Legge Giuseppe Tizza.
«Vaporavano tutt’intorno dalle terre assolate vecchi odori, di tante cose sparse e seccate da anni all’aperto, e qua si mescolavano coi tepori grassi del letame, col tanfo secco delle granaglie, con quello acre della paglia bruciata e bagnata del forno.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 1 dicembre 1912, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.
I due compari
Voce di Giuseppe Tizza
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Motivo di maraviglia, e anche d’invidia in tutte le contrade attorno, era il caso di Giglione e Butticè, soci da undici anni nell’affitto della vecchia masseria della Gasena. Non era mai avvenuto che padre e figlio, o due fratelli, durassero a lungo soci nell’affitto d’una terra: figurarsi poi due estranei! Eppure, tra quei due, in undici anni di società, non era mai sorto il minimo contrasto, né d’interessi né d’altro.
Le loro famiglie erano cresciute accanto, nel cortile della masseria, in due ampie stanze a terreno dove, al tempo degli antichi massari, si rammentavano i raccolti abbondanti della terra.
Quelle due stanze non avevano finestre sulla facciata e prendevano luce soltanto dalla porta sul cortile, ch’era vasto e acciottolato, con la cisterna in mezzo, e cinto tutt’intorno da un muro alto, armato da un’irta e fitta cresta di pezzi di vetro, sfavillanti al sole. La bianchezza accecante della calce faceva sembrar quasi nero l’azzurro intenso e ardente del rettangolo di cielo su quel cortile. Vi si respirava ancora, con le tante galline che lo popolavano, e i polli d’India, i capponi, i porcellini, l’aria dell’antica e ricca masseria, quantunque giù in fondo fosse vuoto da tempo il chiuso delle pecore, e sotto la tettoja, dopo il forno, invece delle vacche ci fossero soltanto due mule e un asinello.
Vaporavano tutt’intorno dalle terre assolate vecchi odori, di tante cose sparse e seccate da anni all’aperto, e qua si mescolavano coi tepori grassi del letame, col tanfo secco delle granaglie, con quello acre della paglia bruciata e bagnata del forno. Com’ebbre, in quell’onda stagnante di odori misti, ronzavano senza fine le mosche; e da lontane aje, nel silenzio dei piani, giungeva il canto di qualche gallo, a cui rispondevano, prima l’uno e poi l’altro, o talvolta insieme, con due diverse voci, i galli del cortile. E quel ronzio e questo canto dei galli e il frusciare degli alberi non rompevano, anzi rendevano più attonito lo stupore della natura, non turbato mai da vicende che non fossero le solite, lentissime e sicure, su le quali gli uomini, le opere e i buoi regolavano la loro andatura.
Costantemente, per undici annate, la terra aveva risposto alle dure fatiche dei due soci. E anche le mogli pareva avessero gareggiato di fecondità con la terra. Desiderio degli uomini era aver figliuoli, e averli maschi, per i lavori della campagna. E cinque ne aveva dati Luna e cinque l’altra, ajutandosi tra loro ogni volta, nei parti, amorosamente, senza dare né un pensiero né un fastidio ai mariti che non avevano tempo da perdere in queste cose. Ritornando a mezzogiorno per il desinare, o la sera per la cena, avevano trovato un figlio di più:
– Maschio?
E avevano approvato col capo, senz’altre parole.
Giglione non parlava quasi mai. Sempre, quando bisognava, trattando col padrone della terra o coi mercanti di città, lasciava parlare il compagno. Placido e duro, col faccione tondo cotto dal sole e tutto raso, egli si stirava il lobo dell’orecchia manca e stava a sentire e a pensar le risposte di quelli; poi, se occorreva, diceva la sua: due parole e non di più.
Butticè ricciuto e vivace, col perpetuo riso lucente degli occhi azzurri, mobili e maliziosi, e paroline dolci e ammiccamenti, s’adoperava ad attenuare la durezza del socio; ma il padrone o il mercante guardavano gli occhi impassibili del taciturno irremovibile, e delle maniere graziose di Butticè non solo non sapevano che farsene, ma anzi quasi s’infastidivano.
Giglione era l’albero ben radicato; Butticè, l’uccello che gli svolazzava tra i rami cantando. Non s’era ancor potuto capire, se dello svolazzio e del canto di quell’uccello l’albero fosse, o no, contento. Se qualcuno gli domandava:
– Ma, insomma, voi che ne dite?
Giglione alzava una mano e col pollice sotto il lobo e l’indice alzato sul padiglione, mostrava l’orecchia, per significare che a lui toccava sentire e che il parlare era affare del compagno.
Il segreto di quel loro accordo era nell’impegno che ciascuno dei due aveva sempre messo di non farsi mai sorpassare dall’altro in nulla.
Nati e cresciuti insieme nelle lontane alture dei Gallotti sopra Montaperto, erano stati rivali accaniti fino al giorno che i padri, per impedire che anch’essi come quasi tutti i giovani della borgata prendessero la via dell’America, li avevano accasati appena di ritorno dal servizio militare. Riavvicinati dalle mogli, tra loro cugine, per non danneggiarsi a vicenda ora che avevan famiglia, s’erano appajati, cangiando in emulazione l’antica rivalità. Pronti sempre a qualunque fatica, ciascuno dei due cercava d’esonerare il compagno delle più gravose; e compenso era a entrambi la soddisfazione di sentirsi pari in tutto e l’uno degno dell’altro.
Ora, per la sesta volta era incinta la moglie di Butticè. Si aspettava il parto di giorno in giorno. Giglione, due mesi avanti, aveva avuto una femmina; e la sera, nel cortile, mentre le due donne al lume della lucerna a olio raccoglievano le rozze scodelle di terracotta, ove i figliuoli avevano mangiato la minestra, lanciava di sfuggita qualche obliquo sguardo di diffidenza ai fianchi poderosi della moglie del socio, che avrebbe potuto sbilanciar le sorti finora eguali.
Finalmente una mattina prima che rompesse l’alba, l’incinta fu colta dalle doglie. Butticè corse a picchiare alla porta accanto, la comare fu pronta in un momento; e i due uomini sotto il cielo ancora stellato, con le zappe in collo, s’avviarono per la costa.
Non passò un’ora che a Giglione parve di sentire la voce del maggiore dei figliuoli, che chiamava dal portone del cortile. Butticè, che lavorava poco discosto, domandò:
– Non ti pare che abbiano chiamato?
– Così pare, – rispose Giglione; e, ponendosi le mani attorno alla bocca, diede la voce:
– Aoòh!
Butticè lascio la zappa e si lanciò di corsa su per l’erta. Giglione gli tenne dietro, correndo anche lui, a fatica.
Trovarono su nel cortile una gran confusione: dietro la porta socchiusa della stanza di Butticè s’affollavano i ragazzi, reggendo a stento e strascicando per terra bracciate di ruvida biancheria, lenzuola, tovaglie, sottane, camice, che la moglie di Giglione, sporgendo il capo scarmigliato e le mani tremanti e insanguinate, strappava loro di furia.
Il parto era avvenuto. Un maschio. Ma la puerpera perdeva sangue, perdeva sangue in spaventosa abbondanza, e non c’era verso d’arrestarlo. Bisognava correr subito al paese di Favara per un medico.
Butticè, alla vista della moglie in quello stato, restò; ma quasi più stizzito che addolorato. Tanto che, come Giglione lo trasse fuori e lo alzò su le braccia a dosso della mula e gli diede in mano la fune della cavezza, gridandogli:
– Scappa! – adirato da quella violenza, gli rispose col viso sbiancato e senza muoversi:
– E se non volessi scappare?
– Scappa, in nome di Dio! Dici sul serio?
E Giglione spinse a due mani per di dietro la mula e le allungò un calcio.
Tre ore dopo, Butticè ritornò col medico. Appena entrato nel cortile, alla vista del socio e della comare e di tutti i ragazzi, lì muti e abbattuti ad aspettarlo, comprese ch’era finita. Lo aveva immaginato; aveva preveduto quella scena al suo arrivo. Provò una fiera irritazione; avvilimento e rabbia. Gli occhi ilari gli lucevano di follia.
– Come siete belli tutti! – disse; e scavalcò dalla mula e s’arrestò davanti la soglia della sua stanza.
Stesa lunga sul letto, come se non le fosse restato nelle vene neppure una goccia di sangue, sua moglie era lì, più rigida e più bianca del marmo. La mirò un pezzo, quasi che, così lunga, così tesa, così bianca, non la riconoscesse più: poi varcò la soglia, s’accostò alla morta, e le domandò in un tono quasi derisorio:
– Che hai fatto?
Giglione, entrato zitto zitto nella stanza con la moglie e col medico, alzò una mano e glie la posò su la spalla in atto di commiserazione. Ma Butticè si scrollò con un fremito animalesco, gridandogli:
– Non mi toccare! – E uscì nel cortile.
Allora i figliuoli gli si fecero attorno, piangendo. Egli si chinò a cingerli con le braccia, come un fascio da prendere e buttar via:
– Che ci fate più qua, vojaltri, ancora vivi? Giglione, su la soglia della stanza, disse:
– Ai tuoi figliuoli non ci pensare. Ora mia moglie farà conto di averne dodici, invece di sei; e darà latte al tuo piccolo, e avrà cura di te come di me.
Butticè, ancora curvo sui figliuoli, gli lanciò da sotto in su uno sguardo, che balenò come una lama di coltello. Gli parve che il socio lo volesse pestare con la sua generosità, appena caduto sotto quell’ingiustizia della sorte; e senza neppur guardare un’ultima volta la morta, quasi che anche lei, quella mattina, a tradimento, avesse voluto diminuirlo, avvilirlo, annichilirlo, scappò via, scostando i figli, scostando tutti, via giù per la campagna, e andò a rintanarsi sotto un carrubo, lontano, come una bestia ferita a morte.
Stette lì due giorni e due notti. Sul far della seconda notte, si sentì chiamare a lungo dal socio prima dall’alto, poi a mano a mano più da presso, per i sentieri della campagna, tra gli alberi; sentì anche i passi di lui; altri passi, forse dei ragazzi; trattenne il fiato e, quando i passi e le voci s’allontanarono, godette di non essere stato scoperto. Levando però gli occhi intravide da uno sforo nel fogliame, ferma in cielo la luna e si sentì guardato da essa, avvertendo nella coscienza oscura come un rimescolio, tra di dispetto e di sgomento.
Pensò allora di risalire alla villa. Certo, il cadavere della moglie era stato, a quell’ora, portato via. Il socio lo voleva su, per fargli vedere che la moglie s’era attaccato al seno il piccino e come faceva da madre agli altri orfani. La carità. Poi, finito come ogni sera di mangiar la minestra, nel cortile, al lume della lucerna a olio:
– Buona notte, compare. Noi ce n’andiamo a letto.
E si sarebbe chiuso con la moglie e con tutta la sua famiglia intatta, là nella sua stanza; mentre lui sarebbe rimasto fuori, nel cortile, solo, scompagnato, coi suoi orfani. Ah, no, perdio! Questa soddisfazione non gliel’avrebbe data, all’antico rivale.
Risalì alla villa, la mattina all’alba. Ispido, con la faccia scavata, le occhiaje livide, gli occhi da pazzo, svegliò i figliuoli; ordinò ai più grandi che lo ajutassero a raccogliere la roba e a caricarla su la mula.
Giglione, al rumore, uscì dalla stanza accanto; stette un pezzo a guardare, poi gli domandò:
– Che fai?
Butticè stava a legare per terra un grosso fagotto di panni; si rizzò su la vita, gli piantò gli occhi in faccia e rispose:
– Me ne vado.
– Dove te ne vai? Sei pazzo? – replicò quello.
Butticè non rispose; si ridiede a legare per terra il fagotto. E allora Giglione riprese:
– Ma perché? Tu hai la pena, lo so, e nessuno te la vuol levare. Ma quanto al resto… tu e i tuoi figliuoli, qua…
Butticè tornò a rizzarsi su la vita; si pose un dito su la bocca:
– Zitto. Me ne devo andare.
– Ma perché?
– Per niente. Me ne devo andare.
– Così, su due piedi? Senza neanche fare i conti?
– Li faremo. Ora me ne devo andare.
Quando la roba fu caricata su la mula e su l’asino, che appartenevano a lui, disse al socio:
– Va’ a prendermi la creatura. Giglione giunse le mani:
– Ma sei impazzito davvero? L’ha al petto mia moglie. Vuoi che muoja?
– Muoja! Me ne devo andare.
Giglione andò di corsa a prendere il neonato e, con la faccia voltata, glielo porse.
– Tieni. Vattene! Non voglio più vederti!
– Tu? – disse allora con un ghigno Butticè. – E figurati io!
Cacciò avanti l’asino e la mula, e s’avviò coi cinque figliuoli dietro, e in braccio il piccino, a cui ancora dalla boccuccia paonazza pendeva una goccia di latte.
I due compari – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
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