194. I piedi sull’erba – Novella

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Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 20 aprile 1934, poi in Berecche e la guerra, Mondadori, Milano 1934.
«Perché vecchio, non può più provare il gusto che provano i bambini a denudarsi i piedi sull’erba? Si pensa subito al male, perché è vecchio? Eh lo sa che, da bambino, lui d’un balzo può diventare anche uomo…»

Novella dalla Raccolta “Berecche e la guerra” (1934)

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I piedi sull'erba
Immagine dal Web

I piedi sull’erba – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
I piedi sull’erba – Audio lettura 2 – Legge 
Gaetano Marino
I piedi sull’erba – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
I piedi sull’erba – Audio lettura 4 – Legge
Lorenzo Pieri

06. I piedi sull’erba – 1934

             Sono andati a svegliarlo sulla poltrona nella stanza di là, se voleva vederla un’ultima volta prima che il coperchio fosse saldato sulla cassa.

             – Ma è bujo? Com’è?

             No: le nove e mezzo del mattino. Ma oggi è spuntato così: ci si vede appena. Il trasporto è fissato per le dieci.

             Guarda come un ebete. Gli pare impossibile che abbia dormito, e tanto, tutta la notte, così bene. Ancora insordito dal sonno; insordita dentro di lui la disperazione di quegli ultimi giorni; quelle facce insolite di vicini attorno alla poltrona in quel barlume di giorno; vorrebbe alzar le mani per difendersene; ma il sonno gli è colato e gli s’è fuso nel corpo come piombo; benché già alle dita dei piedi gli sia arrivata, chi sa come, una velleità di levarsi che subito cede. Deve mostrarsi ancora disperato? Gli viene di dire: – Per sempre… –, ma lo dice come uno che si ricomponga sotto le coperte per rimettersi a dormire. Tanto che gli altri si guardano negli occhi senza comprendere. Che, per sempre?

             Che il giorno sia spuntato così. Vorrebbe dir questo; ma non ha senso. Il giorno dopo la morte, il giorno del funerale, così per sempre nella memoria, con quel barlume che appena ci si vede; e questo suo sonno; mentre di là, nella stanza della morta, forse le finestre…

             – Le finestre?

             Sì, chiuse. Forse sono rimaste chiuse. C’è ancora il lume caldo, immobile, dei grossi ceri sgocciolanti; il letto portato via; la morta a terra nella cassa, dura e illividita tra quell’imbottitura di raso crema.

             No, basta: l’ha veduta.

             E richiude le palpebre sugli occhi che gli bruciano dal tanto piangere dei giorni scorsi. Basta. Ora ha dormito, e con questo sonno è finito tutto, smaltito, sepolto tutto. Ora, restare in questo rilascio di nervi, in questo senso di vuoto dolente e beato. Chiudere, chiudere la cassa, e via con essa tutta la sua vita passata.

             Ma se è ancora di là…

             Scatta in piedi; vacilla; lo sorreggono; e, con gli occhi chiusi, si lascia trasportare fino alla cassa; là li apre e subito, alla vista, grida il nome della morta, il nome vivo, com’egli solo in quel nome la può vedere e sentire viva, tutta, in tutti gli aspetti e gli atti della vita, come fu per lui. Guarda con feroce rancore gli astanti che non possono saperne nulla e stanno a vederla lì morta, com’è, e potrebbero almeno immaginare che cosa significhi per lui restarne privo. Vorrebbe gridarlo; ma ecco che il figlio accorre a strapparlo dalla cassa, con una furia di cui egli subito sottintende il senso. Un senso che lo fa gelare, come se si vedesse scoperto. Vergogna, ancora codeste velleità fino all’ultimo, e dopo che se n’è stato a dormire tutta la notte. Ora si deve far presto, per non far più oltre aspettare gli amici invitati ad accompagnare in chiesa la salma.

             – Va’, va’ di là; sii ragionevole, papà!

             Con gli occhi cattivi e pur pietosi, da povero, se ne torna di là alla sua poltrona.

             Ragionevole, eh già; inutile gridare ciò che sorge dalle viscere e non trova senso nelle parole che si gridano; tante volte neppure negli atti che si fanno. Per un marito che resta vedovo a una certa età, quando ancora s’ha pur bisogno della moglie, la perdita è forse uguale a quella d’un figlio per cui è anzi una provvidenza restare orfano? Provvidenza, sì, provvidenza, in procinto com’è di sposare, appena trascorsi i tre mesi di lutto stretto, con la scusa che ora per tutti e due c’è bisogno d’una donna che subentri al governo della casa.

             – Pardi! Pardi! – chiamano forte nella saletta d’ingresso.

             E si sente gelare vieppiù, avvertendo ben distintamente per la prima volta che non chiamano più lui, con quel cognome che è il suo, ma il figlio; e che quel cognome resta vivo, ora, per il figlio e non più per lui. E lui, invece, sciocco, è andato a gridar vivo di là il nome della mamma, come una profanazione, vergogna! Sì sì, velleità! inutile, lo riconosce lui stesso, dopo quel gran sonno che l’ha liberato di tutto. Ora, veramente, la cosa più viva in lui è la curiosità di vedere come sarà la sua casa; come gliela trasformeranno; dove lo faranno dormire. Il letto grande, a due, intanto, portato via. Forse in un lettino? Già. In quello del figlio. Il lettino, ora, per lui. E il figlio, domani, nel letto grande, da trovarsi accanto la moglie, sporgendo il braccio. Lui, dal lettino, il braccio lo sporgerà nel vuoto.

             E tutto indolenzito e con una gran confusione nel capo e la sensazione già di quel vuoto, dentro e fuori di lui. L’indolenzimento del corpo proviene dallo star seduto da così lungo tempo; se fa tanto d’alzarsi, è sicuro che in tutto quel vuoto ormai si solleverebbe leggero come una piuma; non ha più nulla dentro di sé, ridotta a niente la sua vita. Poca differenza tra lui e quella seggiola là. Anzi quella seggiola può anche parer soddisfatta sulle sue quattro gambe; mentre lui, i suoi piedi, non sa più dove posarli, né che farsi delle sue mani. A chi importa più la sua vita? Ah, ma nemmeno a lui quella degli altri. Eppure, la sua vita, dato che gli è rimasta, deve seguitare. Ricominciare. Una vita a cui non può ancora pensare; a cui certo non avrebbe mai più pensato, se gli fossero rimaste le condizioni in cui già s’era chiusa. Ora, buttato fuori così, tutt’a un tratto; non ancora vecchio e non più giovane…

             Sorride e scrolla le spalle. Per suo figlio, tutt’a un tratto, è diventato come un bambino. Ma dopo tutto si sa che avviene quasi sempre così, i padri che diventano figli dei proprii figli cresciuti, che han preso mondo e si son fatti più avanti del padre, una posizione più importante che permette loro di tenere il padre in riposo, per ricompensarlo di quanto ne ebbero da piccoli, ora ch’egli a sua volta è   divenuto di nuovo come piccolo.

             Il lettino…

             Non gli hanno assegnato nemmeno la cameretta in cui prima dormiva il figlio; ma un’altra, quasi nascosta, sul cortile, con la scusa che là sarebbe più appartato e libero di fare il comodo suo, col meglio dei suoi mobili, disposti in modo che a nessuno potrebbe venire in mente che quella sia la cameretta dov’egli prima teneva la serva. Nelle stanze poste sul davanti sono entrati mobili nuovi, pretenziosi, e nuovi arredamenti, perfino lusso di tappeti. Non c’è ormai più traccia delle sue vecchie abitudini nella casa così tutta rinnovata; e anche i mobili vecchi, i suoi, nelle stanzette oscure dove sono stati relegati, così come ora li hanno disposti, pare che non sappiano come intendersi tra loro. Eppure – strano! del disprezzo in cui con essi si vede caduto, non riesce ad aversi a male; non solo perché, ammirando le stanze rimesse a nuovo, prova pure una bella soddisfazione per il figlio; ma anche in fondo per un altro sentimento che non gli è ancora ben chiaro, di un’altra vita che, con la prepotenza degli aspetti nuovi, così tutta lustra e colorita, ha cancellato perfino il ricordo della vecchia. Un che di nuovo che può anche rinascere in lui, di nascosto. Senza farsene accorgere, lo intravede come dallo spiraglio luminoso e sconfinato d’una porta che gli si sia aperta alle spalle, donde potrebbe sparire, cogliendo un’occasione ormai facile, visto che nessuno più si cura di lui, lasciato come in vacanza nell’ombra delle stanzette di là «per fare il comodo suo». Si sente più che mai leggero. E gli è venuta negli occhi una luce che, ricolorandogli tutto, lo fa passare di maraviglia in maraviglia, veramente come se fosse ridivenuto bambino. Gli occhi, come li aveva da piccolo. Vispi. Aperti su un mondo che gli par tutto nuovo.

             Ha preso a uscir di mattina, proprio per iniziar le vacanze che dureranno ormai tutto il tempo che gli durerà ancora la vita. Spogliato di tutte le cure, s’è accordato col figlio su quanto lascerà ogni mese della pensione per il suo mantenimento; poco; vorrebbe lasciar tutto per essere più leggero e non aver tentazioni: non ha bisogno di nulla; ma il figlio dice, non si sa mai, qualche desiderio; no, e di che? gli basta ormai soltanto vedere così da fuori la vita.

             Scrollato d’addosso il peso di tutte le esperienze, coi vecchi non sa più farsela; li sfugge; coi giovani, non può, perché lo considerano vecchio; se ne va alla villa, dove ci sono i bambini.

             Ricominciare la vita così, coi bambini, sull’erba dei prati. Dov’è più alta, e così folta e fresca che stordisce con l’ebbrezza del suo odore, i bambini vanno a nascondersi; vi spariscono. Lo scroscio perenne di un’acqua che scorre coperta non fa avvertire il fruscio delle foglie smosse. Ma presto i bambini si dimenticano del loro gioco; si denudano i piedini; eccone là uno, roseo, in mezzo a tutto quel verde. Chi sa che delizia immergere i piedi nel fresco di quell’erba nuova! Si prova a liberare un piede anche lui, di nascosto; sta per slacciare la scarpa dell’altro, allorché gli sorge davanti tutt’accesa in volto e con gli occhi fulminanti una giovinetta che gli grida: – Vecchio porco! – riparandosi subito con le mani le gambe, poiché egli la guarda da sotto in su e i cespugli le hanno un po’ sollevato il vestitino davanti.

             Resta come basito. No! Che ha creduto? E scomparsa. Lui voleva prendersi un piacere innocente. Si copre con tutt’e due le mani il piede nudo, indurito. Che ci ha visto di male? Perché vecchio, non può più provare il gusto che provano i bambini a denudarsi i piedi sull’erba? Si pensa subito al male, perché è vecchio? Eh lo sa che, da bambino, lui d’un balzo può diventare anche uomo; è ancora uomo, uomo; ma non ci vuol più pensare; non ci pensava; era proprio come un bambino nell’atto di togliersi le scarpe. Ah che infamia, ingiuriarlo così! Vigliacca! E si butta con la faccia a terra sull’erba. Tutto il suo lutto, e la sua perdita, e che non ha più nessuno, e che perciò ha potuto ridursi a far quel gesto interpretato come di sudicia malizia; tutto gli rivien su come un rigurgito amaro. Stupida! Se lo volesse fare, gliel’ammette anche il figlio «qualche desiderio»: ha in tasca il denaro per questo.

             Stravolto dallo sdegno, si tira su. Con le mani che gli ballano, si rimette vergognoso la calza, la scarpa; il sangue gli è tutto montato alla testa e gli occhi gli sbattono truci. Lo sa dove andare per questo, lo sa.

             Ma poi, per via, si placa e se ne torna a casa. Tra quella confusione di mobili, che par fatta apposta perché gli dia di volta il cervello, va a buttarsi sul letto, con la faccia al muro.

Raccolta Berecche e la guerra
01 – Berecche e la guerra – 1915
02 – Uno di più – 1931
03 – Soffio – 1931
04 – Un’idea – 1934
05 – Lucilla (Ora che s’è guastata con le monache) – 1932
06 – I piedi sull’erba – 1934
07 – Cinci – 1932
08 – Di sera, un geranio – 1934

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««« Elenco delle raccolte

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