I giganti della montagna – Atto secondo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
Quarto momento (ricostruito)

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I giganti della montagna - Atto II
Associazione Culturale Diablogues, I giganti della montagna, 2011

1937
I giganti della montagna
Atto
secondo

       Gli ultimi barlumi del crepuscolo si spengono e la luce s’attenua sulla scena. Ora comincia gradatamente l’alba lunare. Cotrone aspetta che tutti gli altri siano entrati nella villa: poi, dopo un breve silenzio, riattaccando con un tono più pacato:          

       COTRONE. Per la Contessa c’è ancora intatta la camera degli antichi signori della villa: l’unica che abbia ancora la chiave, e l’ho io.

       ILSE (ancora seduta, resta in silenzio, assorta; poi, con voce quasi lontana).

       Cinque gatti per una gatta:

       cinque, pronti, tutti attorno,

       che si struggono agguattati

       di vederla così spasimare;

       ma appena uno si muove,

       tutti gli altri gli saltano addosso,

       s’azzuffano, si graffiano, si mordono,

       scappano, si rincorrono…

       COTRONE (piano al Conte). Si ripassa la parte?

       IL CONTE (piano a Cotrone). No, non è la sua. (Poi, attaccando, con altra voce, dispettosa): «Già… già… già…»

       ILSE.

       E sono allora le gatte

       che fanno sul capo ai bambini

       di questi scherzi? Guardate! Guardate!

       IL CONTE. «Che debbo guardare?»

       ILSE.

       Qua, questo codino

       di capelli accatricchiati.

       (E subito, con altra voce, quella d’una madre che ripari la testa d’un bambino, premendosela sul seno): No, figlio mio d’oro! (E quindi, ripigliando con la voce di prima):

       lo vedete?

       guaj se il pettine

       lo tocca,

       o la forbice

       lo taglia;

       il bambino

       ne morrebbe…

       COTRONE. La Contessa ha una voce che incanta… Io credo che, se volesse entrare un po’ nella villa, si sentirebbe subito riconfortata.

       IL CONTE. Su, Ilse, su, cara, ti riposerai almeno un poco.

       COTRONE. Manca forse il necessario, ma di tutto il superfluo abbiamo una tale abbondanza… Stiano a vedere. Anche di fuori. Il muro di questa facciata. Basta ch’io dia un grido… (Si pone le mani attorno alla bocca e grida) Olà! (Subito al grido la facciata della villa s’illumina d’una fantastica luce d’aurora.) E i muri mandano luce!

       ILSE (incantata, come una bambina). Oh bello!

       IL CONTE. Come ha fatto?

       COTRONE. Mi chiamano il mago Cotrone. Vivo modestamente di questi incantesimi. Li creo. E ora, stiano a vedere. (Sì rimette le mani attorno alla bocca e grida): Nero! (Si rifa il tenue barlume lunare di prima, spenta la luce della facciata.) Questo nero la notte pare io faccia per le lucciole, che volando – non s’indovina dove – ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde. Ebbene, guardino:… là… là… là… (Appena dice e indica col dito in tre punti diversi, dove indica, s’aprono per un momento, fin laggiù in fondo alle falde della montagna, tre apparizioni verdi, come di larve evanescenti.)

       ILSE. Oh, Dio, com’è?

       IL CONTE. Che sono?

       COTRONE. Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.

       (La Sgricia, a questo punto, si ripresenta irritata sulla soglia.)

       LA SGRICIA. Cotrone, vedrai che l’Angelo Centuno non vorrà più venire a visitarci, te ne avverto!

       COTRONE. Ma sì, che verrà, Sgricia, non temere! Avvicinati…

       LA SGRICIA (avvicinandosi). Coi discorsi che sento fare di là da tutti quei diavoli!

       COTRONE. E tu non sai che non bisogna aver paura delle parole? (Presentandola): Ecco quella che prega per tutti noi. La Sgricia dell’Angelo Centuno. È venuta a vivere qua con noi, dacché la Chiesa non volle ammettere il miracolo che le fece l’Angelo che si chiama Centuno.

       ILSE. Centuno?

       COTRONE. Sì, perché ha in custodia cento anime del Purgatorio e lui le guida ogni notte a sante imprese.

       ILSE. Ah sì? E che miracolo?

       COTRONE (alla Sgricia). Su, Sgricia, narralo, narralo alla signora Contessa!

       LA SGRICIA (accigliata). Tu non vorrai crederlo.

       ILSE. Sì, sì, che lo crederò.

       COTRONE. Nessuna può esser più disposta a crederlo della Contessa. Fu in una gita che le toccò fare a un paese vicino, dove abitava una sua sorella…

       (A questo punto come se si formasse in alto nell’aria una Voce – insulsa, d’eco, ma chiara – dirà):

       VOCE. Paese di mala fama, come ce n’è ancora purtroppo in quest’isola selvaggia.

       (La Contessa e il Conte, stupiti, non sanno dove guardare.)

       COTRONE (subito, per tranquillarli). Niente, sono voci. Non si spaventino! Ora spiegherò…

       VOCE (dal cipresso). S’ammazza un uomo come una mosca.

       LA CONTESSA (atterrita). Oh Dio! Chi parla?

       IL CONTE. Da dove vengono queste voci?

       COTRONE. Non si turbi! Non si turbi, Contessa! Si formano nell’aria. Spiegherò.

       LA SGRICIA. Sono gli assassinati! Udite? Udite? (Cotrone, di nascosto, sorridendo, fa cenno di no con la mano alla Contessa, come per dire alle spalle della Sgricia: «Non ci creda, si fa per lei!». Ma la Sgricia se n’accorge, e s’adira): Come no? Sì. Il bambino!

       COTRONE (premuroso, facendo la parte). Il bambino, già, il bambino… (E subito a Ilse.) Si racconta d’un carrettiere, Contessa, che, dopo aver fatto montare sul carretto un ragazzino incontrato di notte per lo stradone, da queste parti, sentendogli sonare in tasca due o tre soldini, lo uccise nel sonno, per comprarsi il tabacco appena arrivato al paese; buttò il cadaverino dietro la siepe, e arrì, a passo, cantando, seguitò ad andare sotto le stelle del cielo –

       LA SGRICIA (terribile). – sotto gli occhi di Dio che lo guardavano! E tanto lo guardarono, che sapete che fece l’assassino? arrivato all’alba, invece di recarsi dal padrone, si fermò al posto di guardia, e con quei soldi del bambino nella mano insanguinata si denunziò da sé, come se un altro parlasse per bocca sua. Vedete che può Dio?

       COTRONE. Con questa fede, lei non ebbe paura d’avviarsi di notte…

       LA SGRICIA. Ma che di notte! Non mi dovevo avviar di notte, mi dovevo avviare all’alba. Fu il mio vicino, a cui avevo chiesto in prestito l’asinella.

       COTRONE. L’aveva chiesta in moglie, quel contadino.

       LA SGRICIA. Questo non c’entra! Col pensiero d’approntarmi l’asinella per l’alba, a mezzo della notte si svegliò: c’era chiaro di luna; gli parve l’alba. M’accorsi subito, guardando il cielo, che quella non era luce di giorno, ma la luna. Vecchia, mi feci il segno della croce; montai, e via. Ma quando fui sullo stradone… di notte… tra le campagne… le ombre paurose… in quel silenzio che spegneva nella polvere perfino il rumore degli zoccoli dell’asinella… e quella luna… e la via lunga e bianca… mi tirai sugli occhi la mantellina, e così riparata, fosse la debolezza o la lentezza del cammino, o che o come, fatto si è che mi trovai a un certo punto, come svegliandomi, tra due lunghe file di soldati…

       COTRONE (come a conciliar l’attenzione, ora che viene il punto dei miracolo). Ecco, ecco…

       LA SGRICIA (seguitando). Andavano ai due fianchi dello stradone quei soldati, e in testa, davanti a me, nel mezzo, su un cavallo bianco maestoso, il Capitano. Mi sentii tutta riconfortare a quella vista e ringraziai Dio che proprio in quella notte del mio viaggio avesse disposto che quei soldati dovessero recarsi anche loro alla Favara. Ma perché così in silenzio? Giovanotti di vent’anni… una vecchia in mezzo a loro su quell’asinella… non ne ridevano; non si sentivano nemmeno camminare; non sollevavano neppure un po’ di polvere… Perché? Com’era? Lo seppi, quando fu l’alba, in vista del paese. Il Capitano mi fermò sul gran cavallo bianco; aspettò ch’io con la mia asinella lo raggiungessi. «Sgrida, sono l’Angelo Centuno» mi disse «e queste che t’hanno scortata fin qua sono le anime del Purgatorio. Appena arrivata, mettiti in regola con Dio, che prima di mezzogiorno tu morrai.» E scomparve con la santa scorta.

       COTRONE (subito). Ma ora viene il meglio! Quando la sorella la vide arrivare, bianca, stralunata…

       LA SGRICIA. «Che hai?» mi gridò. E io: «Chiamami un confessore». «Ti senti male?» «Prima di mezzogiorno, morirò.» (Apre le braccia)… E difatti…

       (Si china a guardar negli occhi la Contessa e le domanda): Tu forse ti credi ancora viva? (Le fa con l’indice un segno di no davanti alla faccia.)

       VOCE (da dietro al cipresso). Non stare a crederlo!

       (La vecchietta con un sorriso d’approvazione fa un segno alla Contessa che significa: «Senti che te lo dice?»; e così sorridente e soddisfatta rientra nella villa.)

       ILSE (si volge prima verso il cipresso, poi guarda Cotrone). Si crede morta?

       COTRONE. In un altro mondo, Contessa, con tutti noi…

       ILSE (turbatissima). Che mondo? E queste voci?

       COTRONE. Le accolga! Non cerchi di spiegarsele! Potrei…

       IL CONTE. Ma sono combinate?

       COTRONE (al Conte). Se la ajutano a entrare in un’altra verità, lontana dalla sua, pur così labile e mutevole… (alla Contessa) rimanga, rimanga così lontana e si provi un po’ a guardare come questa vecchietta che ha veduto l’Angelo. Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere. Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cangiarle. Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi.

       (Sta in ascolto.) Ecco. La sento venire. (Grida) Maddalena! (Poi, indicando) Là sul ponte. (Appare sul ponte Maria Maddalena, illuminata di rosso da una lampadina che tiene in mano. È giovine, fulva di capelli, di carne dorata. Veste di rosso, alla paesana: e appare come una fiamma.)

       ILSE. Oh Dio, chi è?

       COTRONE. La «Dama rossa». Non tema! Di carne e d’ossa, Contessa. Vieni, vieni, Maddalena. (E mentre Maria Maddalena s’appressa, aggiunge): Una povera scema, che sente ma non parla; è sola, senza più nessuno, e vaga per le campagne; gli uomini se la prendono, e ignora fino all’ultimo ciò che pur tante volte le è avvenuto; lascia sull’erba le sue creature. Eccola qua. Ha sempre così, sulle labbra e negli occhi il sorriso del piacere che si prende e che dà. Viene quasi ogni notte a trovare rifugio da noi, nella villa. Va’, va’, Maddalena. (Maria Maddalena, sempre col suo sorriso, dolce sulle labbra ma quasi velato di pena negli occhi, china più volte il capo, ed entra nella villa.)

       ILSE. E questa villa di chi è?

       COTRONE. Nostra e di nessuno. Degli Spiriti.

       IL CONTE Come, degli Spiriti?

       COTRONE. Sì. La villa ha fama d’essere abitata dagli Spiriti. E fu perciò abbandonata dagli antichi padroni, che per terrore scapparono anche dall’isola, ora è gran tempo.

       ILSE. Voi non credete agli Spiriti…

       COTRONE. Come no? Li creiamo!

       ILSE. Ah, li create…

       COTRONE. Perdoni, Contessa, non m’aspettavo da lei che mi dovesse dire così. Non è possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi. Lei si disse larva di quella che fu?

       ILSE. Eh, più di così…

       COTRONE. Ecco. Quella che fu. Basta farla uscir fuori. Crede che non le viva ancora dentro? Non vive forse il fantasma del giovine che s’uccise per lei? Lei lo ha in sé.

       ILSE. In me…

       COTRONE. E io potrei farglielo apparire. Guardi, è là dentro. (Indica la villa.)

       ILSE (alzandosi, con raccapriccio). No!

       COTRONE. Eccolo!

       (Appare sulla soglia della villa Spizzi che s’è camuffato da giovane poeta, a somiglianza di quello che s’uccise per la Contessa, servendosi del vestiario trovato nello strambo guardaroba della villa per le apparizioni: sulle spalle un mantello nero, di quelli che un tempo si portavano sui frak; attorno al collo una sciarpa bianca, di seta; in capo, il gibus. Tiene nascosta nelle mani che reggono da dentro con elegante rigonfio i due lembi del mantello, una lanterna elettrica che gl’illumina il volto da sotto in sii, spettralmente. La Contessa, appena lo vede, dà un grido e si rovescia sulla panca, nascondendo la faccia.)

       SPIZZI (accorrendo a lei). Ma no, Ilse… Dio mio… Ho voluto fare uno scherzo…

       IL CONTE. Ah, tu! Spizzi! È Spizzi, Ilse…

       COTRONE. Uscito da sé, per farsi vedere come un fantasma!

       IL CONTE (adirato). Ma che dice lei ancora?

       COTRONE. La verità!

       SPIZZI. Io ho scherzato!

       COTRONE. E io ho sempre inventate le verità, caro signore! e alla gente è parso sempre che dicessi bugie. Non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la s’inventa. Ecco la prova! (Indica Spizzi) Scherzato? Lei ha obbedito! Le maschere non si scelgono a caso. Ed ecco altre prove… altre prove… (Rientrano in iscena dalla porta della villa camuffati e ciascuno variamente illuminato dalla propria lanterna colorata nascosta in mano, Diamante, il Battaglia, il Lumachi e Cromo, secondo la presentazione che ne farà Cotrone. Tutti gli altri li seguiranno.) Lei (prendendo per mano Diamante) si intende, parata da Contessa… (al Conte) Copriva lei forse, signor Conte, qualche carica a corte?

       IL CONTE (stonato). Io no, perché?

       COTRONE (indicando l’abito di Diamante). Perché è propriamente un abito di Dama di Corte… (volgendosi a Battaglia) E lei, come una tartaruga nella scaglia, s’è trovato a casa in quest’abito di vecchia bacchettona.

       (Indicando ora il Lumachi, che s’è messa addosso una pelle d’asino con la testa di cartone) E lei ha pensato all’asino che le manca…

       (Poi, andando a stringere la mano a Cromo) E lei s’è camuffato da Pascià, mi congratulo: si vede che ha buon cuore…

       IL CONTE. Ma ch’è questa carnevalata?

       CROMO. C’è là dentro (indica la villa) tutto un arsenale per le apparizioni!

       LUMACHI. Bisogna vedere che costumi! Non ne ha di più un vestiarista!

       COTRONE. E ciascuno è andato a prendersi la maschera che più gli s’addiceva!

       SPIZZI. Ma no, io l’ho fatto…

       IL CONTE (irritato). Per uno scherzo? (Indicando l’abito che ha indossato) Ti pare il modo di scherzare travestito così?

       ILSE. Ha obbedito…

       IL CONTE. A chi?

       ILSE (indicando Cotrone). A lui che fa il mago, non hai inteso?

       COTRONE. No, Contessa…

       ILSE. Stia zitto, lo so! – Lei, inventa la verità?

       COTRONE. Non ho mai fatto altro in vita mia! Senza volerlo, Contessa. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Ne inventai tante al paese, che me ne dovetti scappare, perseguitato dagli scandali. Mi provo ora qua a dissolverle in fantasmi, in evanescenze. Ombre che passano. Con questi miei amici m’ingegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando, come in fiocchi di nubi colorate, l’anima, dentro la notte che sogna.

       CROMO. Come un fuoco d’artifizio?

       COTRONE. Ma senza spari. Incanti silenziosi. La gente sciocca n’ha paura e si tiene lontana; e così noi restiamo qua padroni. Padroni di niente e di tutto.

       CROMO. E di che vivete?

       COTRONE. Così. Di niente e di tutto.

       DOCCIA. Non si può aver tutto, se non quando non si ha più niente.

       CROMO (al Conte). Ah, senti? Quest’è proprio il caso nostro! Dunque noi abbiamo tutto?

       COTRONE. Eh, no, perché vorreste avere ancora qualche cosa. Quando davvero non vorrete avere più niente, allora sì.

       MARA-MARA. Senza letto si può dormire…

       CROMO. … male…

       MARA-MARA. … ma si dorme!

       DOCCIA. Chi ti può impedire il sonno, quando Dio che ti vuol sano te lo manda, come una grazia, con la stanchezza? Allora dormi, anche senza letto!

       COTRONE. E ci vuol la fame, eh Quaquèo? perché un tozzo di pane ti dia la gioja del mangiare, come non te la potranno mai dare, sazio o disappetente, tutti i cibi più prelibati.

       (Quaquèo sorridendo e assentendo col capo, fa con la mano sul petto il gesto dei bambini quando vogliono mostrare che gustano qualcosa.)

       DOCCIA. E solo quando non hai più casa, tutto il mondo diventa tuo. Vai e vai, poi t’abbandoni tra l’erba al silenzio dei cieli; e sei tutto e sei niente… e sei niente e sei tutto.

       COTRONE. Ecco come parlano i mendicanti, gente sopraffina, Contessa, e di gusti rari, che han potuto ridursi alla condizione di squisito privilegio, che è la mendicità. Non c’è mendicanti mediocri. I mediocri son tutti sennati e risparmiatori. Doccia è il nostro banchiere. Accumulò per trent’anni quel soldo di più con cui gli uomini importunati si pagano il lusso della carità, ed è venuto qua ad offrirlo alla libertà dei sogni. Paga tutto lui.

       DOCCIA. Eh, ma se non ci andate piano…

       COTRONE. Fa l’avaro, perché duri di più.

       GLI ALTRI SCALOGNATI (ridendo). È vero! È vero!

       COTRONE. Potevo essere anch’io, forse, un grand’uomo, Contessa. Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze. Guardiamo alla terra, che tristezza! C’è forse qualcuno laggiù che s’illude di star vivendo la nostra vita; ma non è vero. Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede; ma nell’anima che parla chi sa da dove; nessuno può saperlo: apparenza tra apparenza, con questo buffo nome di Cotrone… e lui, di Doccia… e lui, di Quaquèo… Un corpo è la morte: tenebra e pietra. Guaj a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome. Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente. Alcuni sono obbligati. Ecco, per esempio quello della Scozzese con l’ombrellino(indica Mara-Mara.) O quello del Nano con la cappa turchina (Quaquèo fa cenno che è suo attributo particolare.) Specialità della villa. Gli altri son tutti di nostra fantasia. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza. Ebbene, signori, vi dico come si diceva un tempo ai pellegrini: sciogliete i calzari e deponete il bordone. Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente. Ma rappresenteremo anche la vostra «Favola del figlio cambiato», come un prodigio che s’appaghi di sé, senza più chiedere niente a nessuno.

       ILSE. Qua?

       COTRONE. Solo per noi.

       CROMO. C’invita a restare qua per sempre, non senti?

       COTRONE. Ma sì! Che andate più cercando in mezzo agli uomini? Non vedete che n’avete avuto?

       QUAQUÈO e MILORDINO Restate, sì! Qua con noi! Qua con noi!

       DOCCIA. Oh! Son otto!

       LUMACHI. Io per me ci sto!

       BATTAGLIA. Il posto è bello…

       ILSE. Vuol dire che andrò io sola, a leggere, se non più a rappresentare la Favola.

       SPIZZI. Ma no, Ilse – resti chi vuole – io ti seguirò sempre!

       DIAMANTE. Anch’io! (al Conte) Puoi sempre contare su me!

       COTRONE. Comprendo che la Contessa non può rinunziare alla sua missione.

       ILSE. Fino all’ultimo.

       COTRONE. Non vuole neanche lei che l’opera viva per se stessa – come potrebbe soltanto qua.

       ILSE. Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!

       COTRONE. Povera opera! Come il poeta non ebbe da lei l’amore, così l’opera non avrà dagli uomini la gloria. Ma basta. Ora è tardi e sarà bene andare a riposare. Poiché la Contessa rifiuta, ho un’idea; ve la proporrò domani all’alba.

       IL CONTE. Che idea?

       COTRONE. Domani all’alba, signor Conte. Il giorno è abbagliato; la notte è dei sogni e solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini. L’alba, per l’avvenire; il tramonto, per il passato. (Alza un braccio per indicare l’entrata della villa.) A domani!

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