I vecchi e i giovani – Parte II, Capitolo 5

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I vecchi e i giovani - Parte II, Capitolo 5

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V.

            A Girgenti, tutto il popolo si accalcava nel vasto piano fuori Porta di Ponte, all’entrata della città, in attesa che dalla stazione, giù in Val Sollano, arrivassero con le vetture di quella corsa i resti (che si dicevano raccolti in una sola cassa) di Nicoletta Capolino e di Aurelio Costa.

            Sbalordimento, angoscia, ribrezzo erano dipinti su tutti i volti per quell’efferato delitto, che da due giorni teneva in subbuglio la città e tutta la provincia intorno. Era in tutti quegli occhi un’attenzione intensa e dolorosa, un’ansietà guardinga di raccoglier nuove notizie di più precisi particolari e di non lasciarsi nulla sfuggire; perché nessuno era pago di quanto sapeva, e tutti volevano vedere e quasi toccare con gli occhi, in quella cassa che si aspettava, la prova che ciò che era avvenuto lontano, e che pareva per la sua ferocia incredibile, era vero. Non avendo potuto assistere allo spettacolo di quella ferocia, volevano vedere almeno, per quanto or ora sarebbe possibile, i miserandi effetti di essa.

            Antiche ragioni, per una almeno delle vittime; altre nuove che ora si divulgavano e accrescevano, tra lo stupore e la pietà, il tragico dell’avvenimento, se trattenevano il rimpianto, non potevano impedir la commiserazione per l’atrocità di quella morte, l’indignazione per l’infamia che si riversava per essa su l’intera provincia.

            Viva ancora davanti agli occhi di tutti era l’immagine della bellissima donna, quando altera, squisitamente abbigliata, passava nella vettura del Salvo e chinava appena il capo per rispondere ai saluti con un sorriso quasi di mesta compiacenza. Tutti vedevano entro di sé, con una strana nitidezza di percezione, qualche particolarità viva del corpo o dell’espressione di lei, il bianco dei denti appena trasparente tra il roseo delle labbra, in quel sorriso; il brillare degli occhi tra le ciglia nere; e si domandavano, con una indefinibile inquietudine, chi avrebbe potuto immaginare, allora, che dovesse esser questa la sua fine. Per lasciare, così d’un tratto, gli agi e gli onori a cui, col Salvo amico e col marito deputato, era salita, e prender la fuga con uno, al quale prima aveva ricusato d’unirsi in matrimonio, via, certo il cervello doveva averle dato di volta. Ma forse per astio, ecco, per astio contro Dianella Salvo che amava segretamente il Costa… Forse? E non si sapeva già che quella poverina, appena avuta la notizia della fuga e di quel macello, era impazzita come la madre? Dunque, dal tradimento quei due, da un’avventura che forse per uno solo di essi era d’amore, e che già di per sé avrebbe suscitato tanto scandalo in paese, erano balzati a quella morte. Ma come, perché si erano diretti ad Aragona dov’egli doveva sapersi aspettato da quelle jene fameliche da tanti mesi per la chiusura delle zolfare del Salvo? Ma perché alla volta di Girgenti, così fuggiti insieme, non potevano avviarsi. Quella fuga, più che in onta al marito, era in onta al Salvo, e perciò là appunto s’era volta, dove tutti erano contro il Salvo. Forse egli, il Costa, credeva, o almeno sperava che, annunziando subito all’arrivo che anche lui si era ribellato al Salvo, quelli dovessero accoglierlo come uno dei loro e non tenerlo più responsabile delle mancate promesse. E poi, lì, ad Aragona, aveva la casa; forse vi andava soltanto per prendere la roba, gli strumenti del suo lavoro, i libri, col proposito di ripartirsene subito, di ritornarsene in Sardegna al posto di prima. Sì; ma con la donna? doveva andar lì, tra nemici, con la donna? Poteva almeno lasciar questa, prima, in qualche posto! Eh, ma forse lei, lei stessa aveva voluto affrontare insieme il pericolo. Aveva animo fiero, quella donna, e aveva saputo mostrarlo di fronte a quell’orda di selvaggi, levandosi in piedi su la carrozza, a fare scudo del suo corpo ad Aurelio Costa, e gridando che questi per loro s’era licenziato dal Salvo, per le promesse non mantenute! Ma quel ribaldo di Marco Prèola aveva levato la voce:

            – Morte alla sgualdrina!

            E l’orda dei selvaggi, rimasta dapprima come sbigottita dalla temerità superba di quella signora, aveva avuto un fremito. Forse Nicoletta Capolino sarebbe riuscita a dominarla, a farsi ascoltare, se inconsultamente a quel grido di morte, a quell’ingiuria volgare, Aurelio Costa non fosse balzato in difesa di lei, con l’arma in pugno. Allora la carrozza era stata assaltata da ogni parte, e l’uno e l’altra, tempestati prima di coltellate, di martellate, erano stramazzati, poi sbranati addirittura, come da una canea inferocita; anche la carrozza, anche la carrozza era stata sconquassata, ridotta in pezzi; e, quando su la catasta formata dai razzi delle ruote, dagli sportelli, dai sedili, erano stati gettati i miserandi resti irriconoscibili dei due corpi, s’era visto uno versare su di essi, da un grosso lume d’ottone a spera, trafugato dalla vicina stazione ferroviaria, il petrolio, e tanti e tanti con cupida ansia affannosa appiccare il fuoco, come per toglier subito ai loro stessi occhi l’atroce vista di quello scempio.

            Così, i particolari della strage erano per minuto e quasi con voluttà d’orrore descritti e rappresentati, come se tutti vi avessero assistito e la avessero ancora davanti agli occhi. Vedevano tutti quel bruto insanguinato, che versava il petrolio da quella lampa d’ottone su le membra oscenamente squarciate e ammucchiate su la catasta, e quegli altri chini e ansanti a suscitare il fuoco.

            Si sapeva che molti, più di sessanta, erano gli arrestati insieme con Marco Prèola, aborto di natura; prima, lancia spezzata dei clericali; poi, presidente di quel fascio di solfaraj ad Aragona. Tra breve, dunque, forse quel giorno stesso, un nuovo avvenimento spettacoloso: il trasporto di tutti quei manigoldi, in catena, a due a due, dalla stazione al carcere di San Vito, tra una scorta solenne di guardie, di carabinieri a cavallo e di soldati.

            – Ecco, ecco intanto le carrozze! – Là, eccola! – Dov’era la cassa? – Uh, come è piccola! – Eccola là! – Su la terza carrozza, là, su quella che aveva in serpe un maresciallo! – Uh, capiva tutta sul sedile davanti! – Quella, quella cassetta là! quella cassettina di latta! – Quella? che nell’altro sedile c’era il commissario di polizia? – Sì, sì! – E chi era quell’altro accanto? Ah, Leonardo Costa! il padre! il padre! – Ah, povero padre, con quella cassetta là davanti!

            Un urlo di pietà, di raccapriccio si levò da tutta la folla alla vista del padre che pareva impietrato in una espressione di rabbia, ma come stupefatta nell’orrore; con gli occhi fissi su quella cassetta, quasi chiedesse come poteva esser là il suo figliuolo, la sua colonna! Ma che poteva dunque esser restato, del suo figliuolo, se due corpi, due, erano là, due? Le teste sole? Forse, spiccate, sì, e qualche membro, arsicchiato. Oh Dio! oh Dio!

            E quasi tutti piangevano, e tanti singhiozzavano forte.

            Udendo quegli urli, quei singhiozzi, Leonardo Costa, passando, levò un urlo anche lui, esalò la ferocia del suo cordoglio in un ruglio che non aveva più nulla di umano; poi s’abbatté, si contorse, tra le braccia del commissario di polizia.

            La carrozza si fermò alla voltata della piazza, dove sorge il palazzo della Prefettura, sede anche del commissariato di polizia. Due guardie presero la cassetta; il cavalier Franco ajutò Leonardo Costa a smontare. Il povero vecchio, per quanto massiccio, non si reggeva più su le gambe; un’orecchia gli sanguinava, perché alla stazione, in un impeto di rabbia, s’era strappato uno dei cerchietti d’oro. Altre guardie si schierarono davanti al portone, per impedire alla folla d’invadere l’atrio del palazzo.

            E la folla restò lì davanti, irritata, delusa, insoddisfatta. Che sarebbe avvenuto adesso? Era tutto finito così? Sarebbe rimasta lì, nel commissariato, quella cassetta? Non si farebbe il trasporto al camposanto di Bonamorone? C’era lì la gentilizia della famiglia Spoto. Ormai più nessuno restava di quella famiglia. Per Aurelio Costa c’era il padre; per Nicoletta Capolino, nessuno: non poteva esserci il marito; avrebbe potuto esserci il patrigno, don Salesio Marnilo; ma si sapeva che il poverino, abbandonato da tutti, era andato a cercar rifugio per carità a Colimbètra, e si trovava lì da qualche mese, ammalato. Forse Leonardo Costa reclamava per sé i resti del suo figliuolo, per trasportarli al camposanto di Porto Empedocle; e ragioni giudiziarie si opponevano a questo suo desiderio.

            La folla, a poco a poco, cominciò a sbandarsi tra infiniti commenti.

            Leonardo Costa voleva proprio ciò che la folla aveva immaginato. Il commissario, cav. Franco, cercava di persuaderlo ad avere un po’ di pazienza, che prima tutte le pratiche giudiziarie fossero, come egli diceva, esperite, là in ufficio… Ma sì, in giornata; dopo la visita del giudice istruttore. Il Costa, come se non capisse, insisteva, ripetendo ostinatamente, con le stesse parole, la richiesta pietosa. E il cavalier Franco, quantunque compreso di pietà per quel povero padre, sbuffava, non ne poteva più. Erano momenti terribili, per lui, e non sapeva da qual parte voltarsi prima, giacché da ogni canto della provincia, da tutta la Sicilia, giungevano notizie di giorno in giorno più gravi; pareva che da un istante all’altro dovesse scoppiare una generale sommossa, e il presidio delle milizie era scarso, e più scarso ancora quello di polizia.

            Ma che voleva, che altro voleva adesso quel benedett’uomo? Voleva… voleva che i resti di suo figlio – quali che fossero – non rimanessero mescolati là con quelli della donna, di quella donna esecrata! Perché, perché così insieme li avevano raccolti?

            – Perché? – gli gridò. – Ma che vi figurate che ci sia più là dentro?

            E indicò la cassetta, deposta su una tavola.

            – Oh figlio!

            – Tutto quello che si è potuto raccogliere, tra le fiamme. Niente! quasi niente!

            – Oh figlio!

            – Che volete più scartare, distinguere? Si arrivò troppo tardi. Alla stazione non c’erano guardie. Prima che arrivasse il delegato d’Aragona, il fuoco… Niente, vi dico… qualche residuo d’ossa…

            – Oh figlio!

            – Non si conosce più nulla… Sì, sì, pover’uomo, sì, piangete, piangete, che è meglio… Povero Costa, sì… sì… È una cosa che… oh Dio, oh Dio, che cosa… sì, fa rinnegare l’umanità! Ma voi pensate, per levarvi almeno questa spina dal cuore, pensate che lì non c’è… vostro figlio lì non c’è: non c’è più niente lì… E del resto, poverino, pensate che quella donna, se voi la odiate, egli la amò; e forse non gli dispiace adesso, che ciò che di lui ci può essere là dentro, sia insieme, mescolato, coi resti di lei… Povera donna! Avrà avuto i suoi torti, ma via, che sorte anche la sua!

            – No… no… lei… non posso… non posso parlare… lei… a perdizione… mio figlio… lei! Ma non sapete, signor commissario, che mio figlio era amato dalla figlia del principale? Si sa sicuro… sicuro, questo… è impazzita quella povera figlia mia, come la mamma! È stata… è stata tutta una macchina… Costei e quell’assassino del padre… che se la intendevano tra loro… per rovinare questo figlio mio… per toglierlo all’amore di quella santa creatura… Oh, signor commissario, legatemi, legatemi le braccia; signor commissario, chiudetemi, chiudetemi in prigione, perché se io lo vedo, quell’assassino che mi ha fatto morire il figlio così, io lo ammazzo, signor commissario, io non rispondo di me, lo ammazzo! lo ammazzo!

            Il cavalier Franco intrecciò le mani, le strinse, le scosse più volte in aria:

            – Ma vi pare, – gli gridò poi, con gli occhi sbarrati – vi pare, scusate, che io debba sentire simili spropositi? Vi compatisco, siete arrabbiato dal dolore e non sapete più quel che vi dite. Ma perdio, vostro figlio, vostro figlio… in un momento come questo, che basta un niente… una favilla, a mandare in fiamme tutta la Sicilia… non si contenta di prender la fuga come un ragazzino con la moglie d’un deputato… ma va a cacciarsi da sé, là, come a dire: «Eccoci qua, fateci a pezzi! Cercate l’esca? Eccola qua! Ci siamo noi!». – Perdio, bisogna esser pazzi, ciechi… io non so! Con chi ve la prendete? E noi siamo qua a dover rispondere di tutto… anche d’una pazzia come questa! E per giunta, mi tocca di sentire anche voi: «ammazzo! ammazzo! ammazzo!». Chi ammazzate? Credete che il Salvo, se pur è vero tutto quel che voi farneticate, ha bisogno della vostra punizione? Gli basta la pazzia della figlia!

            Il Costa, dopo questa sfuriata, non ebbe più ardire di parlar forte; lo guardò con gli occhi invetrati di lagrime; e si morse un dito; mormorò:

            – Se fosse capace di rimorso, signor commissario! Ma non è!

            Il cavalier Franco si scrollò; uscì dalla stanza.

            – Andate, andate… – gli disse dietro, il Costa; poi cauto, s’appressò alla cassetta deposta su la tavola, e si provò ad alzarla.

            Un groppo di singulti muti, fitti, nella gola e nel naso, gli scrollarono in convulsione la testa.

            Non pesava, non pesava niente, quella cassetta!

            S’inginocchiò davanti alla tavola, appoggiò la fronte al freddo di quella latta, e si mise a gemere:

            – Figlio!… figlio!… figlio!…

            Due giorni dopo, arrivò a Girgenti, inatteso, funebre, l’on. Ignazio Capolino.

            La condizione, in cui lo aveva messo non tanto forse la sciagura improvvisa quanto lo scatto violento per cui Dianella Salvo aveva perduto la ragione, era così difficile e incerta, che egli aveva bisogno di raccogliere a consulto, lì sul posto, tufte le sue forze per trovare una via da uscirne in qualche modo, al più presto. Lo scandalo della fuga della moglie era soffocato nell’orrore della morte; il tragico, che spirava da questa morte, lo rendeva immune dal ridicolo che poteva venirgli da quella fuga. Bastava dunque presentarsi ai suoi concittadini compunto nell’aspetto, ma nello stesso tempo austeramente riservato, per trarre profitto della commozione generale, senza tuttavia parteciparvi, giacché dalla moglie era stato offeso. La simpatia degli altri doveva venirgli come giusto e meritato compenso a questa offesa. E dovevano tutti vedere che egli soffriva, schiantato dall’atrocissimo fatto, e che lui più di tutti meritava compianto, poiché finanche dalle due vittime tanto commiserate era stato offeso, così da non poter piangere, neanche piangere ora la sua sciagura!

            Eppure… come mai? Rientrando in casa, in quella casa che le squisite e sapienti cure della moglie avevano reso così bene adatta alla commedia di garbate e graziose menzogne, alla gara di compitezze ammirevoli, nella quale entrambi avevano preso tanto gusto a esercitarsi perché la loro vita non fosse troppo di scandalo agli altri, troppo disgustosa a loro stessi; e sentendo nel silenzio cupo delle stanze, rimaste con tutti i mobili come in attesa, il vuoto, il vuoto in cui dal primo momento della sciagura si vedeva perduto… – come mai? – nell’aprir la camera da letto e nell’avvertirvi affievolito, ma pur presente ancora, il voluttuoso profumo di lei, ecco, per un irresistibile impeto chelo stordì per la sua incoerenza, ma che pur gli piacque come un ristoro insperato di accorata tenerezza – pianse, sì, pianse per il ricordo di lei, pianse per la prima volta dopo l’annunzio di quella morte, pianse come non aveva mai pianto in vita sua, sentendo in quel pianto quasi un dolore non suo, ma delle sue lagrime stesse che gli sgorgavano dagli occhi senza ch’egli le volesse, ma, appunto perché non le voleva, con tanto sapor di dolcezza e di refrigerio!

            Non doveva però, no, no, non doveva… perché… Si fermò un momento a considerare perché non avrebbe dovuto piangerla. Non era stata forse la compagna sua necessaria e insurrogabile? la compagna preziosa dei suoi sottili e complicati accorgimenti, la quale, correndo – più per sé, forse, quella volta, che per lui – a un riparo a cui anch’egli però l’aveva spinta – era caduta? Sì, e così orribilmente, così orribilmente caduta! Eppure, no; apparentemente, ecco, almeno apparentemente non doveva piangerla… Così in segreto sì, anche perché quel pianto gli faceva bene, ora. Era restato solo; e da sé solo, ora, doveva ajutarsi, difendersi; e non sapeva ancora, non vedeva come.

            Piangendo, no, intanto, di certo!

            E Capolino sorse in piedi; si portò via, prima con le mani, poi a lungo, col fazzoletto, accuratamente, le lagrime dagli occhi, dalle guance; si rimise le lenti cerchiate di tartaruga, e si presentò, fosco, severo, aggrondato, allo specchio dell’armadio.

            Dio, come il suo viso era sbattuto, invecchiato in pochi giorni!

            Il dolore? Che dolore? Non poteva riconoscere d’aver provato dolore… se non forse or ora, un poco. Ma no, anche prima, in fondo, aveva certo dovuto provarne uno e ben grande, se a Roma, all’annunzio della sciagura, era stato accecato da quella rabbia che lo aveva scagliato su Dianella Salvo.

            Doveva pentirsi di quello scatto?

            Si era con esso attirato per sempre l’odio, la nimicizia mortale del Salvo. Ma se pur fosse riuscito a reprimersi in quel primo momento, a vietarsi la soddisfazione feroce di quella vendetta, che avrebbe ottenuto? A lui, restato solo, senza più la moglie, avrebbe forse Flaminio Salvo seguitato a dare ajuto e sostegno, per il rimorso e la complicità segreta nel sacrifizio di quella? Forse la figlia, già inferma, sarebbe impazzita anche senza quel suo scatto, al solo annunzio della morte del Costa. E allora? Flaminio Salvo avrebbe creduto di pagare già abbastanza con la pazzia della figliuola; e per lui non avrebbe avuto più alcuna considerazione; anzi lo avrebbe respinto da sé, come lo spettro del suo rimorso. Caso pensato. Se poi Dianella non fosse impazzita e si fosse a poco a poco quietata, era uomo Flaminio Salvo, avendo raggiunto lo scopo, da restar grato alla memoria di chi gliel’aveva fatto raggiungere, a costo della propria vita; e, per essa, al marito, rimasto vedovo? Ma se già, subito, per scrollarsi d’addosso ogni responsabilità, subito aveva gridato ai quattro venti che Nicoletta Capolino e Aurelio Costa avevano preso la fuga e che il Costa s’era licenziato ed era andato dunque a morire per conto suo, ad Aragona, insieme con l’amante! Sì: fuggita col Costa, sua moglie; ma chi l’aveva spinta a commettere questa pazzia? Chi aveva spedito a Roma il Costa con la scusa di quel disegno da presentare al Ministero? Chi aveva aizzato la gelosia, o piuttosto, il puntiglio di lei, facendole balenare prossimo il matrimonio della figlia col Costa? Ed egli, Capolino, egli, il marito, aveva dovuto prestarsi a tutte queste perfide manovre che dovevano condurre a una tale tragedia; così, è vero? per restar poi abbandonato, senza più alcuna ragione d’ajuto, raccolto il frutto di tante scellerate perfidie! Ah, no, perdio! Di quel suo scatto non doveva pentirsi. Se egli aveva perduto la moglie, e lui la figlia! Pari, e di fronte l’uno all’altro. Ora il Salvo gli avrebbe soppresso ogni assegno. Toccava a lui, dunque, di provvedere subito anche ai bisogni più immediati. E ogni credito presso gli altri, con l’amicizia del Salvo, gli veniva meno. Che fare? Come fare?

            Così pensando, Capolino brancicava con le dita irrequiete la medaglietta da deputato appesa alla catena dell’orologio. Aveva per sé, ancora, il prestigio che gli veniva da quella medaglietta. Per ora, il Salvo non poteva strappargliela dalla catena dell’orologio. E con essa, per uno che valeva, se non più, certo non meno del Salvo in paese, egli era ancora il deputato. Don Ippolito Laurentano non avrebbe permesso, che colui che rappresentava alla Camera il paladino della sua fede, si dibattesse tra meschine difficoltà materiali.

            Ecco: subito, prima che Flaminio Salvo arrivasse a Girgenti e si recasse a Colimbètra a preoccupare l’animo del principe contro di lui, egli vi correrebbe e parlerebbe aperto a don Ippolito della perfidia di colui. Dopo tanti mesi di convivenza con donna Adelaide, non doveva il principe essere in animo da tenere più tanto dalla parte del cognato; oltreché, in favor suo, egli avrebbe in quel momento la commiserazione per la sua sciagura. Poteva, sì, contro a questa, il Salvo porre in bilancia quella della propria figliuola; ma appunto su ciò egli andrebbe a prevenire il principe, dimostrandogli che non lui, con quel suo scatto naturale e legittimo, nella rabbia del cordoglio, era stato cagione di quella pazzia; ma il padre, il padre stesso che con tanta violenza aveva voluto impedire che la figlia sposasse il Costa, sacrificando costui e distruggendolo insieme con la moglie. Ora, per sgabellarsi d’ogni rimorso, voleva gettar la colpa addosso a lui, e anche di lui sbarazzarsi, come già del Costa e della moglie.

            Ecco il piano! Ma né quel giorno, né il giorno appresso, Capolino ebbe tempo di recarsi a Colimbètra ad attuarlo. Una processione ininterrotta di visite lo trattenne in casa, con molta sua soddisfazione, quantunque sapesse e vedesse chiaramente che più per curiosità che per pietà di lui si fosse mossa tutta quella gente, la quale certo, domani, a un cenno del Salvo, gli avrebbe voltato le spalle. A ogni modo, andando dal principe, avrebbe potuto parlare di questo solenne attestato di condoglianza e di simpatia dell’intera cittadinanza; oltreché, in tanti animi che, per la commozione del tragico avvenimento, eran come un terreno ben rimosso e preparato, poteva intanto seminar odio per il Salvo, così senza parere.

            – Non me ne parlate, per carità! – protestava, alterandosi in viso al minimo accenno. – Dovrei dir cose, cose che… no, niente; per carità, non mi fate parlare…

            E se qualcuno, esitante, insisteva:

            – Quella povera figliuola…

            – La figliuola? – scattava. – Ah, sì, povera, povera vittima anche lei! Non sopra tutte le altre, però, certo… Per carità, non mi fate parlare…

            Il salotto era pieno zeppo di gente quando entrò il D’Ambrosio, quello che gli aveva fatto da testimonio nel duello col Verònica e che era lontano parente di Nicoletta Spoto. Avvenne allora una scena che, neanche se Capolino l’avesse preparata apposta, gli sarebbe riuscita più favorevole.

            Il D’Ambrosio entrò tutto gonfio di commozione, e con le braccia protese. In piedi, tutti e due si abbracciarono in mezzo alla stanza, si tennero stretti un pezzo piangendo forte. Fòrte, con la sua abituale irruenza, parlò il D’Ambrosio, staccandosi dall’abbraccio:

            – Dicono tutti, qua, che Nicoletta mia cugina era la ganza di quell’imbecille del Costa: è vero? Tu puoi dirlo meglio di tutti: è vero?

            Sbigottiti, gli astanti si volsero a guatare il Capolino.

            Questi cadde a sedere, come trafitto, su la poltrona, con le braccia abbandonate su le gambe, e scosse amaramente il capo. Poi, facendo un atto appena appena con le mani, parlò:

            – Troppe… troppe cose dovrei dire, che non posso… Anche la pietà, capirete… sì, sì… anche queste lacrime, amici, mi bruciano! Perché anche da quei due che le meritano per la loro sorte, ma da voi, cari, da voi; non da me… anche da quei due io ebbi male; ma sopra tutto da chi li guidò a quel passo; da chi li teneva in pugno, e…

            – Il Salvo! – proruppe il D’Ambrosio. – Hanno arrestato ad Aragona Marco Prèola; ma lui, il Salvo, per la Madonna, debbono arrestare! lui affamò là tutto il paese! lui è il vero assassino! E giustamente Dio l’ha punito, con la pazzia della figlia! Così, tra due pazze, se ne starà ora con tutte le sue ricchezze!

            Capolino, allora, scattò in piedi, sublime.

            – Ma per carità! no! no! Non posso permettere che si dicano di queste cose alla mia presenza! Vuoi difendere quegli assassini? Via! Sappiamo tutti che il Salvo era nel suo diritto, chiudendo là le zolfare! Ognuno provvede, come sa e crede, ai proprii interessi. E, del resto, non si è forse adoperato in tanti modi qua, al risorgimento dell’industria? No, no! Signori miei, vedete? parlo io, io, in questo momento, e arrivo fino a dirvi che egli, dal suo canto, anche come padre, ha creduto di agire per il bene della figliuola! Voi tutti non avete alcuna ragione per non riconoscer questo; potrei non riconoscerlo io, io solo, perché i mezzi di cui si è servito mi hanno distrutto la casa, spezzato la vita! Ma egli mirava, là, al bene di tutti quei bruti; e qua, al bene della sua figliuola!

            Dieci, quindici, venti mani si tesero a Capolino, in un prorompimento d’ammirazione per così magnanima generosità; e Capolino si sentì levato d’un cubito sopra se stesso.

            – Forse mi vedrò costretto, – soggiunse con triste gravità, – a restituirvi il mandato, di cui avete voluto onorarmi.

            – No! no! che c’entra questo? E perché? – protestarono alcuni.

            Capolino, sorridendo mestamente, levò le mani ad arrestare quell’affettuosa protesta:

            – La condizione mia, – disse. – Considerate. Potrei più aver rapporti, non dico di parentela o d’amicizia, ma pur soltanto d’interessi, con Flaminio Salvo? No, certo. E allora? Devo provvedere a me stesso, signori miei, mentre il mandato che ho da voi esige un’assoluta indipendenza, quella appunto che avevo per i miei ufficii nel banco del Salvo., Ora… ora bisognerà che mi raccolga a pensar seriamente ai miei casi. Non son cose da decidere così su due piedi e in questo momento.

            – Ma sì! ma sì! – ripresero quelli a confortarlo a coro. – Questi sono affari privati! La rappresentanza politica…

            – Eh eh…

            – Ma che! non c’entra…

            – Altra cosa…

            – E poi, per ora…

            – Per ora, – disse, – mi basta, miei cari, di avervi dimostrato questo: che sono pronto a tutto, e che guardo le cose e la mia stessa sciagura con animo equo e, per quanto mi è possibile, sereno. Grazie, intanto, a tutti, amici miei.

            Più tardi, recatosi al Vescovado a visitar Monsignore, ebbe da questo tali notizie su don Ippolito Laurentano e donna Adelaide, che stimò da abbandonare senz’altro il piano dapprima architettato, e che anzi gli convenisse aspettare il ritorno di Flaminio Salvo da Roma, per recarsi a Colimbètra a tentarne un altro, che già gli balenava, audacissimo.

            Flaminio Salvo non volle lasciare a Roma Dianella in qualche «casa di salute», come i medici e la sorella e il cognato gli consigliavano; disse che, se mai, l’avrebbe lasciata in una di queste case a Palermo, per averla più vicina e poterla più spesso visitare; ma la sua casa ormai – soggiunse – poteva pur trasformarsi in uno di questi privati ospizii della pazzia, sotto il governo d’uno o più medici e con l’assistenza d’altre infermiere adatte: vi restava egli solo provvisto di ragione; ma sperava che presto, con l’esempio e un po’ di buona volontà, la perderebbe anche lui.

            Quando fu sul punto di partire, però, si vide costretto a ricorrere a Lando Laurentano, perché gli désse a compagno di viaggio Mauro Mortara, da cui Dianella non avrebbe voluto più staccarsi, e che forse era il solo che avrebbe potuto indurla a uscire da uno stanzino bujo ove s’era rintanata, e a partire. Lando Laurentano, che si preparava in gran fretta anche lui, chiamato a Palermo dai compagni del Comitato centrale del partito, rispose al Salvo, che avrebbero potuto fare insieme il viaggio, e che la mattina seguente sarebbe venuto con Mauro a prenderlo in casa Velia. Flaminio Salvo notò nell’aspetto, nella voce, nei gesti del giovane principe una strana agitazione febbrile, e fu più volte sul punto di domandargliene premurosamente il motivo; ma se n’astenne. Lando Laurentano era in quell’animo per una ragione, a cui il Salvo non avrebbe potuto neppur lontanamente pensare in quel momento: cioè, l’enorme impressione prodotta in tutta Roma dal suicidio di Corrado Selmi. Se n’era divulgata la notizia la sera stessa, che egli usciva con Mauro da casa Velia. Il grido d’un giornalajo glien’aveva dato l’annunzio. Aveva fatto fermar la vettura per comperare il giornale. Ma, anziché dargli gioja, quell’annunzio improvviso lo aveva in prima stordito. Aveva ordinato al vetturino d’accostarsi a un fanale, per leggere, non ostante l’impazienza di Mauro; aveva saltato il lungo commento necrologico premesso alle notizie sul suicidio, ed era corso con gli occhi a queste. Dal racconto del cameriere del Selmi aveva saputo, prima, l’aggressione a mano armata del nipote di Roberto Auriti, quando già il Selmi aveva ingojato il veleno; poi… ah poi!… una visita, che il giornalista diceva drammaticissima, al Selmi appena spirato, «d’una dama velata» di cui, per degni rispetti, non si faceva il nome, «accorsa», seguitava il cronista, «ignara del suicidio, forse per dare ajuto e conforto all’amico, dopo la sfida da lui lanciata, la mattina, all’intera assemblea».

            Lando Laurentano non aveva avuto alcun dubbio, che quella dama velata fosse donna Giannetta D’Atri, sua cugina; e aveva strappato il giornale, con schifo e con rabbia, gridando al vetturino di correre a casa. Qua aveva trovato in smaniosa ambascia Celsina Pigna e Olindo Passalacqua, che cercavano disperatamente Antonio Del Re, scomparso dalla mattina. Eran sembrate così inopportune a Lando in quel momento la vista buffa di quell’uomo, le smaniette di quella ragazza, tutta quell’ansia attorno a lui per la ricerca d’un giovane ch’egli non conosceva e ch’era tanto lontano dai suoi pensieri, che aveva avuto contro il suo solito un violento scatto d’ira. Aveva chiamato Raffaele, il cameriere, per ordinargli di mettersi a disposizione di quei due, ed era rimasto solo con Mauro. Questi, interpretando quello scatto come un segno di sprezzante noncuranza per l’arresto del cugino, non s’era potuto trattenere; gli s’era fatto innanzi tutto acceso di sdegno, gridando:

            – Me ne voglio andare, subito! ora stesso! Non voglio più guardarvi in faccia!

            – Mauro! Mauro! Mauro! – aveva esclamato Lando, scotendo in aria le mani afferrate.

            Mauro allora s’era cacciato una mano in tasca, per trarne fuori le medaglie:

            – Guardate! Dal petto me l’ero strappate, davanti al delegato, quando ho visto arrestare vostro cugino! Ora quella ragazza è venuta a riportarmele… Che sangue avete voi nelle vene? È questa la gioventù d’oggi? è questa?

            – La gioventù… – s’era messo a rispondere con veemenza Lando; ma s’era subito frenato, premendosi forte le pugna serrate su la bocca e andando a sedere, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani.

            La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l’opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d’Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre sù, nel settentrione, s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l’inerzia, la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!

            Lando era balzato in piedi per gridare questa sua speranza a Mauro Mortara; ma s’era trattenuto per carità, alla vista di lui che piangeva, con quelle sue pietose medaglie in mano.

            Il giorno appresso Antonio Del Re era stato ritrovato. Olindo Passalacqua era venuto a mostrare a Lando due telegrammi e un vaglia spediti d’urgenza da Girgenti per far subito partire il giovine; ma aveva soggiunto che il Del Re si ricusava ostinatamente di ritornare in Sicilia. Lando allora aveva pregato Mauro di recarsi a prendere il giovine per invitarlo a partire con loro il giorno appresso e Mauro a questa preghiera si era arreso di buon grado. Ma come proporgli adesso di viaggiare insieme con Flaminio Salvo?

            La mattina per tempo venne al villino di via Sommacampagna Ciccino Velia per concertare il modo di spinger fuori dal nascondiglio Dianella e farla partire. Guaj, se vedeva il padre! Durante tutto il viaggio non doveva vederlo. Zio Flaminio e Lando dovevano viaggiare in un altro scompartimento della vettura, senza mai farsi scorgere. C’era anche quel giovanotto, il Del Re? Bene: tutti e tre, appartati, nascosti. Mauro e Dianella sarebbero stati soli, nello scompartimento attiguo: tutt’intera una vettura sarebbe stata a loro disposizione.

            Fu men difficile, a tali condizioni, persuadere Mauro a render questo servizio al Salvo. Quando seppe che né ora, a casa Velia, né poi, durante tutto il tragitto, lo avrebbe veduto, e che non si trattava tanto di rendere un servizio a lui quanto un’opera di carità a quella povera fanciulla demente, si arrese aggrondato, e andò avanti con Raffaele in casa Velia.

            Non ci fu bisogno né di preghiere né di esortazioni: appena Dianella rivide Mauro, balzò dal nascondiglio e tornò a riaggrapparsi a lui, incitandolo a fuggire insieme. Si dovette all’incontro stentare a trattenerla un po’ per rassettarla alla meglio, ravviarle i capelli scarmigliati, metterle un cappello in capo, perché almeno non desse tanto spettacolo alla gente, in compagnia di quel vecchio che già per suo conto attirava la curiosità di tutti.

            Quando l’uno e l’altra, tenendosi per mano, quello col viso tutto scombujato, lo zainetto alle spalle, questa con gli occhi e la bocca spalancati a un’ilarità squallida e vana, i capelli cascanti, scompigliati sotto il cappello assettato male sul capo, attraversarono il salone per andarsene, chi li vide non se ne potè più levar l’immagine dalla memoria.

            Che discorsi tennero tra loro, nel viaggio?

            Dietro l’usciolino dello scompartimento, il Salvo e il Laurentano, ora l’uno ora l’altro, li intesero conversar tra loro, a lungo, e s’illusero dapprima che tra loro il vecchio e la fanciulla s’intendessero. Ma sì, a maraviglia s’intendevano, perché l’uno e l’altra, ciascuno per sé, non parlavano se non con la propria follia. E le due follie sedevano accanto e si tenevano per mano.

            – Una donna… vergogna!… Non si dice Aurelio… Signor Aurelio… Signor Aurelio!… Ma com’è possibile che l’abbia dimenticato?… Una così grossa ferita al dito… Vieni, vieni qua, al bujo… nell’andito… Te lo succhio io, il sangue dal dito… Una donna? Vergogna… Signor Aurelio…

            – Questi… sono questi, i figli! La nuova gioventù… Per veder questo, oh assassini, abbiamo tanto combattuto, sacrificato la vita nostra… per veder questo, donna Dianella! E che ci vado più ad appendere, adesso, sotto la lettera del Generale nel camerone? che ci vado più ad appendere, dopo tutto quello che ho visto?

            – Eh, ma chi lo sa l’anno che viene? Il gelso, a marzo, coglie sangue di nuovo… E allora, quand’è in amore, per gettare, è molle, molle come una pasta, e se ne fa quello che se ne vuole… Chi lo sa l’anno che viene?

            – Incerto il bene, ma certe le pene, figlia mia! Incerto il bene, ma certe le pene!

            Così conversavano di là, quei due.

            Né Lando né Flaminio Salvo badavano intanto a un altro, di qua con loro, che non diceva nulla, ma che pure non meno di quei due vaneggiava col cervello. Non vedeva, non sentiva, non pensava più nulla, Antonio Del Re. La furia della disperazione, con la quale s’era avventato sopra il Selmi, gli aveva come folgorato lo spirito. Uscito dalla casa del Selmi, era rimasto vuoto, sospeso in una tetraggine attonita, spaventevole; e non ricordava più nulla, dove fosse andato, che avesse fatto, come e dove avesse passato la notte, se proprio la notte, una notte fosse passata. Non rispondeva a nessuna domanda; forse non udiva. Vedere, vedeva; stava per lo meno a guardare; ma la ragione non vedeva più, la ragione degli aspetti delle cose e degli atti degli uomini. Non si era già opposto al suo ritorno in Sicilia; ma a muoversi da sé dal luogo ove i piedi lo avevano condotto e la stanchezza accasciato. Si era mosso, allorché Mauro lo aveva strappato per il petto; ma senza udir nulla di quanto quegli gli aveva detto della nonna e della mamma. Il Passalacqua e Celsina lo avevano accompagnato, la mattina, al villino di Lando; prima di partire aveva veduto Celsina sorridere a Ciccino Velia, accettarne il braccio, montare in carrozza con lui e col Passalacqua: tutto questo aveva veduto, e più là, col pensiero; e nulla, più nulla gli s’era rimosso dentro.

            Quando, passato lo stretto di Messina, Lando Laurentano scese dal treno per proseguire su un altro alla volta di Palermo, Flaminio Salvo provò una certa costernazione al pensiero di restar solo nella vettura per un’intera giornata fino a Girgenti con quel giovane a lui ignoto, che due giorni avanti aveva levato il pugnale per uccidere il Selmi, e che ora gli teneva gli occhi addosso con tanta fissità di sguardo, tra il torvo e l’insensato.

            Ecco, con tre pazzi egli viaggiava; e forse non meno pazzo di questi tre era quello or ora sceso dal treno con l’intenzione di mettere a soqquadro tutta l’isola! Lui solo, dunque, per terribile condanna, doveva serbare intatto il privilegio di non aver minimamente velata, offuscata, né per rimorso, né per pietà, né più da alcun affetto, né più da alcuna speranza, né più da alcun desiderio, quella lucida, crudele limpidità di spirito? Lui solo.

            E, come per assaporare lo scherno della sua sorte, si accostò ancora una volta all’usciolino dello scompartimento, con l’orecchio allo spiraglio, ad ascoltare i discorsi vani del vecchio e della figliuola.

            Appena Mauro Mortara, arrivato a Girgenti, potè strapparsi dalle braccia di Dianella Salvo, corse di furia alla casa di donna Caterina Laurentano. Viirovò Antonio Del Re ancora tra le braccia della madre che invano, stringendolo, scotendolo, smaniando, cercava di spetrarlo.

            Come Anna vide entrar Mauro, gli corse incontro, lasciando il figlio:

            – Che ha? Che ha? Ditemi voi che ha! Che gli hanno fatto?

            Ma il Mortara le scostò le braccia e grido più forte di lei:

            – Vostra madre? Dov’è vostra madre?

            Sopravvenne Giulio, in pochi giorni invecchiato di dieci anni. Negli occhi, nelle braccia protese aveva la speranza di aver da Mauro qualche notizia precisa sull’arresto di Roberto, sul suicidio del Selmi, se questi veramente avesse lasciato qualche dichiarazione in favore del fratello, come dicevano i giornali. Dal nipote non aveva potuto saper nulla, per quanto, tra le braccia della madre, lo avesse furiosamente scrollato per farlo parlare.

            Ma il Mortara scostò anche lui, ripetendo, testardo e violento:

            – Vostra madre? Non so nulla! So che l’hanno arrestato sotto i miei occhi! Non voglio veder nessuno! Voglio vedere lei sola!

            Giulio restò perplesso, se permettergli d’entrare nella camera della madre, così all’improvviso.

            Dal giorno che egli, sotto l’urgenza della necessità, vincendo ogni riluttanza, dapprima con circospezione, poi risolutamente, con crudezza, le aveva detto che bisognava si recasse dal fratello Ippolito per salvare il figlio, era caduta, di schianto, in un attonimento quasi di apatia, come se la vista di tutte le cose intorno le si fosse a un tratto vuotata d’ogni senso. Non un gesto, non una parola. Più niente. E quella immobilità e quel silenzio avevano avuto fin da principio un che di così assoluto e invincibile, che né un gesto, né una parola eran più stati possibili agli altri per scuoterla o esortarla. Giulio sapeva che avrebbe ucciso la madre, parlando. E difatti, ecco, subito, parlando, l’aveva uccisa. Ella non poteva andare dal fratello per salvare il figlio: sarebbe stata la sua morte. Ed ecco, era morta.

            Tanto egli quanto Anna avevano sperato, dapprima, che non volesse più muoversi né parlare; non che, veramente, non potesse. Ma ben presto s’erano accorti che non poteva. Pure, una lieve contrazione rimasta su la fronte, tra ciglio e ciglio, diceva chiaramente che, anche potendo, non avrebbe voluto. La avevano sollevata di peso dalla seggiola e adagiata sul letto. Erano di morte la immobilità e il silenzio; soltanto, ancora, non era fredda. E per impedire che anche quel freddo le sopravvenisse, si erano affrettati a coprirla bene sul letto, con mani amorose, piangendo. L’ultima crudeltà doveva compiersi così sopra di lei, e, perché fosse più iniqua, per mano stessa dei figli. Ora, vegliandola e piangendo, i figli le dimostravano, o piuttosto dimostravano a se stessi, che non erano stati loro a compierla. Se ella, per tutto ciò che aveva fatto, non poteva pagare per il figlio, bisognava che pagasse così, ora. Giulio lo sapeva; e, pur sapendolo, non aveva potuto impedirlo. Doveva parlare, spingerla a quella morte, darle il crollo. L’aveva poi raccolta su le braccia, e ora le rincalzava le coperte e le stringeva attorno alle braccia lo scialle nero di lana, per ripararla dall’ultimo freddo, e andava in punta di piedi, perché nessun rumore arrivasse più a quel silenzio. Anche il volo d’una mosca sarebbe stato di più, ora, oltre a quello che egli aveva fatto, perché doveva. Un pensiero, se non fosse anche di più la sua vita, il suo respiro, dopo quello che aveva fatto, gli era anche passato per la mente. Fuori di quella madre, fuori della Sicilia egli, fin da giovinetto, aveva preso mondo. Era vissuto senza né ricordi, né affetti, né aspirazioni, quasi giorno per giorno: freddo, svogliato, ironico, sdegnoso. D’improvviso, quando men se l’aspettava, il destino della sua famiglia aveva allungato una spira a involgerlo, a invilupparlo, e lo aveva attratto a sé e piombato là, a rinsertarsi, a riaffiggersi alla radice, da cui s’era strappato; a sentire tutto ciò che non aveva voluto mai sentire, a ricordarsi di tutto ciò di cui non aveva voluto mai ricordarsi. La fine di colei, che aveva sempre e tutto sentito, e di tutto e sempre si era ricordata, schiantata ora dall’urto con cui egli era tornato a inviscerarsi in lei, non doveva essere adesso anche la sua fine? Schiantato il tronco, schiantati i rami. Nel tetro squallore della casa, era rimasto inorridito del suo apparire a se stesso coi sentimenti e i ricordi tutti di quella madre. Ma gli era apparsa anche Anna, la sorella: il ramo che non s’era mai staccato da quel tronco; che miseramente una volta sola, per poco, era fiorito, per dare il frutto ispido e attossicato di quel figlio, in cui neanche l’amore della madre riusciva a penetrare. E fratello e sorella si erano stretti, allora, fusi in un abbraccio d’infinita tenerezza, d’infinita angoscia, all’ombra della tetra casa, assaporando la dolcezza del pianto che li univa per la prima volta e che pur rompeva loro il cuore. Egli doveva vivere per quella sorella e per quel ragazzo. La notizia dell’arresto di Roberto, ormai inevitabile, attesa da un momento all’altro, era finalmente arrivata insieme con quella del suicidio di Corrado Selmi, ma vaga, ristretta in poche righe nei giornali siciliani, come una notizia a cui i lettori non avrebbero dato importanza, presi com’erano tutti, allora, dalla morbosa curiosità di conoscere fin nei minimi particolari l’eccidio d’Aragona.

            La trepidazione di Anna per il figlio solo a Roma, il pensiero dell’ajuto da portare a Roberto avevano spinto dapprima Giulio a ritornar subito alla Capitale. Ma come abbandonar la madre in quello stato, sola lì con Anna che s’aggirava per le stanze chiamando il figlio, quasi forsennata? E che ajuto avrebbe potuto portare a Roberto? L’unico ajuto possibile sarebbe stato il denaro, il rimborso alla banca di quelle quarantamila lire, così che tutti potessero credere che queste fossero state prese da lui, per bisogni suoi. Il suicidio del Selmi, ora, avrebbe forse aperta la porta del carcere a Roberto, ma gli sarebbe rimasta, incancellabile, dopo la denunzia e l’arresto, la macchia d’una losca complicità. Quanti avrebbero creduto, domani, che disinteressatamente egli si fosse prestato a contrarre il debito, sotto il suo nome, per conto d’un altro? La dichiarazione del Selmi, se davvero esisteva come i giornali asserivano, non sarebbe valsa a cancellare del tutto quella macchia.

            Di là, nella camera della madre, c’era il canonico Pompeo Agro, che da tanti giorni, per ore e ore, non si staccava dalla poltrona a pie’ del letto, fissi gli occhi nella faccia spenta della giacente, forse con la speranza di scoprirvi un indizio che ella – non avendo più nulla da dire agli uomini – desiderasse per suo mezzo comunicare con Dio. Più d’una volta con profonda voce l’aveva chiamata per nome, a più riprese, senza ottener risposta.

            Giulio disse a Mauro di attendere un poco: voleva consigliarsi con l’Agro, se questi désse più peso alla sua speranza o al suo timore che la vista o la voce del Mortara, scotendo la madre da quel torpore di morte, potessero farle bene o male.

            – Credo, – gli rispose l’Agro, – che non ci sia più né da sperare né da temere. Non avvertirà nulla. Provare. Tanto, se dura così, è la morte lo stesso.

            Mauro entrò come un cieco nella camera quasi al bujo, chiamando forte, con affanno di commozione:

            – Donna Caterina… donna Caterina…

            Restò, davanti al letto, alla vista di quella faccia volta al soffitto, sui guanciali ammontati, cadaverica, con gli occhi che s’immaginavano torbidi e densi di disperata angoscia sotto la chiusura perpetua delle gravi pàlpebre annerite, con una ostinata, assoluta volontà di morte negli zigomi tesi, nelle tempie affossate, nelle pinne stirate del naso aguzzo, nelle livide, sottili labbra, non solo serrate, ma anche in qualche punto attaccate dall’essiccamento degli umori.

            – Oh figlia… oh figlia… – esclamò. – Donna Caterina… sono io… Mauro… il cane guardiano di vostro padre… Guardatemi… aprite gli occhi… da voi voglio essere guardato… Aprite gli occhi, donna Caterina; guardando me, guardatela vostra stessa pena… Sentitemi: debbo dirvi una cosa… torno da Roma…

            Urtando contro la rigida impassibilità funerea della morente, la commozione di Mauro Mortara si spezzò a un tratto in striduli singhiozzi, molto simili a una risata. L’Agrò e Giulio, anch’essi piangenti, se lo presero in mezzo, e, sorreggendolo per le braccia, lo trassero fuori della camera.

            La morente, rimasta sola nell’ombra, immobile su i guanciali ammontati, udì tardi la voce, come se questa avesse dovuto far molto cammino per raggiungerla nelle profonde lontananze misteriose, ove già il suo spirito s’era inoltrato. E da queste lontananze, in risposta a quella voce, tardi venne alle sue pàlpebre chiuse una lagrima, ultima, che nessuno vide. Sgorgò da un occhio; scorse su la gota; cadde e scomparve tra le rughe del collo.

            Quando Pompeo Agro tornò a sedere su la poltrona a pie’ del letto, né più nell’occhio, né più su la gota ve n’era traccia.

            Donna Caterina era morta.

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I vecchi e i giovani – Indice
Introduzione
Parte I

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

Parte II

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

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