1913 – I vecchi e i giovani

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La rappresentazione che Pirandello dà della sua città è, reazione del troppo amore, assolutamente desolante: Girgenti è una città morta, la città dei corvi, cioè dei preti. La miseria, l’ignoranza, la superstizione vi regnano incontrastate. Ma tutta l’isola è fuori del tempo, afflitta da piaghe secolari e dimenticata.

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Sezione Audio
I vecchi e i giovani – Audiolibro – Legge Massimo Popolizio

Sezione tematiche
Andrea Camilleri – Pirandello contro il Gattopardo
Giovanni Teresi – Lettura ed analisi de “I vecchi e i giovani”
Karl Chircop – La Sicilianità Mediterranea ne «I Vecchi e i Giovani»
Biagio Lauritano – I vecchi e i giovani: il romanzo dell’illusione
Ilaria de Seta – Binari paralleli e visioni contrapposte: i fratelli ne I vecchi e i giovani
Ombretta Frau – Un caso di cleptomania letteraria. “I vecchi e i giovani” tra fonti e plagio
Rita Coltellese – Articolo – “I Vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello
Lanfranco Caminiti – I vecchi e i giovani, insurrezione e narrazione
Gaetano Trombatore – Saggio su “I vecchi e i giovani” Pirandello e i fasci siciliani
Vittorio Spinazzola – Il sovversivismo dei Vecchi e i giovani
Tesi – Martina Poláková – La tecnica narrativa sullo sfondo della categoria dello spazio: I Vecchi e i giovani di Pirandello letti a ridosso de I Promessi Sposi di Manzoni

Link esterni
Opere letterarie del 900 Italiano – I Vecchi e i giovani
Italia Libri – I Vecchi e i giovani 

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I vecchi e i giovani

I vecchi e i giovani – Indice
Introduzione
Parte I

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

Parte II

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

I vecchi e i giovani – Introduzione

            Leggendo I vecchi e i giovani si ha l’impressione che Pirandello voglia saldare un conto: intanto, con se stesso e le proprie ambizioni di scrittore, per quello che ha attraversato e capito e per quello che è in grado di rappresentare; e insieme, con la propria epoca, ricca di trasformazioni e di tumulti, sovrastante gli individui e di incerta eredità. I vecchi e i giovani sono, o vogliono essere un affresco epocale, un genere che non è nelle sue corde, ma a cui Pirandello si accinge per un’ulteriore dimostrazione e, forse, per liberarsene. Sono dedicati ai figli «giovani oggi vecchi domani», con un messaggio incauto e anche troppo impegnativo. Che cosa ne dovranno ricavare i tre beneficiari, o malcapitati? Turgenev ha scritto il romanzo Padri e figli, e il problema della successione tra padri e figli è infatti la cerniera, la cerniera rugginosa, dell’avvicendamento generazionale, in altre parole lo snodo oscuro della storia. Ma la dialettica tra vecchi e giovani è più larga ed equivoca: al di là dell’anagrafe, chi sono i vecchi, e chi i giovani?

            L’opera, anticipata per una sua prima parte sulla «Rassegna contemporanea», uscì in volume da Treves nel 1913, dunque alla vigilia della Grande Guerra. Nel suo orizzonte, l’atto fondante è l’unificazione politica della nazione, ma la materia diretta e bruciante è oltre la soglia degli anni Novanta, tra il 1891 e il 1894, con la creazione dei Fasci siciliani dei Lavoratori e, in parallelo, lo scandalo della Banca Romana che colpisce esponenti della sinistra, e anzi la deriva nazionale di un Paese che rinnega gli ideali del Risorgimento. Lo scarto cronologico rispetto a quando Pirandello comincia a scrivere, a partire dal 1899, è dunque minimo, e la materia straripante, e di enorme interesse. La Sicilia protagonista, geograficamente in periferia ma al centro degli avvenimenti, laboratorio delle nuove tendenze, con un contraccolpo a Roma. Pirandello in questo senso si colloca accanto a De Roberto, dopo I Viceré e in anticipo rispetto all’imperio, quest’ultimo peraltro postumo e inconcluso.

            Parimenti, la testimonianza di un affresco a firma di Pirandello non può che essere imprescindibile, anche se il profilo culturale di questo scrittore nei tratti essenziali passa piuttosto per altre opere, anche narrative, e per l’avanguardia del suo teatro. 

            Per questa sua saga, l’autore si giova della sollecitazione della memoria parentale e personale, ma ha bisogno come non mai di ricorrere alla documentazione delle fonti, che difatti qua e là riaffiorano, col loro peso. Ha bisogno anche di una tavola di personaggi che già solo per la linea dei protagonisti dà vita a un vero e proprio albero genealogico. Naturalmente, per l’identificazione dei modelli esistono delle chiavi.

            All’origine, c’è un mito, a cui si risale attraverso il romanzo familiare dello scrittore stesso. È raccontato in un nucleo del libro, topograficamente il Camerone del Generale. Nella tenuta di Valsania una stanza della villa è inaccessibile e sigillata: uscio e finestre restano perennemente chiuse; all’ingresso, un leopardo imbalsamato, di vaga suggestione pregattopardesca. Le suppellettili e il mobilio sono decrepiti, ma lì si conservano le sacre reliquie: le gloriose medaglie, due d’argento e due di bronzo; e una lettera, dentro una cornice. La lettera è quella scritta dal principe generale Gerlando Lamentano, il capostipite illustre e inimitabile. Una lettera scritta dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone che ha mortificato le speranze degli esiliati e del grand’uomo; il quale ha visto perciò allontanarsi la prospettiva del ritorno in Sicilia e cadere le motivazioni stesse della sua vita. La lettera infatti è una lettera di suicidio, indirizzata agli amici e che si conclude così: «Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro…». Tra gli amici, in quanto giovani, è da supporre che siano da considerare anche i figli. Ed è un’altra dedica, simile a quella del romanzo.

            Ad entrare nel Camerone, «santuario della libertà» è Mauro Mortara, il custode di questo mondo di memorie, che la mostra eccezionalmente alla giovane Dianella Salvo, e al lettore. È un vecchio irriducibile e selvatico, che si accompagna con tre feroci mastini e racconta la storia del principe suicida e la sua: «venne la bufera», e cioè i moti rivoluzionari e la conseguente repressione, e quindi la fuga dalla Sicilia di notte, su un bastimento a vela. Era una notte di luna, sul mare per la prima volta, a trentatré anni come se ne avesse avuti cinque. Addirittura, Pirandello non esita a mettergli in bocca un addio lirico: «Addio, Sicilia; addio, Valsanìa; Girgenti che si vede da lontano, lassù, alta; addio, campane di San Gerlando, di cui nel silenzio della campagna m’arrivava il ronzio; addio, alberi che conoscevo a uno a uno…». Lo avete riconosciuto: è l’addio manzoniano, di Lucia. Insieme, è l’addio proprio della famiglia di Pirandello, in rotta verso Malta, per l’aspro esilio. Non a caso nell’elenco degli amici di La Valletta, a cui è rivolta la lettera-testamento, primo fra tutti, è citato un tale don Giovanni Ricci-Gramitto, poeta. E quello dei Ricci-Gramitto è appunto il ramo familiare della madre di Pirandello. A riscontro viene in mente un passo di una novella, Colloqui coi personaggi, che diviene significativamente un colloquio struggente con la madre.

            Insomma, Pirandello è coinvolto in primissima persona: qui è un valore sacro, una fiamma da tenere sempre accesa, e Mauro Mortara è questa vestale senza fascino, di cui si ricostruiscono forse prolissamente gli errabondaggi e i mestieri, che sono comunque funzionali a un esito: a riportarlo a guardia del Camerone. E in questa materializzazione di un simbolo si gioca in buona parte la partita narrativa dell’opera, generosa e dispendiosa come nessun’altra di questo scrittore.

            Dopo il commiato, più o meno eroico, di suicidio del patriarca, rimangono i figli, che ormai sono vecchi anche loro. Sono il primogenito don Ippolito Laurentano, che abita nella proprietà di Colimbetta, di faccia all’eden degli ulivi e dei templi greci. Un primogenito anche questo con tratti pregattopardeschi, il più bello della famiglia, carismatico, archeologo appassionato, aristocratico contro la storia e, in primo luogo, contro il padre. È così in sfida contro i suoi tempi che invoca la repressione cruenta di Filangieri e non teme il ridicolo di circondarsi di una milizia che indossa l’odiosa divisa borbonica, non per altro che per esigenze di cerimoniale. Fratello di don Ippolito è don Cosmo, il quale vive invece nella già menzionata Valsanìa, dove tutto è fatiscente e anacronistico, non solo il Camerone, che ne è il Sancta Sanctorum. Don Cosmo è un filosofo a suo modo, da molti ritenuto un «babbeo» per lo stile di vita, di più, per il suo distacco dalle passioni della vita. Si chiama non a caso Cosmo. Temo che non a caso si chiamino Mortara il vecchio guardiano e non a caso Valsanìa la località, questa volta per antifrasi. Infatti, precipitando gli eventi, vi verranno ad abitare don Flaminio Salvo, razza padrona delle zolfare e la moglie folle. E lì avverrà il dialogo convulso tra Dianella Salvo, la figlia impazzita, e il Mortara anche lui come pazzo, e certamente ossessivo. Né manca di contorno la casiera donna Sara Alaimo, uscita di testa, che urla periodicamente: «Pentitevi, diavolacci!». Altro che Valsanìa!

            Rimane un terzo figlio del principe generale, anzi una figlia, e l’unica virile: donna Caterina Auriti, memore dell’insegnamento paterno, sposa a un patriota, Stefano Auriti, partito insieme a Garibaldi da Quarto e morto a Milazzo, e così integerrima da rifiutare la sua quota di eredità, sino a sopportare una dignitosa miseria.

            La storia procede a scosse, per reazioni in gran parte misteriose. Nell’ultima generazione, la strada è aperta a Lando Laurentano, il figlio di don Ippolito e in polemica con lui. È un principe socialista e sventola la bandiera risorgimentale, come il nonno, di cui porta il nome.

            Lo scenario è quello di Girgenti e della Sicilia, di Roma e dell’Italia contemporanea. La rappresentazione che Pirandello dà della sua città è, reazione del troppo amore, assolutamente desolante: Girgenti è una città morta, la città dei corvi, cioè dei preti. La miseria, l’ignoranza, la superstizione vi regnano incontrastate. Ma tutta l’isola è fuori del tempo, afflitta da piaghe secolari e dimenticata. Pirandello condivide una dura polemica contro lo Stato centrale che, dopo tante promesse, ha mandato i suoi funzionari nel Sud unicamente a scopo di sfruttamento e rapina. Povera Sicilia, conquistata e oppressa! Occorre una riforma agraria, una revisione dei patti colonici, un aumento dei salari, una diminuzione delle tasse, una lotta contro l’usura, contro la politica della sopraffazione e dei brogli. Dalla notte del feudalesimo si è passati all’alba dell’unificazione, ma non è mai sorto il sole del rinnovamento sociale. Molti, gli anziani e la generazione di quanti hanno pagato in prima persona, come Caterina Auriti, devono confessare la verità scandalosa, ritornello di ogni cultura reazionaria: «Prima era meglio». L’epicentro dello scontento e della rivolta è sotto terra, nel cuore bollente dell’isola, nelle zolfare, dove si avviano i primi processi di trasformazione industriale, che Pirandello, per ragioni biografiche, conosce meglio di chiunque altro. Per questo, la Sicilia intera è come una immensa catasta di legna, pronta a prendere fuoco, basta gettarvi sopra un fiammifero. Nel romanzo si raccontano a ripetizione episodi di violenza collettiva; i fatti di Milocca con la sollevazione delle donne, il massacro di Caltavuturo, l’eccidio di Aragona e i tumulti di Favara, che concludono drammaticamente il libro.

            Ma lo sguardo di Pirandello è lucido sino ad essere impietoso. Si lamenta un’impreparazione alla lotta di classe, i sindacalisti sono primitivi e comunque graffiati e deformati dalla penna dello scrittore: Luca Lizio è balbuziente; il Pigna, denominato Propaganda, è un mentecatto che storpia Marx in Marchis; i contadini si accostano di soppiatto chiedendo: «È qua che si spartiscono le terre?» e subito si ritraggono spaventati. La rappresentazione dei membri del comitato locale, i reduci delle lotte antiborboniche, nel giorno delle elezioni del deputato di Girgenti al Parlamento, è concepita come una sorta di incontro grottesco in cui i velleitari partecipanti scorgono l’uno nel volto dell’altro i segni inesorabili del tempo trascorso. Il patriottismo del Quarantotto e del Sessanta è diventato ormai disfattismo.

            A Roma è peggio: qui è l’origine della cancrena. La seconda parte del romanzo trasporta il lettore nella capitale della nuova Italia. Per lo scrittore, c’è un personaggio storico che esercita una particolare attrazione emotiva: è il siciliano Francesco Crispi, quasi compaesano in quanto nativo di Ribera in provincia di Girgenti, primo politico meridionale a pervenire alla presidenza del Consiglio, adombrato ma riconoscibile nella figura del ministro Francesco D’Atri. È un vecchio piegato dall’età, col cranio quasi calvo e lucido, la barba malamente tinta che rivela le sue frustrazioni, accanto a una moglie troppo giovane e ambiziosa, donna Giannetta, che lo ridicolizza, non solo nella sfera privata, ma compromettendo anche la sua personalità di statista. Il disonore che colpisce questa figura è un segno estremo, in cima alla piramide sociale e politica, della sfiducia nei confronti delle istituzioni, nel crollo degli ideali, sostituiti dalla corsa alle prebende e dalla ricerca del profitto economico, culminante nella frode della Banca Romana. Il malgoverno e la corruzione dilagano, come una marea di fango, che copre ogni strato della società, al Nord, al Centro, al Sud; e investe la responsabilità tanto dei giovani quanto dei vecchi: «La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l’opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d’Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre sù, nel settentrione, s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l’inerzia, la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine!».

             Non c’è scampo. È il teatro pirandelliano della storia. La narrazione, lenta, predispone gli elementi della catastrofe, che alla fine arriva, nell’accumulazione degli eventi tragici: l’arresto di Roberto Auriti; il suicidio del deputato Corrado Selmi; il popolo degli scioperanti nelle miniere di Aragona, declassato a «orda dei selvaggi», che massacra l’ingegnere Aurelio Costa e l’avvenente Nicoletta Capolino; la follia di Dianella Salvo, innamorata in segreto.

             Se si volesse riassumere in una formula la lettura pirandelliana, questa potrebbe essere: la storia come pazzia. Il numero di pazzi, veri o presunti, che anima queste pagine è impressionante: la madre di Dianella e moglie di don Flaminio Salvo è la prima a comparire sulla scena, come un antefatto fatale; quindi tocca a Dianella, che manifesta una lunga predisposizione alla malattia. Lo stesso padre don Flaminio, proprietario rapace, espressione della nuova borghesia imprenditoriale, si sente circondato da pazzi e spera di poter diventare pazzo anche lui. Infatti, «la pazzia, purtroppo, è contagiosa…». Non basta. A Girgenti, adunati nel palazzo vescovile, i canonici sgomenti per le richieste dei rivoltosi e per la conseguente proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia esprimono le loro proteste, mentre monsignore non trova di meglio che esorcizzare gli autori di quei disordini con la deprecazione: «Ma sono pazzi! ma sono pazzi!». Intanto, mentre sono riuniti attorno al vescovo per ascoltare le notizie sulla fine del mondo o almeno del loro mondo, sul terrazzo della casa accanto ecco una visione surreale: un «povero matto», un vecchio che ride con gli occhi lustri di pianto, ed effettua esercizi di volo, avvolto in una coperta gialla, facendosi trasportare dalle folate di un vento furibondo. Il giallo della coperta e il nero dei tabarri dei preti-corvi. La metafora di questo vecchio demente e a suo modo ilare nel vento appare allusiva a una liberazione dalla storia e dalla gravità intollerabile dell’esistente, attraverso l’uscita di sicurezza della follia.

             Emerge un’esasperazione e, persino, un dato clinico, ben pirandelliano. Ma confermato lo specifico dello scrittore, questa sua impronta di autenticità e di destino, non ci si può esimere da una domanda fondamentale. L’affresco è vasto, sino a essere dispersivo. L’autore raccoglie materiali, in una quanto mai impegnata strategia, nella determinazione di costruire un affresco definitivo, in qualche modo epico. Ma l’epica si riduce alle proporzioni di una microcronaca troppo affollata, senza che Pirandello riesca a contemperare il suo personale pathos con quello dei suoi personaggi. La storia è una farsa e bisogna riderne. Al più, seguendo l’esempio di don Cosmo in «letargo filosofico», che ha capito il «demoniaccio beffardo» dentro il cuore dell’uomo e il «giuoco della storia», bisogna ritrarsi a distanza, assumendo una prospettiva inattuale, consapevoli dell’illusione universale e magari rimpiangendo di non riuscire più a illudersi. La storia è, sì, una farsa, come dovrebbe dimostrare, quasi didatticamente, l’episodio del giovane Lando e dei suoi compagni in fuga alla volta di Malta, in una tardiva replica, i quali durante una notte di tempesta si ricoverano a Colimbetra e indossano panni asciutti, conservati in una cassapanca da don Cosmo, maleodoranti di canfora: una tonaca da seminarista, una logora napoleona… È questo un travestimento dei rivoluzionari a malpartito, o non piuttosto la visualizzazione del trasformismo?

             La domanda, dunque, fondamentale è questa: chi sono i vecchi e chi sono i giovani? Occorre porsi questo interrogativo dal punto di vista di Pirandello, afflitto da una condizione di senilità precoce e tuttavia proteso artisticamente a soluzioni d’avanguardia. In realtà, la risposta manca o non è convincente. Si segua una traccia della costruzione romanzesca: il personaggio di Mauro Mortara, antropologicamente arcaico e disegnato con un’involontaria ritrattistica quasi da macchietta, entra in scena come una comparsa, circondato dai suoi mastini e dalla sua solitudine, e un poco alla volta e sempre più si chiarisce come un protagonista, e forse come il protagonista dell’intero libro. Custode del Camerone, con le medaglie venerate e il mito di un valore supremo incarnato nel suicida principe don Ippolito Laurentano, arriva a Roma in pellegrinaggio e, dopo una crisi terribile a causa del precipitare degli avvenimenti, si strappa dal petto le medaglie, le getta a terra e le calpesta: «Questa, … questa è l’Italia?». Sinché, ritornato in Sicilia alla sua tana come una belva ferita, alla fine, carico d’anni e di malanni com’è, decide di abbandonare il Camerone ormai profano per unirsi ai soldati d’Italia, armi in pugno, che vanno a reprimere una sommossa degli zolfatari e dei contadini a Favara, dove cade vittima in un episodio confuso, probabilmente stroncato dal fuoco amico della repressione crispina. Ma proprio la scelta confusa in zona di conclusioni pone in evidenza i limiti dell’ideologia di un romanzo di grandi potenzialità e tuttavia inceppato.

            È questo, era questo, il valore da salvaguardare? È Mauro Mortara l’eroe vecchio o antico che si immola a esempio degli altri, che tralignano? La negatività pirandelliana ha fatto il vuoto, attorno a questo ideale positivo e paradossalmente fondamentalista, sovradimensionato a «la più schietta incarnazione dell’antica anima isolana», che, con franchezza, in questi termini, trasmette un’eredità ben difficile da raccogliere.

I vecchi e i giovani – Indice
Introduzione
Parte I

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

Parte II

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

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