Legge Rosanna Vivona.
«Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.»
Prime pubblicazioni: Rassegna contemporanea, agosto 1911, raccolta Erba del nostro orto, Studio editoriale lombardo, Milano 1915. Ristampa di Facchi, Milano 1915.
I fortunati
Voce di Rosanna Vivona
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Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino.
Visite di condoglianza.
Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino stinto imporrito fasciato di lutto, che così, mezzo chiuso e mezzo aperto, pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l’ultima uscita – piedi avanti e testa dietro – del padrone di casa.
La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento ben diverso da quello che volevano mostrare.
A ogni visitatore che entrava nel portoncino, scattavano qua e là esclamazioni di meraviglia:
– Uh, anche questo?
– Chi, chi?
– L’ingegner Franci!
– Anche lui?
Eccolo là, entrava. Ma come? un massone? un trentatré? Sissignori, anche lui. E prima e dopo di lui, quel gobbo del dottor Niscemi, l’ateo, signori miei, l’ateo; e il repubblicano e libero pensatore avvocato Rocco Tunisi, e il notajo Scimè e il cavalier Preato e il commendator Tino Laspada, consigliere di prefettura, e anche i fratelli Morlesi che, appena seduti, poverini, come se avessero le anime avvelenate di sonno, si mettevano tutt’e quattro a dormire, e il barone Cerrella, anche il barone Cerrella: i meglio, insomma, i pezzi più grossi di Montelusa: professionisti, impiegati, negozianti…
Don Arturo Filomarino era arrivato la sera avanti da Roma, dove, appena caduto in disgrazia di Monsignor Partanna, per la pianticina di fragole promessa alle monacelle di Sant’Anna, s’era recato a studiare per addottorarsi in lettere e filosofia. Un telegramma d’urgenza lo aveva richiamato a Montelusa per il padre colto da improvviso malore. Era arrivato troppo tardi. Neanche l’amara consolazione di rivederlo per l’ultima volta!
Le quattro sorelle maritate e i cognati, dopo averlo in fretta in furia ragguagliato della sciagura fulminea e avergli rinfacciato con certi versacci di sdegno, anzi di schifo, di abominazione, che i preti suoi colleghi di Montelusa avevano preteso dal moribondo ventimila lire, venti, ventimila lire per amministrargli i santi sacramenti, come se la buon’anima non avesse già donato abbastanza a opere pie, a congregazioni di carità, e lastricato di marmo due chiese, edificato altari, regalato statue e quadri di santi, profuso a piene mani denari per tutte le feste religiose; se n’erano andati via, sbuffanti, indignati, dichiarandosi stanchi morti di tutto quello che avevano fatto in quei due giorni tremendi; e lo avevano lasciato solo, là, solo, santo Dio, con la governante, piuttosto… sì, piuttosto giovine, che il padre, buon’anima, aveva avuto la debolezza di farsi venire ultimamente da Napoli, e che già con collosa amorevolezza lo chiamava don Arturì.
Per ogni cosa che gli andasse attraverso, don Arturo aveva preso il vezzo d’appuntir le labbra e soffiare a due, a tre riprese, pian piano, passandosi le punte delle dita su le sopracciglia. Ora, poverino, a ogni don Arturì…
Ah, quelle quattro sorelle! quelle quattro sorelle! Lo avevano sempre malvisto, fin da piccino, anzi propriamente non lo avevano mai potuto soffrire, forse perché unico maschio e ultimo nato, forse perché esse, poverette, erano tutt’e quattro brutte, una più brutta dell’altra, mentre lui bello, fino fino, biondo e riccioluto. La sua bellezza doveva parer loro doppiamente superflua, sì perché uomo e sì perché destinato fin dall’infanzia, col piacer suo, al sacerdozio. Prevedeva che sarebbero avvenute scene disgustose, scandali e liti al momento della divisione ereditaria. Già i cognati avevano fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nel banco del suocero, morto intestato.
Che c’entrava intanto rinfacciare a lui ciò che i ministri di Dio avevano stimato giusto e opportuno pretendere dal padre perché morisse da buon cristiano? Ahi, per quanto crudele potesse riuscire al suo cuore di figlio, doveva pur riconoscere che la buon’anima aveva per tanti anni esercitato l’usura e senza in parte neppur quella discrezione che può almeno attenuare il peccato. Vero è che con la stessa mano, con cui aveva tolto, aveva poi anche dato, e non poco. Non erano però, a dir proprio, denari suoi. E per questo appunto, forse, i sacerdoti di Montelusa avevano stimato necessario un altro sacrifizio, all’ultimo. Egli, da parte sua, s’era votato a Dio per espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre era vissuto e morto. E ora, per quel che gli sarebbe toccato dell’eredità paterna, era pieno di scrupoli e si proponeva di chieder lume e consiglio a qualche suo superiore, a Monsignor Landolina per esempio, direttore del Collegio degli Oblati, sant’uomo, già suo confessore, di cui conosceva bene l’esemplare, fervidissimo zelo di carità.
Tutte quelle visite, intanto, lo imbarazzavano.
Per quel che volevano parere, data la qualità dei personaggi, rappresentavano per lui un onore immeritato; per il fine recondito che le guidava, un avvilimento crudele.
Temeva quasi d’offendere a ringraziare per quell’apparenza d’onore che gli si faceva; a non ringraziare affatto, temeva di scoprir troppo il proprio avvilimento e d’apparir doppiamente sgarbato.
D’altra parte, non sapeva bene che cosa gli volessero dire tutti quei signori, né che cosa doveva rispondere, né come regolarsi. Se sbagliava? se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche mancanza?
Egli voleva ubbidire ai suoi superiori, sempre e in tutto. Così, ancor senza consiglio, si sentiva proprio sperduto in mezzo a quella folla.
Prese dunque il partito di sprofondarsi su un divanuccio sgangherato in fondo allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi bujo, e di fingersi almeno in principio così disfatto dal cordoglio e dallo strapazzo del viaggio, da non potere accogliere se non in silenzio tutte quelle visite.
Dal canto loro i visitatori, dopo avergli stretto la mano, sospirando e con gli occhi chiusi, si mettevano a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano intanto di guardarsi l’un l’altro, come se a ciascuno facesse stizza che gli altri fossero venuti là a dimostrare la sua stessa condoglianza.
Non pareva l’ora, a tutti, di andarsene, ma ognuno aspettava che prima se n’andassero via gli altri, per dir sottovoce, a quattr’occhi, una parolina a don Arturo.
E in tal modo nessuno se ne andava.
Lo stanzone era già pieno e i nuovi arrivati non trovavan più posto da sedere e tutti gonfiavano in silenzio e invidiavano i fratelli Morlesi che almeno non s’avvedevano del tempo che passava, perché, al solito, appena seduti, s’erano addormentati tutt’e quattro profondamente.
Alla fine, sbuffando, s’alzò per primo, o piuttosto scese dalla seggiola il barone Cerrella, piccolo e tondo come una balla, e dri dri drì, con un irritatissimo sgrigliolio delle scarpe di coppale, andò fino al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:
– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera. Quantunque abbattuto, don Arturo balzò in piedi:
– Eccomi, signor barone!
E lo accompagnò, attraversando tutto lo stanzone, fino alla saletta d’ingresso. Ritornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio; ma non passarono due minuti, che un altro si alzò e venne a ripetergli:
– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.
Dato l’esempio, cominciò la sfilata. A uno a uno, di due minuti in due minuti, s’alzavano, e… ma dopo cinque o sei, don Arturo non aspettò più che venissero a pregarlo fino al divanuccio in fondo allo stanzone; appena vedeva uno alzarsi, accorreva pronto e servizievole e lo accompagnava fino alla saletta.
Per uno che se n’andava però, ne sopravvenivano altri due o tre alla volta, e quel supplizio minacciava di non aver più fine per tutta la giornata.
Fortunatamente, quando furono le tre del pomeriggio, non venne più nessuno. Restavano nello stanzone soltanto i fratelli Morlesi, seduti uno accanto all’altro, tutt’e quattro nella stessa positura, col capo ciondoloni sul petto.
Dormivano lì da circa cinque ore.
Don Arturo non si reggeva più su le gambe. Indicò con un gesto disperato alla giovine governante napoletana quei quattro dormienti là.
– Voi andate a mangiare, don Arturì, – disse quella. – Mo’ ci pens’io. Svegliati, però, dopo aver volto un bel po’ in giro gli occhi sbarrati e rossi di
sonno per raccapezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch’essi la parolina in confidenza a don Arturo, e invano questi si provò a far loro intendere che non ce n’era bisogno; che già aveva capito e che avrebbe fatto di tutto per contentarli, come gli altri, fin dove gli sarebbe stato possibile. I fratelli Morlesi non volevano soltanto pregarlo come tutti gli altri di fare in modo che venisse a lui la loro cambiale nella divisione dei crediti per non cadere sotto le grinfie degli altri eredi; avevano anche da fargli notare che la loro cambiale non era già, come figurava, di mille lire, ma di sole cinquecento.
– E come? perché? – domandò, ingenuamente, don Arturo.
Si misero a rispondergli tutt’e quattro insieme, correggendosi a vicenda e ajutandosi l’un l’altro a condurre a fine il discorso:
– Perché suo papà, buon’anima, purtroppo…
– No, purtroppo… per… per eccesso di…
– Di prudenza, ecco!
– Già, ecco… ci disse, firmate per mille…
– E tant’è vero che gli interessi…
– Come risulterà dal registro…
– Interessi del ventiquattro, don Arturì! del ventiquattro! del ventiquattro!
– Glieli abbiamo pagati soltanto per cinquecento lire, puntualmente, fino al quindici del mese scorso.
– Risulterà dal registro…
Don Arturo, come se da quelle parole sentisse ventar le fiamme dell’inferno, appuntiva le labbra e soffiava, passandosi la punta delle mani immacolate su le sopracciglia.
Si dimostrò grato della fiducia che essi, come tutti gli altri, riponevano in lui, e lasciò intravedere anche a loro quasi la speranza che egli, da buon sacerdote, non avrebbe preteso la restituzione di quei denari.
Contentarli tutti, purtroppo, non poteva: gli eredi erano cinque, e dunque a piacer suo egli non avrebbe potuto disporre che di un quinto dell’eredità.
Quando in paese si venne a sapere che don Arturo Filomarino, in casa dell’avvocato scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli innumerevoli crediti cambiarii, non si era voluto contentare della proposta dei cognati, che fosse cioè nominato per essi un liquidatore di comune fiducia, il quale a mano a mano, concedendo umanamente comporti e rinnovazioni, li liquidasse agli interessi più che onesti del cinque per cento, mentre il meno che il suocero soleva pretendere era del ventiquattro; più che più si raffermò in tutti i debitori la speranza che egli generosamente, con atto da vero cristiano e degno ministro di Dio, avrebbe non solo abbonato del tutto gl’interessi a quelli che avrebbero avuto la fortuna di cadere in sua mano, ma fors’anche rimessi e condonati i debiti.
E fu una nuova processione alla casa di lui. Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.
Don Arturo non sapeva più come schermirsi; aveva le labbra indolenzite dal tanto soffiare; non trovava un minuto di tempo, assediato com’era, per correre da Monsignor Landolina a consigliarsi; e gli pareva mill’anni di ritornarsene a Roma a studiare. Aveva vissuto sempre per lo studio, lui, ignaro affatto di tutte le cose del mondo.
Quando alla fine fu fatta la difficilissima ripartizione di tutti i crediti cambiarii, ed egli ebbe in mano il pacco delle cambiali che gli erano toccate, senza neppur vedere di chi fossero per non rimpiangere gli esclusi, senza neppur contare a quanto ammontassero, si recò al Collegio degli Oblati per rimettersi in tutto e per tutto al giudizio di Monsignor Landolina.
Il consiglio di questo sarebbe stato legge per lui.
Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto più alto del paese ed era un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all’incontro, arioso e luminoso, dentro.
Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina era dura, segnatamente sotto Monsignor Landolina, e quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantavano al suono dell’organo nella chiesina del Collegio, le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giù, provenienti da quella fabbrica fosca nell’altura, accoravano come un lamento di carcerati.
Monsignor Landolina non pareva affatto che dovesse avere in.sé tanta forza di dominio e così dura energia.
Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca ariosa cameretta in cui viveva, lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avesse reso le mani d’una gracilità tremula’quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le palpebre più esili d’un velo di cipolla.
Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.
– Oh Arturo! – disse, vedendo entrare il giovine: e, come questi gli si buttò sul petto piangendo:
– Ah, già! un gran dolore… Bene bene, figliuolo mio! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio! Tu sai com’io sono per tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Il dolore ti salva, figliuolo! E tu, per tua ventura, hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh… fece tanto, tanto male! Sia il tuo cilizio, figliuolo, il pensiero di tuo padre. E di’, quella donna? quella donna? Tu l’hai ancora in casa?
– Andrà via domani, Monsignore, – s’affrettò a rispondergli don Arturo, finendo d’asciugarsi le lagrime. – Ha dovuto preparar le sue robe…
– Bene bene, subito via, subito via. Che hai da dirmi, figliuolo mio?
Don Arturo trasse fuori il pacco delle cambiali, e subito cominciò a esporre il piato per esse coi parenti, e le visite e le lamentazioni delle vittime.
Ma Monsignor Landolina, come se quelle cambiali fossero armi diaboliche o imagini oscene, appena gli occhi si posavano su esse, tirava indietro il capo e muoveva convulsamente tutte le dita delle gracili mani diafane, quasi per paura di scottarsele, non già a toccarle, ma a vederle soltanto, e diceva al Filomarino che le teneva su le ginocchia:
– Non lì sull’abito, caro, non lì sull’abito…
Don Arturo fece per posarle su la seggiola accanto.
– Ma no, ma no… per carità, dove le posi? Non tenerle in mano, caro, non tenerle in mano…
– E allora? – domandò sospeso, perplesso, avvilito, don Arturo, anche lui con un viso disgustato e tenendole con due dita e scostando le altre, come se veramente avesse in mano un oggetto schifoso.
– Per terra, per terra, – gli suggerì Monsignor Landolina. – Caro mio, un sacerdote, tu intendi…
Don Arturo, tutto invermigliato in volto, le posò per terra e disse:
– Avevo pensato, Monsignore, di restituirle a quei poveri disgraziati…
– Disgraziati? No, perché? – lo interruppe subito Monsignor Landolina. – Chi ti dice che sono disgraziati?
– Mah… – fece don Arturo. – Il solo fatto, Monsignore, che han dovuto ricorrere a un prestito…
– I vizii, caro, i vizii! – esclamò Monsignor Landolina. – Le donne, la gola, le triste ambizioni, l’incontinenza… Che disgraziati! Gente viziosa, caro, gente viziosa. Vuoi darla a conoscere a me? Tu sei ragazzo inesperto. Non ti fidare. Piangono, si sa! È così facile piangere… Difficile è non peccare! Peccano allegramente; e, dopo aver peccato, piangono. Va’ va’ ! Te li insegno io quali sono i veri disgraziati, caro, poiché Dio t’ha ispirato a venir da me. Sono tutti questi ragazzi sotto la mia custodia qua, frutto delle colpe e dell’infamia di codesti tuoi signori disgraziati. Da’ qua, da’ qua!
E, chinandosi, con le mani fé’ cenno al Filomarino di raccattar da terra il fascio delle cambiali.
Don Arturo lo guardò, titubante. Come, ora sì? Doveva prenderle con le mani?
– Vuoi disfartene? Prendile! Prendile! – s’affrettò a rassicurarlo Monsignor Landolina. – Prendile pure con le mani, sì! Leveremo subito da esse il sigillo del demonio, e le faremo strumento di carità. Puoi ben toccarle ora, se debbono servire per i miei poverini! Tu le dai a me, eh? Le dai a me; e li faremo pagare, li faremo pagare, caro mio; vedrai se li faremo pagare, codesti tuoi signori disgraziati!
Rise, così dicendo, d’un riso senza suono, con le bianche labbra appuntite e con uno scotimento fitto fitto del capo.
Don Arturo avvertì, a quel riso, come un friggio per tutto il corpo, e soffiò. Ma di fronte alla sicurezza sbrigativa con cui il superiore si prendeva quei crediti a titolo di carità, non ardì replicare. Pensò a tutti quegli infelici, che si stimavano fortunati d’esser caduti in sua mano e tanto lo avevano pregato e tanto commosso col racconto delle loro miserie. Cercò di salvarli almeno dal pagamento degli interessi.
– E no! E perché? – gli diede subito su la voce Monsignor Landolina. – Dio si serve di tutto, caro mio, per le sue opere di misericordia! Di’ un po’, di’ un po’, che interessi faceva tuo padre? Eh, forti, lo so! Almeno del ventiquattro, mi par d’avere inteso. Bene; li tratteremo tutti con la stessa misura. Paghe ranno tutti il ventiquattro per cento.
– Ma… sa, Monsignore… veramente, ecco… – balbettò don Arturo su le spine, – i miei coeredi, Monsignore, hanno stabilito di liquidare i loro crediti con gl’interessi del cinque, e…
– Fanno bene! ah! fanno bene! – esclamò pronto e persuaso Monsignor Landolina. – Loro sì, benissimo, perché questo è denaro che va a loro! Il nostro no, invece. Il nostro andrà ai poveri, figliuolo mio! Il caso è ben diverso, come vedi! È denaro che va ai poveri, il nostro; non a te, non a me! Ti pare che faremmo bene noi, se defraudassimo i poveri di quanto possono pretendere secondo il minimo dei patti stabiliti da tuo padre? Sian pur patti d’usura, li santifica adesso la carità! No no! Pagheranno, pagheranno gli interessi, altro che! gl’interessi del ventiquattro. Non vengono a te; non vengono a me! Denaro dei poveri, sacrosanto! Va’ pur via senza scrupoli, figliuolo mio; ritorna subito a Roma ai tuoi diletti studii, e lascia fare a me, qua. Tratterò io con codesti signori. Denaro dei poveri, denaro dei poveri… Dio ti benedica, figliuolo mio! Dio ti benedica!
E Monsignor Landolina, animato da quell’esemplare, fervidissimo zelo di carità, di cui meritamente godeva fama, arrivò fino al punto di non voler neppure riconoscere che la cambiale dei quattro poveri fratelli Morlesi che dormivano sempre, firmata per mille, fosse in realtà di cinquecento lire; e pretese da loro, come da tutti gli altri, gl’interessi del ventiquattro per cento anche su le cinquecento lire che non avevano mai avute.
E li voleva per giunta convincere, filando tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia, che fortunati erano davvero, fortunati, fortunati di fare, anche nolenti, un’opera di carità, di cui certamente il Signore avrebbe loro tenuto conto un giorno, nel mondo di là…
Piangevano?
– Eh! Il dolore vi salva, figliuoli!
I Fortunati – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
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