare la catarsi permeandone le sue opere. Solamente dopo esserne allontanati tramite l’esilio, Pirandello può affrontare la sicilianità nella scrittura.

Lo spazio isolante creato dall’esilio è permanente e non viene mai attraversato, nel senso che non c’è per Pirandello una via di ritorno dall’esilio; infatti, a parte qualche breve viaggio sporadico, Pirandello non è ritornato a vivere nei luoghi natii. Pirandello non avrebbe scritto della Sicilia senza l’esperienza dell’esilio che lo ha aiutato a ‘capire il gioco’ delle realtà siciliana. Rimanendo in Sicilia, senza la visione di un’Europa cosmopolita, Pirandello non avrebbe potuto scrivere le sue opere con la creatività e l’intensità che le caratterizzano. Paradossalmente, la distanza geografica e l’espressione letteraria diventano l’unico modo di raggiungere un compromesso accettabile per Pirandello e per i suoi personaggi, i quali gli permettono di stabilire una certa intimità con le culture claustrofobiche della sua sicilianità mediterranea.

Karl Chircop

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