Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 18 ottobre 1931. «Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione.» |
I muricciuoli, un fico, un uccellino – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza
I muricciuoli, un fico, un uccellino – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
NOTA: Mai ripubblicata da Pirandello. Dalle lettere familiari è stato possibile oggi accertare che la stesura definitiva di queste pagine è da attribuire al figlio Stefano, anche se non è da escludere che l’idea e la traccia del racconto siano state fornite, come in altri casi, da Pirandello.
2. I muricciuoli, un fico, un uccellino – 1931
Un guasto al motore, che non si poteva riparare prima d’un’ora.
Ero già nella città dove m’attendevano amici e faccende: la campagna per la quale mi portava in fuga l’automobile era stata fino ad allora appena un vento e uno sparir continuo di cose immaginarie. Ora mi s’era fermata attorno, campagna solitaria, e spariva invece in quel vento una certa strada fra le case, l’arrivo davanti un portone: scena in cui s’erano scambiate e rigirate grandi facce conosciute e certe parole da dir loro, già formate nella mia mente, impuntature del pensiero, e il quadrante d’una pendola che avrebbe segnato l’ora prestabilita in un salotto in penombra.
Ho di buono che ormai credo subito a queste catastrofi mentali. E so che non bisogna importunare il meccanico.
– Un’ora?
– Se basterà.
Guardo l’orologio e m’allontano.
Non perché una sosta in aperta campagna fosse impreveduta, adesso questa campagna non era da accettare per unica realtà dei miei pensieri. M’ero inoltrato in salita per un viottolo laterale e fermato a sedere su un muricciuolo, all’ombra d’un grosso fico che m’arruffava quasi in un bagno d’acre e caldo profumo. Cicale; e molta polvere, da per tutto, che mi parve malignamente appiattata e pronta a levarsi. C’era da ringraziare l’afa immota del cielo che la appassiva. Ero salito per allargare il respiro e contemplare spazio; ma il viottolo seguitava a montare per la costa, quasi per avvisarmi che quello non era il posto.
– Lascia perdere, – gli risposi: – mi basta poco.
Ma non c’era neanche quel poco, in verità. Per tutta soddisfazione, un uccellino, che s’era accorto di me. Ma subito, deluso, m’avvidi che con la garbata esitazione dei suo’ pigolii e delle svolatine avrebbe voluto mandarmi via. Aveva ragione lui, e feci male a stizzirmi. Ma forse voi stimate che le prepotenze contro gli uccellini siano lecite e che perciò io fossi nel mio diritto a batter le mani gridando: « sciò! ». Vuol dire che una volta tanto voi sarete d’accordo con me, mentre io non lo sono con me stesso. L’uccellino fuggì via dritto sparando la codetta, e io rimasi con la soddisfazione di sentirmi molto più grosso di lui, ma pensando come avrei potuto fare io a volarmene via se uno ancora più grosso si fosse preso il gusto di gridare « sciò!» a me. Uno ancora più grosso, non c’era bisogno che avesse un corpo: poteva essere la mia malinconia. Me ne sarei andato goffamente, passo passo, con l’impressione d’una voce che mi beffasse alle spalle. Io non ci guadagno proprio nulla a vincere gli uccellini che vorrebbero scacciarmi.
Mezzogiorno: non c’era anima viva. Eppure, quel po’ di terra che scorgevo in declivio abbandonata sotto il sole a picco mi pareva adesso fitta fitta di gente. Non mi rendevo conto del malessere che m’aveva dato fin dal primo momento. Pullulava di sentimenti umani, naturalmente tristi, odii, fatiche, interessi. Leggi. Tasse.
Era questo: i muricciuoli. Non ne avevo mai visti tanti in così breve spazio. Lo intersecavano in tutti i sensi, spezzettandolo in almeno sette od otto porzioncine miserabili, fin dove vedevo io, dai confini tutti pena e rissa ostinata, passo per passo, un passo avanti e uno indietro a strattoni. Muricce e murisecchi, incamiciati e rustici decrepiti, ma più triste qualcuno fresco; per un trattino, tesi tesi, come prepotenti e sicuri di sé poi sghimbesci, a spanciare, torvi, e quelli col cancelletto quasi umiliati, che non l’avrebbero voluto avere. Facevano l’effetto d’una cosa posticcia; ma così piena di spigoli che non era messa per ridere.
Terra contesa, divisa e suddivisa. Sotto quel sole che pareva a scommessa d’inaridirla!
– Fico, – mi misi a pensare e quasi a dire, per affermarmi contrario a quel malessere: – lo sai, fico, che per me la corsa potrebbe anche finire qui?
Non s’intende perché io mi muova tanto, perché mi renda così precaria la vita. Pare una smania senza ragione. Ma perché sono sempre pronto al definitivo. Non vi sembra naturale? Uno che ha dovuto creare: ore che passavano per tutti, vita che si sarebbe dovuta vivere, sciogliere, spendere, consumare, e invece no: gli servivano per fermarla quelle ore: e ore, ore, per tutta la vita. L’ha presa sul serio: non ha fatto altro. Dover definire. Far bene, tutto, punto per punto. Impossibile lasciarsi dietro pentimenti. Definitivo. Questo è creare. E questo è vivere? La vita: creare, sì. Ma creare è far consistere: fermare: la morte.
– E che malinconico abito s’acquista, fico, sempre così pronti al definitivo! Una sosta, una qualunque, può sempre diventarmi indifferentemente l’ultima quiete. Mi muovo perciò quanto più posso ora che, tardi, ho capito il giuoco: finché posso, finché mi sembra d’averne voglia o che qualcuno o qualche cosa mi chiami; qua o là.
Era tornato l’uccellino. L’immobilità del mio corpo non lo persuadeva, lo tratteneva a distanza. Forse avrebbe voluto vedermi vivere: aveva ancora ragione lui. Se avessi atteso a qualche faccenda più naturale, non so, zappettare in quell’orto non gli avrei dato sospetto. Non si sa mai che cosa può diventare all’improvviso un uomo che pensa sotto un fico. Non diventa niente, stupidello. Un uomo di passaggio. Fra poco s’alza e se ne va. Coi suoi pensieri. Di passaggio, e pensieri di passaggio. E tu resti, uccellino eterno. E vivo, e non sai quale contraddizione risolvi con un tuo trillo!
– Quasi quasi, fico, solo per far dispetto a questo stupido uccellino vorrei restarmene qui. Non sarebbe male per nessuno dei due se mi mettessero fra le tue radici: faremmo insieme dolcissimi fichi.
Pensavo che i miei fichi almeno, chi non ne avesse mangiati, non avrebbe potuto dire che non erano dolci.
– Tu sì, fico, potresti con ragione sforzarti di divenire famoso pei tuoi dolci fichi. Sempre ai tuoi fichi sarebbe affidata la tua fama Ma un artista, caro! finché il suo nome è affidato alla conoscenza delle opere non può goder fama, avrà la stima d’una cerchia più o meno grande di lettori. La fama viene quando, non si sa come né perché, da quelle opere un bel giorno si stacca il nome e mette le penne e comincia a volare: il nome. Le opere sono più serie, seguitano a piedi per conto loro, col peso e il valore che hanno, piano piano. Ma il nome vola. E con esso, qualche concetto astratto, strampalato, buffonesco, qualche trama sfigurata, a rovescio, qualche titolo. È la beffa, è l’ingiuria peggiore che la sorte possa fare a un artista, poiché l’arte sta tutta, quella che è, tutta e soltanto nei particolari. Tutta nei fichi, per farti capire. Non c’è artista più ignoto d’un artista famoso. Lo sai che oggi c’è tanta gente che prova una vivissima antipatia contro la mia arte e la dileggia, l’osteggia come può, la vorrebbe cancellata; ma non ha letto un rigo di mio?
Non lo sapeva. O non gliene importava. Ma io sono abituato a parlare per me solo.
– E la sorte d’un nome che vola? Te ne stai così ben piantato, che non puoi capire, tu. Ma quello stupido uccellino deve saperlo, che subito, contro una cosa che vola, un uccellino o un nome, alzano la mira i cacciatori. E gli sparano. Non ti spaventare: io non sono un uccellino. Male di poco: l’impallinano, lo spennacchiano. Me l’hanno spennacchiato bene, il mio nome, fico: non so con quale gusto anche per loro, che adesso: debbono sopportare di vederlo svolazzare così sconciato pei cieli della patria. Capirai anche tu che, finché si tira a un nome letterario, il nome non s’ammazza: potrei ridere sempre io, l’ultimo. E ne rido, infatti; ma mi rincresce che fra questi caccia- tori di nomi vi siano dei giovani. Oh Dio, giovani, non proprio come s’intende: sono giovani letterati, è un po’ diverso. Deb- bono farsi largo. Intelligenti, sai?: hanno premesso che il proprio carattere degli italiani è la rissa, le fazioni; non c’è cosa al mondo più rispettabile dei caratteri d’una razza: appostati in combriccola, si sentono a posto. Letterati quanto si vuole, ma anche giovani, non c’è dubbio. Mi vendico con l’istintiva sim- patia che ho per tutti coloro che fanno qualche cosa, chiasso, stupidaggini, che s’impegnano e si muovono per calcoli senza logica, privi di costrutto: cose non definitive, cose della vita. Fuori dell’arte, grazie a Dio: è un respiro. E quanto piacere mi fa che essi le scambino per questioni d’arte. Ma sono intelligenti: non le scambiano. Forse sì, forse sì: perché poi dovrebbero essere tanto intelligenti? Speriamo che le scambino. Prima abbatteranno Pirandello, ma si intende, per costruire poi la loro opera. L’illusione che occorra «sgombrare il terreno»: come ogni illusione degli altri, mi intenerisce. Io non ne ho più, se non questa, di non averne più. Ho in cambio più comprensione che non occorra per vivere: anche comprensione di questi loro giuochi vivaci; e alla malvagità è come se non credessi; alla malignità mi diverto E poi, e poi: sono anch’essi uno spettacolo pei miei occhi disinteressati. Hai capito, fico?
Non c’era gusto a parlargli: diceva sempre di sì.
Ero solo.
Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione. Dimenticando che il punto giusto, d’esser muro, per un muro, è quando è secco bene.
E per un uomo, il punto giusto? Quando s’è talmente seccato, di tutto, che perfino la briga di chi l’osteggia può divertirlo un momento? Ma lo dice in me la mia volontà, ch’io sia seccato, come il brontolio d’una povera serva angariata dai padroni esigenti, il sentimento e l’intelletto, senza requie, questo, in ansia di scoperta, e l’altro sempre freschissimo e incantato di tutto.
Per tanti è difficile amare i giovani, non per me. Ancora sciolti dalle rigide costruzioni mentali in cui gli anni le professioni le responsabilità intrappoleranno anche loro, e disposti ad ascoltare anche i richiami disinteressati della vita simpatici, sì, ma irritanti, per le persone serie: non si sa mai da che parte pigliarli. Scomodi. Perfino l’amore naturale, da uomo a donna, è fra essi tribolato, irto di disperazioni, d’equivoci, di serietà morali crudelissime, d’ingenue prepotenze. Quasi tutti si riducono ad amarli veramente solo da vecchi. Il vecchio, come il giovane che ancora non l’ha acquistata, ha già di solito riabbandonato per via, a poco a poco, la fissità dei caratteri che gli davano corpo nell’età costruttiva della sua vita: sono su questo punto, da tanta distanza, fatti più vicini. E se il vecchio s’è invece ristretto anche di più, come uno di questi muretti che l’arida tenacia del cemento antico ha resi duri duri? Ma anche sonanti e fragili; basta uro spintarella a farli crollare. Se dessero impaccio… Ma i giovani girano al largo con un’alzata di spalle e una paroletta ironica, Meglio che muretti secchi, li considerano foglie secche, stridule, vane. Il vento della morte ne sbarazza le strade dei vivi. Sembra più naturale, più umano, che la presa del nostro cemento, la volontà ceda con gli anni e i blocchi delle convinzioni; dei sentimenti, delle predilezioni, ch’esso manteneva saldamente, vengano giù uno per volta e finiscano di sgretolarsi sulla via. Muro sbozzolato, diroccato: largo a chi deve passare.
Strano, ma è proprio come se io fossi vecchio.
Un vecchio deve essere intelligente. Chi lo scavalca, chi passa fra le sue macerie, va a farsi muro un poco più in là. Per durare qualche anno anche lui.
Largo, largo a chi passa.
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