Legge Giuseppe Tizza.
«Credo sia questa una delle più tristi impressioni, forse la più triste, che avvenga di provare a chi ritorni dopo molti anni nel paese natale: vedere i proprii ricordi cader nel vuoto, venir meno a uno a uno, svanire…»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 22 gennaio 1912, poi in La trappola, Treves 1915
I nostri ricordi
Voce di Giuseppe Tizza
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Questa, la via? questa, la casa? questo, il giardino?
Oh vanità dei ricordi !
Mi accorgevo bene, visitando dopo lunghi e lunghi anni il paesello ov’ero nato, dove avevo passato l’infanzia e la prima giovinezza, ch’esso, pur non essendo in nulla mutato, non era affatto quale era rimasto in me, ne’ miei ricordi.
Per sé, dunque, il mio paesello non aveva quella vita, di cui io per tanto tempo avevo creduto di vivere; quella vita che per tanto altro tempo aveva nella mia immaginazione seguitato a svolgersi in esso, ugualmente, senza di me; e i luoghi e le cose non avevano quegli aspetti che io con tanta dolcezza di affetto avevo ritenuto e custodito nella memoria.
Non era mai stata, quella vita, se non in me. Ed ecco, al cospetto delle cose non mutate ma diverse perché io ero diverso – quella vita mi appariva irreale, come di sogno: una mia illusione, una mia finzione d’allora.
E vani, perciò, tutti i miei ricordi.
Credo sia questa una delle più tristi impressioni, forse la più triste, che avvenga di provare a chi ritorni dopo molti anni nel paese natale: vedere i proprii ricordi cader nel vuoto, venir meno a uno a uno, svanire: i ricordi che cercano di rifarsi vita e non si ritrovano più nei luoghi, perché il sentimento cangiato non riesce più a dare a quei luoghi la realtà ch’essi avevano prima, non per se stessi, ma per lui.
E provai, avvicinandomi a questo e a quello degli antichi compagni d’infanzia e di giovinezza, una segreta, indefinibile ambascia.
Se, al cospetto d’una realtà così diversa, mi si scopriva illusione la mia vita d’allora, que’ miei antichi compagni – vissuti sempre fuori e ignari della mia illusione – com’erano? chi erano?
Ritornavo a loro da un mondo che non era mai esistito, se non nella mia vana memoria; e, facendo qualche timido accenno a quelli che per me eran ricordi lontani, avevo paura di sentirmi rispondere:
«Ma dove mai? ma quando mai?».
Perché, se pure a quei miei antichi compagni, come a tutti, l’infanzia si rappresentava con la soave poesia della lontananza, questa poesia certamente non aveva potuto mai prendere nell’anima loro quella consistenza che aveva preso nella mia, avendo essi di continuo sotto gli occhi il paragone della realtà misera angusta, monotona, non diversa per loro, come diversa appariva a me adesso.
Domandai notizia di tanti e, con maraviglia ch’era a un tempo angoscia e dispetto, vidi, a qualche nome, certi visi oscurarsi, altri atteggiarsi di stupore o di disgusto o di compassione. E in tutti era quella pena quasi sospesa, che si prova alla vista di uno che, pur con gli occhi aperti e chiari, vada nella luce a tentoni: cieco.
Mi sentivo raggelare dall’impressione che quelli ricevevano nel vedermi chieder notizia di certuni che, o erano spariti, o non meritavano più che uno come me se ne interessasse.
Uno come me!
Non vedevano, non potevano vedere ch’io movevo quelle domande da un tempo remoto, e che coloro di cui chiedevo notizia erano ancora i miei compagni d’allora.
Vedevano me, qual ero adesso; e ciascuno di certo mi vedeva a suo modo; e sapevan degli altri – loro sì, sapevano – come s’eran ridotti! Qualcuno era morto, poco dopo il mio allontanamento dal paese, e quasi non si serbava più memoria di lui; ora, immagine sbiadita, attraversava il tempo che per lui non era stato più, ma non riusciva a rifarsi vivo nemmeno per un istante e rimaneva pallida ombra di quel mio sogno lontano; qualche altro era andato a finir male, prestava umili servizi per campar la vita e dava del lei rispettosamente a coloro coi quali da fanciullo e da giovanetto trattava da pari a pari; qualche altro era stato anche in prigione, per furto; e uno, Costantino, eccolo lì: guardia di città: pezzo d’impertinente, che si divertiva a sorprendere in contravvenzione tutti gli antichi compagni di scuola.
Ma una più viva maraviglia provai nel ritrovarmi d’improvviso intimo amico di tanti che avrei potuto giurare di non aver mai conosciuto, o di aver conosciuto appena, o di cui anzi mi durava qualche ingrato ricordo o d’istintiva antipatia o di sciocca rivalità infantile.
E il mio più intimo amico, a detta di tutti, era un certo dottor Palumba, mai sentito nominare, il quale, poveretto, sarebbe venuto certamente ad accogliermi alla stazione, se da tre giorni appena non avesse perduto la moglie. Pure sprofondato nel cordoglio della sciagura recentissima, però, il dottor Palumba agli amici, andati a fargli le condoglianze, aveva chiesto con ansia di me, se ero arrivato, se stavo bene, dov’ero alloggiato, per quanto tempo intendevo di trattenermi in paese.
Tutti, con commovente unanimità, mi informarono che non passava giorno, che quel dottor Palumba non parlasse di me a lungo, raccontando con particolari inesauribili, non solo i giuochi della mia infanzia, le birichinate di scolaretto, e poi le prime, ingenue avventure giovanili; ma anche tutto ciò che avevo fatto da che m’ero allontanato dal paese, avendo egli sempre chiesto notizie di me a quanti fossero in caso di dargliene. E mi dissero che tanto affetto, una così ardente simpatia dimostrava per me in tutti quei racconti, che io, pur provando per qualcuno di essi che mi fu riferito un certo imbarazzo e anche un certo sdegno e avvilimento, perché, o non riuscivo a riconoscermi in esso o mi vedevo rappresentato in una maniera che più sciocca e ridicola non si sarebbe potuta immaginare, non ebbi il coraggio d’insorgere e di protestare:
«Ma dove mai? ma quando mai? Chi è questo Palumba? Io non l’ho sentito mai nominare!».
Ero sicuro che, se così avessi detto, si sarebbero tutti allontanati da me con paura, correndo ad annunziare ai quattro venti:
«Sapete? Carlino Bersi è impazzito! Dice di non conoscere Palumba, di non averlo mai conosciuto!».
O forse avrebbero pensato, che per quel po’ di gloriola, che qualche mio quadretto mi ha procacciata, io ora mi vergognassi della tenera, devota, costante amicizia di quell’umile e caro dottor Palumba.
Zitto, dunque. No, che zitto! M’affrettai a dimostrare anch’io una vivissima premura di conoscere intanto la recente disgrazia di quel mio povero intimo amico.
– Oh, caro Palumba! Ma guarda… Quanto me ne dispiace! La moglie, povero Palumba? E quanti figliuoli gli ha lasciati?
Tre? Eh già, sì, dovevano esser tre. E piccini tutti e tre, sicuro, perché aveva sposato da poco… Meno male, però, che aveva in casa una sorella nubile… Già già… sì sì… come no? me ne ricordavo benissimo! Gli aveva fatto da madre, quella sorella nubile: oh, tanto buona, tanto buona anche lei… Carmela? No. An… Angelica? Ma guarda un po’, che smemorato! An… tonia, già, Antonia, Antonia, ecco: adesso mi ricordavo benissimo! E c’era da scommettere che anche lei, Antonia, non passava giorno che non parlasse di me, a lungo. Eh sì, proprio; e non solo di me, ma anche della maggiore delle mie sorelle, parlava, della quale era stata compagna di scuola fino al primo corso normale.
Perdio! Quest’ultima notizia m’afferrò, dirò così, per le braccia e m’inchiodò lì a considerare, che infine qualcosa di vero doveva esserci nella sviscerata amicizia di questo Palumba per me. Non era più lui solo; c’era anche Antonia adesso, che si diceva amica d’una delle mie sorelle! E costei affermava d’avermi veduto tante volte, piccino, in casa mia, quando veniva a trovare quella mia sorella.
«Ma è mai possibile», smaniavo tra me e me, con crescente orgasmo, «è mai possibile, che di questo Palumba soltanto io non abbia serbato alcun ricordo, la più lieve traccia nella memoria?»
Luoghi, cose e persone – sì – tutto era divenuto per me diverso; ma infine un dato, un punto, un fondamento sia pur minimo di realtà, o meglio, di quella che per me era realtà allora, le mie illusioni lo avevano; poggiava su qualche cosa la mia finzione. Avevo potuto riconoscer vani i miei ricordi, in quanto gli aspetti delle cose mi si eran presentati diversi dal mio immaginare, eppur non mutati; ma le cose erano! Dove e quando era mai stato per me questo Palumba?
Ero insomma come quell’ubriaco che, nel restituire in un canto deserto la gozzoviglia di tutta la giornata, vedendosi d’improvviso un cane sotto gli occhi, assalito da un dubbio atroce, si domandava:
– Questo l’ho mangiato qui; quest’altro l’ho mangiato lì; ma questo diavolo di cane dove l’ho mai mangiato?
– Bisogna assolutamente, – dissi a me stesso, – ch’io vada a vederlo, e che gli parli. Io non posso dubitare di lui: egli è – qua – per tutti – di fatto – l’amico più intimo di Carlino Bersi. Io dubito di me – Carlino Bersi – finché non lo vedo. Che si scherza? c’è tutta una parte della mia vita, che vive in un altro, e della quale non è in me la minima traccia. E mai possibile ch’io viva così in un altro a me del tutto ignoto, senza che ne sappia nulla? Oh via! via! Non è possibile, no! Questo cane io non l’ho mangiato; questo dottor Palumba dev’essere un fanfarone, uno dei soliti cianciatori delle farmacie rurali, che si fanno belli dell’amicizia di chiunque fuori del cerchio del paesello nativo sia riuscito a farsi, comunque, un po’ di nome, anche di ladro emerito. Ebbene, se è così, ora lo accomodo io. Egli prova gusto a rappresentarmi a tutti come il più sciocco burlone di questo mondo? Vado a presentarmigli sotto un finto nome; gli dico che sono il signor… il signor Buffardelli, ecco, amico e compagno d’arte e di studio a Roma di Carlino Bersi, venuto con lui in Sicilia per un’escursione artistica; gli dico che Carlino è dovuto ritornare a rotta di collo a Palermo per rintracciare alla dogana i nostri bagagli con tutti gli attrezzi di pittura, che avrebbero dovuto arrivare con noi; e che intanto, avendo saputo della disgrazia capitata al suo dilettissimo amico dottor Palumba, ha mandato subito me, Filippo Buffardelli, a far le condoglianze. Mi presenterò anzi con un biglietto di Carlino. Sono sicuro, sicurissimo, che egli abboccherà all’amo. Ma, dato e non concesso ch’egli veramente mi abbia una volta conosciuto e ora mi riconosca; ebbene: non sono per lui un gran burlone? Gli dirò che ho voluto fargli questa burla.
Molti degli antichi compagni, quasi tutti, avevano stentato in prima a riconoscermi. E difatti, sì, m’accorgevo io stesso d’esser molto cambiato, così grasso e barbuto, adesso, e senza più capelli, ahimè!
Mi feci indicare la casa del dottor Palumba, e andai.
Ah, che sollievo!
In un salottino fiorito di tutte le eleganze provinciali mi vidi venire innanzi uno spilungone biondastro, in papalina e pantofole ricamate, col mento inchiodato sul petto e le labbra stirate per aguzzar gli occhi a guardare di sui cerchi degli occhiali. Mi sentii subito riavere.
No, niente, neppure un briciolo di me, della mia vita, poteva essere in quell’uomo.
Non lo avevo mai veduto, di sicuro, né egli aveva mai veduto me.
– Buff… com’ha detto, scusi?
– Buffardelli, a servirla. Ecco qua: ho un biglietto per lei di Carlino Bersi.
– Ah, Carlino! Carlino mio! – proruppe giubilante il dottor Palumba, stringendo e accostando alle labbra quel biglietto, quasi per baciarlo. – E come non è venuto? dov’è? dov’è andato? Se sapesse come ardo di rivederlo! Che consolazione sarebbe per me una sua visita in questo momento! Ma verrà… Ecco, sì… mi promette che verrà… caro! caro! Ma che gli è accaduto?
Gli dissi dei bagagli andati a rintracciare alla dogana di Palermo. Perduti, forse? Quanto se n’afflisse quel caro uomo! C’era forse qualche dipinto di Carlino?
E cominciò a imprecare all’infame servizio ferroviario; poi a domandarmi se ero amico di Carlino da molto tempo, se stavamo insieme anche di casa, a Roma…
Era maraviglioso! Mi guardava fisso fisso, e con gli occhiali, facendomi quelle domande, ma non aveva negli occhi se non l’ansia di scoprirmi nel volto se fosse sincera come la sua la mia amicizia e pari al suo il mio affetto per Carlino.
Risposi alla meglio, compreso com’ero e commosso da quella maraviglia; poi lo spinsi a parlare di me.
Oh, bastò la spinterella, lieve lieve, d’una parola: un torrente m’investì d’aneddoti stravaganti, di Carlino bimbo, che stava in via San Pietro e tirava dal balcone frecce di carta sul nicchio del padre beneficiale; di Carlino ragazzo, che faceva la guerra contro i rivali di piazza San Francesco; di Carlino a scuola e di Carlino in vacanza; di Carlino, quando gli tirarono in faccia un torso di cavolo e per miracolo non lo accecarono; di Carlino commediante e marionettista e cavallerizzo e lottatore e avvocato e bersagliere e brigante e cacciatore di serpi e pescatore di ranocchie; e di Carlino, quando cadde da un terrazzo su un pagliajo e sarebbe morto se un enorme aquilone non gli avesse fatto da paracadute, e di Carlino…
Io stavo ad ascoltarlo, sbalordito; no, che dico sbalordito? quasi atterrito.
C’era, sì, c’era qualcosa, in tutti quei racconti, che forse somigliava lontanamente ai miei ricordi. Erano forse, quei racconti, ricamati su lo stesso canovaccio de’ miei ricordi, ma con radi puntacci sgarbati e sbilenchi. Potevano essere, insomma, quei racconti, press’a poco i miei stessi ricordi, vani allo stesso modo e inconsistenti, e per di più spogliati d’ogni poesia, immiseriti, resi sciocchi, come rattrappiti e adattati al misero aspetto delle cose, all’affliggente angustia dei luoghi.
E come e donde eran potuti venire a quell’uomo, che mi stava di fronte; che mi guardava e non mi riconosceva; che io guardavo e… ma sì! Forse fu per un guizzo di luce che gli scorsi negli occhi, o forse per un’inflessione di voce… non so! Fu un lampo. Sprofondai lo sguardo nella lontananza del tempo e a poco a poco ne ritornai con un sospiro e un nome:
– Lo verde…
Il dottor Palumba s’interruppe, stordito.
– Loverde… sì, – disse. – Io mi chiamavo prima Loverde. Ma fui adottato, a sedici anni, dal dottor Cesare Palumba, capitano medico, che… Ma lei, scusi, come lo sa?
Non seppi contenermi:
– Loverde… eh, sì… ora ricordo! In terza elementare, sì!… Ma… conosciuto appena…
– Lei, come? Lei mi ha conosciuto?
– Ma sì… aspetta… Loverde, il nome?
– Carlo…
– Ah, Carlo… dunque, come me… Ebbene, non mi riconosci proprio? Sono io, non mi vedi? Carlino Bersi!
Il povero dottor Palumba restò come fulminato. Levò le mani alla testa, mentre il viso gli si scomponeva tra guizzi nervosi, quasi pinzato da spilli invisibili.
– Lei?… tu?… Carlino… lei? tu?… Ma come?… io… oh Dio!… ma che…
Fui crudele, lo riconosco. E tanto più mi dolgo della mia crudeltà, in quanto quel poverino dovette credere senza dubbio ch’io avessi voluto prendermi il gusto di smascherarlo di fronte al paese con quella burla; mentre ero più che sicuro della sua buona fede, più che sicuro ormai d’essere stato uno sciocco a maravigliarmi tanto, poiché io stesso avevo già sperimentato, tutto quel giorno, che non hanno alcun fondamento di realtà quelli che noi chiamiamo i nostri ricordi. Quel povero dottor Palumba credeva di ricordare… S’era invece composta una bella favola di me! Ma non me n’ero composta una anch’io; per mio conto, ch’era subito svanita, appena rimesso il piede nel mio paesello natale? Gli ero stato un’ora di fronte, e non mi aveva riconosciuto. Ma sfido! Vedeva entro di sé Carlino Bersi, non quale io ero, ma com’egli mi aveva sempre sognato.
Ecco, ed ero andato a svegliarlo da quel suo sogno.
Cercai di confortarlo, di calmarlo; ma il pover uomo, in preda a un crescente tremor convulso di tutto il corpo, annaspando, con gli occhi fuggevoli, pareva andasse in cerca di se stesso, del suo spirito che si smarriva, e volesse trattenerlo, arrestarlo, e non si dava pace e seguitava a balbettare:
– Ma come?… che dice?… ma dunque lei… cioè, tu… tu dunque… come… non ti ricordi… che tu… che io…
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