Di Carlo Z. da Venezia.
E’ innegabile che la nostra interiorità sia piena di istantanee risalenti a un tempo passato, con figure che, proprio come nella vecchia stampa del racconto, rimarranno in eterna attesa di uno sviluppo e una conclusione organici e, conseguentemente, di un qualcosa che doti retrospettivamente la loro vicenda di senso.
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Un signore anonimo si perde nell’osservare i particolari di una vecchia litografia: “un viale scortato da giganteschi eucalipti. A sinistra, un poggio con su in cima un ricovero notturno. Due mendicanti che confabulano tra loro per quel viale, e che hanno lasciato un po’ più giù sulla spalletta una bisaccia e una stampella. Un’alba di luna che si indovina dal giuoco delle ombre e delle luci.”
Il tutto, rappresentato con una tale precisione di linee che la scena ne affiora senz’anima, come pietrificata dalla sua eccessiva nitidezza; spingendo l’osservatore a proiettare, su quell’antica stampa, un alito di vita per mezzo della propria fantasia.
L’immagine prende vita, ha inizio il racconto vero e proprio. La reale ambientazione della novella è allora il viale di eucalipti, e i protagonisti diventano i due mendicanti che confabulano tra loro.
A uno viene affibbiato il nome di Alfreduccio; all’altro, il soprannome de “il Rosso”.
E’ estate e, a quanto essi si dicono, sono tra i pochi a essere rimasti in città; il resto dei signori da loro conosciuti pare essersi fiondato a trascorrere la villeggiatura a Sopri, una località che dista circa tre miglia di cammino dal viale. Per il Rosso, l’ideale sarebbe di mettersi in cammino verso quel paese, per procurarsi quel tanto di elemosina necessaria a sopravvivere.
Trascorrono due giorni, e la stampa si anima della presenza di Marco, un terzo mendicante; che Alfreduccio e il Rosso hanno invitato ad aggiungersi a loro poiché, altrimenti, si sarebbero sentiti troppo soli a intraprendere la loro piccola avventura.
Da qui in poi, la trama principale si scardina in una quantità di piccole sotto-storie relativamente indipendenti, rese tuttavia sempre gustose dal contesto statico e surreale in cui si avvicendano.
Tanto Marco quanto Alfreduccio ci vedono molto poco, si può anzi dire che siano ciechi; cosa che, unitamente ai continui bisticci che li coinvolgono; fa sì che i mendicanti non facciano altro che vagabondare su e giù, avanzando di pochi passi, sempre mantenendosi entro i confini del loro angusto universo. Sopri, meta sospirata di un viaggio che non avverrà mai, permane fino alla fine come elemento di sfondo, fantasma di un desiderio destinato a rimanere in sospeso per sempre.
Colto da una febbre improvvisa, Marco si adagia a lato del viale; il Rosso si incammina verso lo sfondo della stampa, in cerca di una bettola in cui far cuocere una gallina da poco catturata; e Alfreduccio, in attesa che l’amico ritorni dalla sua ricerca, se ne rimane in compagnia del malato, con ancora in bocca il papavero che il Rosso, per fargli un dispetto, gli aveva fatto addentare.
“- Sciocco, sta’ fermo! E’ un fiore. Apri la bocca. Ti voglio lasciare così, come uno sposino.
Torna a sghignazzare, e se ne va.
Alfreduccio resta fermo un pezzo con quel papavero in bocca. Ode dallo stradone ancora una risata del Rosso. Poi, più nulla.”
Il silenzio del paesaggio viene dunque turbato da una voce di donna, che all’udito del non-vedente Alfreduccio pare molto lontana; ma si tratta di un momento, il mendicante resta in ascolto inutilmente, non trovandovi altro che quiete e riposo.
“E Alfreduccio rimane in ansia, costernato, non potendo più indovinare se quella donna si avvicini o si allontani. Si rimette in bocca il fiore.
– Le donne…
(Forse è meglio finire qui. Non val la pena stare ancora a far spreco di fantasia su questa vecchia stampa di maniera.)”
La novella si conclude così, inaspettatamente, troncando sul vivo il racconto che aveva preso vita al suo interno. Ne emergono una suggestione e un fascino difficilmente definibili, che una trama convenzionale non avrebbe mai potuto restituire con altrettanta vividezza.
La sensazione è che la vecchia stampa ci parli della natura delle nostre fantasie, delle narrazioni che timidamente nascono dentro di noi e che quasi sempre muoiono poco dopo, incomplete e dimenticate, senza trama né storia.
E’ innegabile che la nostra interiorità sia piena di istantanee risalenti a un tempo passato, con figure che, proprio come nella vecchia stampa del racconto, rimarranno in eterna attesa di uno sviluppo e una conclusione organici e, conseguentemente, di un qualcosa che doti retrospettivamente la loro vicenda di senso.
Inevitabile; sorge il dubbio che l’esistenza di un uomo in carne e ossa non sia affatto diversa da quella dei mendicanti di “Guardando una stampa”
Carlo Z. da Venezia
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