Legge Gaetano Marino.
«Il giorno appresso, da capo. Egli è là, nello stesso atteggiamento, coi gomiti sul davanzale e il bel capo biondo tra le mani; e la guarda, la guarda come il giorno avanti, con quella strana intensità nello sguardo»
Prime pubblicazioni: Il Campo, 5 febbraio 1905, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.
I tre pensieri della sbiobbina
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Bene, fino a nove anni: nata bene, cresciuta bene.
A nove anni, come se il destino avesse teso dall’ombra una manaccia invisibile e gliel’avesse imposta sul capo: – Fin qua! -, Clementina, tutt’a un tratto, aveva fatto il groppo. Là, a poco più d’un metro da terra.
I medici, eh! subito, con la loro scienza, avevano compreso che non sarebbe cresciuta più. Linfatico, cachessia, rachitide…
Bravi! Farlo intendere alle gambe, adesso, al busto di Clementina, che non si doveva più crescere! Busto e gambe, dacché, nascendo, ci s’erano messi, avevano voluto crescere per forza, senza sentir ragione. Non potendo per lungo, sotto l’orribile violenza di quella manaccia che schiacciava, s’erano ostinati a crescere di traverso: sbieche, le gambe; il busto, aggobbito, davanti e dietro. Pur di crescere…
Che non crescono forse così, del resto, anche certi alberelli, tutti a nodi e a sproni e a giunture storpie? Così. Con questa differenza però: che l’alberello, intanto, non ha occhi per vedersi, cuore per sentire, mente per pensare; e una povera sbiobbina, sì; che l’alberello storpio non è, che si sappia, deriso da quelli dritti, malvisto per paura del malocchio, sfuggito dagli uccellini; e una povera sbiobbina, sì, dagli uomini e sfuggita anche dai fanciulli; e che l’alberello infine non deve fare all’amore, perché fiorisce a maggio da sé, naturalmente, così tutto storpio com’è, e darà in autunno i suoi frutti; mentre una povera sbiobbina…
Là, via, era una cosa riuscita male, e che non si poteva rimediare in alcun modo. Chi scrive una lettera, se non gli vien bene, la strappa e la rifa da capo. Ma una vita? Non si può mica rifar da capo, a strapparla una volta, la vita.
E poi, Dio non vuole.
Quasi quasi verrebbe voglia di non crederci, in Dio, vedendo certe cose. Ma Clementina ci credeva. E ci credeva appunto perché si vedeva così. Quale altra spiegazione migliore di questa, di tutto quel gran male che, innocente, senz’alcuna sua colpa, le toccava soffrire per tutta, tutta la vita, che è una sola, e che lei doveva passar tutta, tutta così, come fosse una burla, uno scherzo, compatibile sì e no per un minuto solo e poi basta? Poi dritta, su, svelta, agile, alta, e via tutta quella oppressione… Ma che! Sempre così.
Dio, eh? Dio – era chiaro – aveva voluto così, per un suo fine segreto. Bisognava far finta di crederci, per carità; che altrimenti Clementina si sarebbe disperata. Spiegandoselo così, invece, lei poteva anche considerare come un bene tutto il suo gran male: un bene sommo e glorioso. Di là, s’intende. In cielo. Che bella angeletta sarà poi in cielo Clementina!
Ed ecco, ella sorride talvolta, camminando, alla gente che la guarda per istrada. Pare voglia dire: «Non mi deridete, via! perché, vedete? ne sorrido io per la prima. Sono fatta così; non mi son fatta da me; Dio l’ha voluto; e dunque non ve n’affliggete neppure, come non me n’affliggo io, perché, se l’ha voluto Dio, lo so sicuro che una ricompensa, poi, me la darà!».
Del resto, le gambe, tanto tanto non pajono, sotto la veste.
Dio solo sa quanto peni Clementina a farle andare, quelle gambe. E tuttavia sorride.
La pena è anche accresciuta dallo studio ch’ella pone a non barellare tanto,per non dar troppo nell’occhio alla gente. Passare inosservata non potrebbe. Sbiobbina è. Ma via, andando così, con una certa lestezza, e poi modesta, e poi sorridendo…
Qualcuno però, a quando a quando, si dimostra crudele: la osserva, magari col volto atteggiato di compassione, e le torna poco dopo davanti dall’altro lato, quasi volesse a tutti i costi rendersi conto di com’ella faccia con quelle gambe ad andare. Clementina, vedendo che col suo solito sorriso non riesce a disarmare quella curiosità spietata, arrossisce dalla stizza, abbassa il capo; talvolta, perdendo il dominio di sé, per poco non inciampa, non rotola giù per terra; e allora, arrabbiata, quasi quasi si tirerebbe su la veste e griderebbe a quel crudele:
«Eccoti qua: vedi? E ora lasciami fare la sbiobbina in pace».
In questo quartiere non è ancora conosciuta. Clementina ha cambiato casa da poche settimane. Dove stava prima, era conosciuta da tutti; e nessuno più la molestava. Sarà così, tra breve, anche qua. Ci vuol pazienza! Lei è molto contenta della nuova casa, che sorge in una piazzetta quieta e pulita. Lavora da mane a sera, con gentilezza e maestria, di scatolette e sacchettini per nozze e per nascite. La sorella (ha una sorella, Clementina, che si chiama Lauretta, minore di cinque anni: ma… diritta lei, eh altro! e svelta e tanto bella, bionda, florida) lavora da modista in una bottega; va ogni mattina, alle otto; rincasa la sera, alle sette. Fra loro, le due sorelle si son fatte da mamma a vicenda; Clementina, prima, a Lauretta; ora Lauretta, invece, a Clementina, quantunque minore d’età. Ma se questa, per la disgrazia, è rimasta come una ragazzina di dieci anni!… Lauretta ha acquistato invece tanta esperienza della vita! Se non ci fosse lei…
Spesso Clementina sta ad ascoltarla a bocca aperta.
Gesù, Gesù… che cose!
E capisce, ora, che con que’ due poveri piedi sbiechi non potrà mai entrare nel mondo misterioso, che Lauretta le lascia intravedere. Non ne prova invidia, però: sì un timor vago e come un intenerimento angoscioso, di pietà per sé. Lauretta, un giorno o l’altro, si lancerà in quel mondo fatto per lei; e come resterà, allora, la povera Clementina? Ma Lauretta l’ha rassicurata, le ha giurato che non l’abbandonerà mai, anche se le avverrà di prender marito.
E Clementina ora pensa a questo futuro marito di Lauretta. Chi sarà? Come si conosceranno? Per via, forse. Egli la guarderà, la seguirà; poi, qualche sera la fermerà. E che si diranno? Ah come dev’esser buffo, fare all’amore.
Con gli occhi invagati, seduta innanzi al tavolino presso la finestra, Clementina, così fantasticando, non sa risolversi a metter mano al lavoro apparecchiato sul piano del tavolino. Guarda fuori… Che guarda?
C’è un giovine, un bel giovine biondo, coi capelli lunghi e la barbetta alla nazarena, seduto a una finestra della casa dirimpetto, coi gomiti appoggiati sul davanzale e la testa tra le mani.
Possibile? Gli occhi di quel giovine sono fissi su lei, con una intensità strana. Pallido… Dio, com’è pallido! dev’esser malato. Clementina lo vede adesso per la prima volta, a quella finestra. Ed ecco, egli seguita a guardare… Clementina si turba; poi sospira e si rinfranca. Il primo pensiero che le viene in mente è questo:
«Non guarda me!».
Se Lauretta fosse in casa, lei penserebbe che quel giovine… Ma Lauretta non è mai in casa, di giorno. Forse alla finestra del quartierino accanto sarà affacciata qualche bella ragazza, con cui quel giovine fa all’amore. Ma si direbbe proprio ch’egli guarda qua, ch’egli guarda lei. Con quegli occhi? Via, impossibile! Oh, che! Ha fatto un cenno, quel giovine, con la mano: come un saluto! A lei? No, no! Ci sarà senza dubbio qualcuna affacciata.
E Clementina si fa alla finestra, monta su lo sgabelletto che sta lì apposta per lei, e – senza parere – guarda alla finestra accanto e poi all’altra appresso… guarda giù, alla finestra del piano di sotto, poi a quella del piano di sopra…
Non c’è nessuno!
Timidamente, volge di sfuggita uno sguardo al giovine, ed ecco… un altro cenno di saluto, a lei, proprio a lei… ah, questa volta non c’è più dubbio!
Clementina scappa dalla finestra, scappa dalla stanza, col cuore in tumulto. Che sciocca! Ma è uno sbaglio, certamente… Quel giovine là dev’esser miope. Chi sa per chi l’avrà scambiata… Forse per Lauretta? Ma sì! Forse avrà seguito Lauretta per via; avrà saputo che lei abita qua, dirimpetto a lui… Ma, altro che miope, allora! Dev’esser cieco addirittura… Eppure, non porta occhiali. Sì, Clementina non è brutta, di faccia: somiglia veramente un po’ alla sorella; ma il corpo! Forse, chi sa! vedendola seduta, lì davanti al tavolino, col cuscino sotto, egli avrà potuto avere, così da lontano, l’illusione di veder Lauretta al lavoro.
Quella sera stessa ne domanda alla sorella. Ma questa casca dalle nuvole.
– Che giovine?
– Sta lì, dirimpetto. Non te ne sei accorta?
– Io, no. Chi è?
Clementina glielo descrive minutamente; e Lauretta allora le dichiara di non saperne nulla, di non averlo mai incontrato, mai veduto, né da vicino né da lontano.
Il giorno appresso, da capo. Egli è là, nello stesso atteggiamento, coi gomiti sul davanzale e il bel capo biondo tra le mani; e la guarda, la guarda come il giorno avanti, con quella strana intensità nello sguardo.
Clementina non può sospettare che quel giovine, il quale appare tanto, tanto triste, si voglia pigliare il gusto di beffarsi di lei. A che scopo? Ella è una povera disgraziata, che non potrebbe mai e poi mai prender sul serio la beffa crudele, abboccare all’amo, lasciarsi lusingare… E dunque? Oh, ecco: egli ripete il cenno di jeri, la saluta con la mano, china il capo più volte, come per dire: – «A te sì a te» – e si nasconde il volto con le mani, dolorosamente.
Clementina non può più rimanere lì, presso la finestra; scende dalla sedia, tutta in sussulto, e come una bestiolina insidiata va a spiare dalla finestra della camera accanto, dietro le tendine abbassate. Egli si è tratto dal davanzale; non guarda più fuori; sta ora in un atteggiamento sospeso e accorato; ed ecco, si volta di tratto in tratto a guardare verso la finestra di lei, per vedere se ella vi sia ritornata. La aspetta!
Che deve supporre Clementina? Le viene in mente quest’altro pensiero:
«Non vedrà bene come sono fatta».
E, per essere lasciata in pace, povera sbiobbina, immagina d’un tratto questo espediente: accosta il tavolino alla finestra, prende uno strofinaccio e poi, con l’ajuto d’una seggiola, monta a gran fatica sul tavolino, là, in piedi, come per pulire con quello strofinaccio i vetri della finestra. Così egli la vedrà bene!
Ma per poco Clementina non precipita giù in istrada, nell’accorgersi che quel giovine, vedendola lì, s’è levato in piedi e gesticola furiosamente, spaventato, e le accenna di smontare, giù di lì, giù di lì, per carità: incrocia le mani sul petto, si prende il capo tra le mani e grida, ora, grida!
Clementina scende dal tavolino quanto più presto può, sgomenta, anzi atterrita; lo guarda, tutta tremante, con gli occhi sbarrati; egli le tende le braccia, le invia baci; e allora:
«È matto…» pensa Clementina, stringendosi, storcendosi le mani. «Oh Dio, è matto! è matto!»
Difatti, la sera, Lauretta glielo conferma.
Messa in curiosità dalle domande di Clementina, ella ha domandato notizie di quel giovine, e le hanno detto ch’egli è impazzito da circa un anno per la morte della fidanzata che abitava lì, dove abitano loro, Lauretta e Clementina.
A quella fidanzata, prima che morisse, avevan dovuto amputare una gamba e poi l’altra, per un sarcoma che s’era rinnovato.
Ah, ecco perché! Clementina, ascoltando questo racconto della sorella, sente riempirsi gli occhi di lagrime. Per quel giovine o per sé? Sorride poi pallidamente e dice con tremula voce a Lauretta:
– Me l’ero figurato, sai? Guardava me…
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