I due giganti – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Neri, enormi, in quella fiamma prodigiosa, scrollavano a ogni minimo gesto tutta la notte, come se dalla tenebra volessero ricreare il mondo, ridargli forze, abolendo il tempo, una sempiterna giovinezza e davvero la falce della luna e le selve dei misteriosi sogni da falciare.»

Prima pubblicazione: L’Illustrazione italiana, 4 giugno 1916.

I due giganti
Vincent Van Gogh, Cipressi, 1889

I due giganti

Voce di Giuseppe Tizza

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             Un antico muro scrostato – ma sì, lo vedo bene. E forse fu rosso cent’anni fa. Sferzato dalle pioggie alte invernali, argine ai polveroni turbinosi di tra­montana, s’è fatto terroso, con appena una velatura sporca, tra le crepe, di quell’antica mano di rosso. E dove le vestigia slavate e ingiallite dell’intonaco sussistono, i luridi monelli del viale hanno schizzato a punta di sasso o col carbone segnacci osceni, motti sconci, sgorbii di cani, di serve e di carabinieri. Ma sorveglia più giù il barbuto guardiano gallonato, dalla mattina alla sera con le spalle appoggiate alla cancellata, mangiandosi i sozzi mustacchi strinati al passaggio d’ogni solitario signore ben vestito.

             E il muro di cinta dell’ultimo lembo superstite d’un magnifico parco patrizio, ricco un tempo di pini e di cipressi. Seguiva prima, ininterrotto, quasi tutto il lato destro del lungo e vasto viale, dalla porta della città fino in fondo, per circa un miglio. Ora son case e vie ove il parco dominava selvaggio e mae­stoso: dadi di casette bianche, quasi di giuoco infantile, vialetti rassettati e piazzalini sterrati puliti, su cui incombe di tratto in tratto, come a schiacciarli, qua il tronco poderoso d’un pino dall’immensa cupola intramata di neri bron­chi, di cielo chiaro e di fosco verde; là, isolato, escluso nell’azzurro, un not­turno cipresso centenario, alla cui punta pare s’impiglino le nuvole. Rimasti l’uno e l’altro staccati, come in esilio, guardano da lontano con tristezza al folto dei compagni più giù, nel lembo superstite, cinto da quest’antico muro. Ebbene, fu qua che i due giganti m’apparvero, una notte di quest’inverno. Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge come un grande O accanto a quel cipresso dritto come un grande I, che alti la notte nel cielo stel­lato possono, oh beati!, scrivere un IO in due.

*******

             Una notte di quest’inverno. Ma per parlare della maravigliosa vita di questi due giganti bisogna rimontare a un’epoca favolosa, remotissima, quando l’ul­tima primavera brillò con tutte le sue foglie dagli alberi di questo viale.

             Lo scorso maggio? Sette, otto mesi fa?

             Sì. A contare il tempo ad anni, a mesi, a giorni, non più di otto mesi fa. Ma io pensavo – scusate – che quando una cosa è accaduta, jeri, un minuto fa, non accadrà mai più; e che il minuto che segna una fine possiamo contarlo da quelli che seguono; dire: cinque, dieci, venti minuti fa; poi, assommandosi e facendosi troppi, non li contiamo più, e diciamo jeri, diciamo l’altro jeri; poi, una settimana, un mese, due mesi fa; e poi, se era la fine d’una piccola cosa, non ci pensiamo più, ed eccola svanita quella piccola cosa, una vita, un og­getto che c’era caro, nel vuoto dell’eternità.

             Otto mesi, dal giorno che queste foglie ora sparse qua per terra lungo il muro, secche accartocciate sfrante, spuntarono verdi e brillarono fresche dai rami alti degli alberi di questo viale, in un azzurro che non è più, che non sarà mai più; otto mesi, credete, son pure un’epoca favolosa, remotissima.

             E chi vi dice poi, che riavranno un’altra primavera tutti quanti gli alberi di questo viale? Ciò che loro sanno, ciò che sa quell’ultimo cimignolo lì in vetta in vetta, del mistero della terra profonda, ove s’aggrappano cieche le loro radici, né io né voi sappiamo. Son note a loro, forse, quelle oscure necessità della vita e della morte, che a noi il falso lume dell’intelligenza non fa vedere. Forse il lume vero è dove è bujo per noi, in queste necessità che ci restano oscure, nelle quali le cose, la pianta e la pietra, vivono assorte e immemori.

             Del resto, che sapete voi di ciò che poteva essere accaduto nel mio spirito in quella notte d’inverno, per cui l’ultima primavera gli appariva come un’epoca favolosa, remotissima? Che sapete voi donde io tornassi quella notte, e quale combattimento avessi sostenuto con me stesso per ricacciare indietro il tempo che mi si voleva far presente e vivo con una sua tentatrice immagine di primavera?

******

             A lungo, a lungo due giovanili occhi intenti da un viso chiaro, di rosea fre­schezza, tra un vivido lampeggìo festoso di specchi, di lumi, di gemme, m’a­vevano fissato con una pena che ardeva di cangiarsi subito in gioja, se per poco i duri miei occhi che li fuggivano si fossero arrestati a dir sì.

             Volevano esser fascino, quegli occhi; furono stupore triste in prima per me; poi cupo sdegno.

             Nel primo stupore i miei occhi avevano voluto allontanare di almeno Cen­t’anni, di almeno trent’anni da me quell’immagine di giovinezza, per indurla pietosamente a riconoscersi così da lontano, come in uno specchio, con quei suoi occhi intenti, nel mio vero aspetto – vecchia. Vecchia, sì, come di qui a trent’anni si sarebbe ella stessa veduta in un ritratto che l’avesse rappresentata a sé con l’immagine d’ora; vecchia come quando, nel mirar questo ritratto, avrebbe potuto dire:

             – Oh, guarda! Ero così…

             – Vecchia così tu sei ora per me, immagine di giovinezza, – dicevano i miei occhi nel loro stupor triste a quegli occhi che s’ostinavano a fissarmi intenti.

             E dicevano anche:

             – Ti vedo lontana lontana… Sì, con codesti occhi stessi. E il tuo piedino, ricordi? premeva sul mio piede. Non ti risuonano fievoli con angosciosa dolcezza le note di quelle musiche lontane, nell’affollato passeggio delle balsamiche sere estive, al mare, con tutte quelle lampade e i guizzi fuggevoli dei cocchi signorili, l’odore delle alghe che viene dalle banchine, la fragranza inebriante dei gelsomini e delle zagare che viene dai giardini? Se tu ti alzi, io lo so, il tuo piedino zoppica un poco… Ma com’è, dimmi, che sei ancora così fresca? Ti dai certo il belletto su le guance, cara, e ti ritingi i capelli… Non vedi che i miei su le tempie sono già bianchi?

             S’ostinavano a dir no, quegli occhi, che non era vero. M’invitavano a respi­rare da presso la fragrante freschezza dei capelli e delle carni, e dicevano ch’io farneticavo a immaginare che uno dei piedini di lei zoppicasse. Dove? Quando? O che era forse il diavolo? Perché non andavo a invitarla a danzare? Avrei subito veduto che i suoi piedini, altro che zoppicare! volavano, reg­gendo su le elastiche punte tutta la leggiadra persona come una piuma.

             – Trent’anni fa…

             – No, qua, ora, – dicevano quegli occhi; insistevano: – Ora, ora! – con cu­pida intensità.

             – Ora? Ma che dici? Tu sei pazza; o tu vuoi riderti di me. Via! via! Non di trent’anni solamente, ma d’un incommensurabile tempo, tu e queste luci di festa e quanti ti girano attorno mi siete lontani.

             – Lontani? Ma io sono qua! Ora, sì, ora… Non vedi? Perché non vieni? Non ti son più lontana d’otto o dieci passi…

             – No, cara, sempre, anche se venissi ad abbracciarti, resterebbe in me que­st’infinita lontananza da cui ora ti guardo! Posso, come niente, spogliarti di codesta veste verde di seta che t’inguaina, e vederti uscir nuda da una cortec­cia di querce, ninfa di bosco, alla luna che t’invoglia insieme con le tue ninfe compagne a una danza coi satiri procaci. Questo rumor di festa, che nei tuoi occhi s’è incantato in un silenzio di sogno tentatore, è per me il frusciare di quel bosco favoloso, dove tu sei ninfa ignuda con prolissi capelli di viola. Anche tu, così incantata nel silenzio, non sei più qua, ora. Che vedi? Me, gio­vine? In un tempo immemorabile, cara. Giovine io fui in quell’epoca favolosa che tu eri ninfa di bosco; e fui allora gigante di tale prodigiosa statura, che mi bastava alzare appena una mano per prendere in cielo la falce della luna a fal­ciare le selve sempre rinascenti dei miei sogni misteriosi. Credi, credi pure che un tuo piedino, cara, zoppica un poco, da quando quel rovo maligno te lo punse nel bosco. Io lo so.

*******

             Fuori, la tramontana, urlando come per spasimi ignoti e spaventevoli dello spazio tenebroso, aveva spento tutti i fanali di questo lungo e vasto viale, a cui io m’affacciai quasi impaurito, varcata la scura porta solenne della città an­cora tutta illuminata, sebbene deserta.

             Era adesso nella tenebra un silenzio e un gelo, un silenzio che dopo il sogno mi parve la fine di tutte le cose, un gelo che dava alle apparenze superstiti di esse, come s’intravedevano appena, spettrali, a un vano raro barlume ch’era quasi un brulichio della tenebra stessa, un disperato irremovibile avvilimento.

             Discernevo in quel barlume il nero groviglio dei rami e del frondame secco di tutti questi alberi in lunghissima fila, e orribilmente in quel silenzio gelato sentivo scricchiolare sotto i piedi le foglie accartocciate.

             Quand’ecco, in quella tenebra, in quel silenzio, in quel gelo, rovente, squil­lante fiammeggiò a incendiare tutta la notte, rosso e nuovo, quest’antico muro di cinta, come del riverbero d’una prodigiosa aurora, e su esso così tutto fiammeggiante i due giganti maravigliosi apparvero e mossero tra lo stupore immoto degli alberi e delle case i loro terribili gesti.

             Restai atterrito a mirarli da lontano, dalla profondità gelida della mia notte.

             Neri, enormi, in quella fiamma prodigiosa, scrollavano a ogni minimo gesto tutta la notte, come se dalla tenebra volessero ricreare il mondo, ridargli forze, abolendo il tempo, una sempiterna giovinezza e davvero la falce della luna e le selve dei misteriosi sogni da falciare. Eh via, via le città dalla faccia della terra, vile ingombro da mandar con un calcio per aria, rotolio di minuscoli mondi grotteschi, con cieli di tegole e travi e lumini da notte per stelle; e restituire gli uomini all’altezza dei cieli veri e delle montagne e dei boschi; all’ampiezza dei mari senza più gusci di navi; restituirli alla loro statura di gi­ganti, da prendere in cielo, sollevando appena un braccio, la falce della luna; da scavalcar con un passo le montagne; da traversare a piedi a livello della cintola i mari; e tentare, tentar di nuovo la scalata dei cieli; poggiare su un’al­tra più degna stella e far con un calcio rotolare negli abissi degli spazii infiniti questa vile pallottola della terra.

             Ecco, alzava il piede possente uno dei giganti; l’altro levava fino al cielo le braccia in attesa del crollo della terra, quando tutt’a un tratto la fiamma prodi­giosa mancò.

             Ma sì, lo so bene, due luridi straccioni del viale tendevano un piede e le mani al focherello che si spegneva d’un mucchietto di foglie secche raccolte presso quest’antico muro di cinta, il quale – ma sì! – è tutto crepe, lo vedo, e con appena una velatura sporca della sua antica mano di rosso. Anche però il vostro volto, s’io vedo bene, è tutto crepe e solchi di rughe, e anche i vostri capelli hanno appena appena un vestigio del loro primo color biondo d’oro; e vorrei pregarvi di ricordare, se non sono importuno, che cosa vi sembrava codesta miserabile vecchia mezzo gobba che ancora vi strascinate accanto e tutto il mondo e la vostra stessa persona, quando vi ardevano dentro in belle fiammate illusioni, speranze e desiderii.

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