La doppia creazione. L’accumulo e lo scarto in Giustino Roncella nato Boggiòlo

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Di Annachiara Monaco

A essere mostrata è una donna che scrive, raramente colta nell’atto, andando a sancire con il silenzio il legame che tiene in equilibrio squilibrante la propria penna. Il suo lato in ombra è quel cono ritagliato dalla mano ripiegata sul foglio, nel gesto massimo di raccoglimento, capace di trattenere la sproporzione della percezione di sé che dilaga al di là della pagina.

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Giustino Roncella nato Boggiolo. Analisi

La doppia creazione.
L’accumulo e lo scarto
in Giustino Roncella nato Boggiòlo

da Adi – Associazione degli Italianisti

La dialettica contrappositiva tra il genere femminile e quello maschile viene, in questo romanzo pirandelliano, associata al processo della doppia creazione che, rispettivamente, nella carta scartata e nella riduzione della parola a calcolo economico, trova un duplice correlativo oggettivo: quasi una bipolarità necessaria tra creazione metafisica e sua riduzione pratica nella mercificazione dell’arte. La riscrittura dei ruoli codificati dalla logica borghese, del tutto rovesciati a partire dai cognomi, si riflette nel paradigma della madre disattesa, figura vincolata a un equilibrio convenzionale che, innanzitutto in quanto donna, deve sostenere, ma sbilanciata dal peso duplice di qualcosa a cui ella stessa dà consistenza. La contrapposizione tra il versante spirituale, caratterizzato dalla scrittura, e il suo doppio materico, dato dalla messa in scena, è anticipata dallo scribacchiare di Silvia (sorprendente è la coincidenza con lo stilema sveviano) e il contare sui tasti della macchina da scrivere di Giustino. All’accumulo materico della carta scritta corrisponde quello delle fatture e dei contratti, con un’ultima inversione di senso, alla fine del romanzo, che toglie peso e scompagina proprio le carte accumulate per calcolo. 

La Doppia Creazione può essere strettamente associata alla dialettica contrappositiva tra genere femminile e maschile che, rispettivamente, nella carta scartata e nella parola ridotta a mero calcolo economico trovano un loro correlativo oggettivo. Infatti, il processo di creazione e di mercificazione dell’arte riscontrano, all’interno dell’opera presa in esame, ossia Giustino Roncella nato Boggiòlo, [1] una loro trasposizione nella scrittura e nella messa in scena, associate l’una al versante spirituale e l’altra al suo doppio materico.

[1] Giustino Roncella nato Boggiòlo, venne pubblicato postumo nel 1941 da parte di Stefano Pirandello, figlio dell’Autore. Infatti, quest’ultimo, all’interno dell’Avvertenza di Stefano Pirandello a Giustino Roncella nato Boggiòlo sottolinea come Pirandello non permise più la ristampa di questo romanzo (ricordiamo che venne pubblicato nel 1911 con il titolo di Suo Marito da un editore minore, poiché, a quanto pare, la notizia della diffusione di un romanzo che traeva spunto dalla vicenda matrimoniale di Grazia Deledda spinse la scrittrice a fare in modo che venisse respinto dalle case editrici di maggior lustro). Tuttavia, questo gesto all’Autore «gli si rivelava sempre meno giustificato», spingendolo a voler ritornare sul testo, ma la morte gli impedì di portare a compimento la riscrittura.

Le figure di Silvia e di Giustino, i protagonisti del romanzo, consentono, inoltre, tramite il rovesciamento dei loro cognomi, di addentrarsi nella riscrittura dei ruoli di marito e moglie, codificati dalla logica borghese, su cui si dispiega la postura semanticamente connotata della madre disattesa, figura vincolata a un equilibrio convenzionale che, innanzitutto in quanto donna, deve sostenere, ma sbilanciata dal peso duplice di qualcosa a cui ella stessa dà consistenza.

Umberto Artioli, nel suo saggio Suo Marito di Pirandello e il tema della doppia creazione[2] sottolinea come in due versetti della Genesi venga sostenuto prima che l’uomo sia stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, per poi ricondurre la sua creazione a un impasto di pneuma e argilla.

[2] Umberto Artioli, Suo Marito di Pirandello e il tema della doppia creazione, in Delia Gambelli e Fausto Malcovati (a cura di), La scena ritrovata. Mitologie teatrali del Novecento, Bulzoni Editore, 2005.

Questo aspetto non solo consente di notare come l’elemento materico abbia fatto la sua irruzione in un processo interamente spirituale, ma soprattutto come, in questo caso in particolare, quanto da Artioli viene definito come spurio e intrusivo sia riconducibile alla carta che, a seconda della mano che la stringe, trova una sua diversa declinazione. Eppure, per quanto quest’ultima sia concepita come materia, tra le mani di Silvia è associata alla scrittura, mentre tra quelle di Giustino al denaro, elemento che ingloba acusticamente il silenzio, tutela della parola impressa su carta, squarciando con le luci del palcoscenico l’ombra che sola preserva lo scribacchiare (sorprendente corrispondenza sveviana) della donna.

Infatti, è come se la pagina e il denaro fungessero, rispettivamente, da superfici che sostengono il processo su cui si impernia lo sdoppiamento che regge la struttura del romanzo, riflettendo da un lato l’ombra, mentre dall’altro ciò che cancella quest’ultima. Dunque, se Silvia scrive, Giustino conta, ma soprattutto ri-conta le parole della moglie a cui non solo viene associato un peso, ma è necessario che si manifestino sotto questa consistenza. Ed è proprio la postura della mano mentre scrive, concepita nella totalità avvolgente dell’arto che fa ombra sulla parola, a preservare il silenzio completamente smembrato dalle dita che, nel loro contare, maneggiano il singolo elemento e smagliano il reticolato che sostiene la pagina scritta. Dunque, i nodi d’ombra, di cui si costituisce l’intelaiatura stessa della pagina, vengono recisi dalle dentellature dei bordi delle monete, tagliando quelle fibre che consentono di concepire la carta come una rete mai inerte.

Ed è, ancora, Umberto Artioli a dare una lettura di Giustino che approfondisce la sua costituzione materica, vedendo l’uomo come un Demiurgo, «autore della Creazione materiale ritenuta erronea o deficitaria». [3]

[3] Umberto Artioli, Suo Marito…, 202.

Si tratta, dunque, di una figura che corrompe il processo di creazione, incarnato dalla moglie, a cui si vuole sovrapporre e sostituire, attuando quasi un’inversione della rotazione della penna che scrive, ponendosi e presentandosi come artefice della sua opera. Infatti, Giustino non scrive, bensì ricopia la firma della moglie, che corrisponde a uno dei pochi momenti in cui impugna la penna, nel tentativo di riscrivere la sua figura per sovvertire il suo ruolo, creando una sovrapposizione di grafie che nel suo essere definito «Roncello» [4] trova una trasposizione. Eppure, Giustino è mano ancor prima di essere visto poiché viene associato alla sua calligrafia, spostando nuovamente l’attenzione sull’esteriorità del processo della scrittura, la cui conoscenza gli consente di «vedere chiaro nei contratti». [5] Dunque, l’uomo non scrive, bensì annota, converte la parola in merce, tenendo fede al suo impiego di archivista, sottoponendo quest’ultima a una riduzione economica, traducendola in mezzo di compilazione. Infatti, porta con sé un taccuino dove annota tutti i denari «ch’egli avrebbe speso, se si fosse sbilanciato». [6]

[4] Luigi Pirandello, Suo Marito e Giustino Roncella Nato Boggiòlo, p. 180.
[5] Ivi, 137.  [6] Ivi, 181.

Ed è proprio questo verbo, in particolare, che permette di soffermarsi su come il gesto di impugnare la penna sia strettamente legato all’inclinazione della mano, quasi una perdita di equilibrio, direttamente associabile alla figura della madre disattesa. Si consideri, dunque, quanto affermato da Liliana Cavarero, affiancando il concetto di inclinazione a quello di maternità:

it is commonly understood that the maternal is, for women, an inclination […]. Not, however, in the sense usually invoked, that feminine nature is inclined to maternity; but rather in the sense, truer to the etymology of the term, that “every inclination turns outwards, it leans out of the self” […]. [7]

[7] Bernadette Luciano – Susanna Scarparo, Maternal Ambivalence in Contemporary Italian Cinema, in Giovanna Faleschini Lerner – Maria Elena D’Amelio, Italian Motherhood on Screen, Italian and Italian American Studies, 2017, 54 (del passo citato fornisco la traduzione: è comunemente noto che il materno è, per le donne, una inclinazione […]. Tuttavia, non nel senso a cui comunemente ci si appella, che la natura femminile è inclinata verso la maternità; ma, nel senso, più vicino all’etimologia del termine che “ogni inclinazione volge verso l’esterno, propendendo al di là di sé stessi”).

Quindi, l’inclinazione non prevede più una postura eretta, accogliendo nella sua semantica condivisa una esposizione sbilanciata dal grembo della donna, replicato, ancora una volta, dalla forma avvolgente assunta dalla mano nello scrivere. Così, nel passaggio di quest’ultima sul foglio, si assiste a una gestazione della parola nel suo imprimersi su carta, ridotta ad appunto frettoloso tra le dita di Giustino. L’uomo, invece, incarna l’impossibilità della perdita dell’equilibrio, contrapponendo allo sbilanciamento una nuova unità di misura che, a differenza della parola che si estende e si dispiega sul foglio, si impila e accumula come il denaro.

Ritornando a Silvia, il suo inclinarsi è un ri-volgersi alla ricerca di un sostegno, messo in pratica non solo verso la scrittura, ma anche nei confronti di Ely Facelli, surrogato di una figura materna assente nella vita della donna. L’assenza di una figura femminile cardine ribalta quanto sostenuto da Luisa Muraro la quale afferma che «dalla madre noi riceviamo la vita e la parola, insieme, e che l’ordine simbolico lo fa non il potere né la legge, ma la lingua». [8]

[8] Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 2006, p. 150.

Al contrario, Silvia viene indirizzata verso la letteratura – da intendere come unica parola di cui ha realmente padronanza più di quanto ne abbia di sé stessa – dal padre che, secondo le parole di Muraro, è indicato dalla madre come coautore. In questo passaggio viene nuovamente ripreso lo scambio di pesi che avviene tra mano e pagina, affidando a quest’ultima le proprie parole, riproponendo il concetto di inclinazione. Quindi, sia la scrittura che la figura di Ely Facelli fungono da sostegno che consente alla donna di propendere non solo verso sé stessa, ma anche verso il figlio portato in grembo. Infatti, all’interno del romanzo sono due le gravidanze prese in esame, quella di Silvia e quella della sua opera, la cui gestazione viene perennemente rivendicata dal marito che, ancora una volta, si pone al centro dell’ulteriore sovrapposizione tra la messa in luce di Vittorio, figlio intravisto dei coniugi, e la messa in scena de La Nuova Colonia. Ed è la sua affermazione “È opera mia” che consente di cogliere come la continua imposizione del proprio peso e, quindi, della sua unità di misura a Silvia, sia responsabile della negativizzazione del versante spirituale della creazione, accentuato acusticamente dallo scricchiolare delle assi del palcoscenico, grembo scarnificato e sovraesposto.

Si noti, inoltre, come l’uomo sia perennemente intento a ricopiare a macchina il «materiale» [9] di Silvia, termine che risente della presa mercificatrice di Giustino, corrompendo il concetto originario di materia che allarga la propria semantica snaturante al termine di madre e, quindi, di creatrice.

[9] Luigi Pirandello, Suo Marito…, 133.

Tramite la suddivisione in sillabe della parola «par-to-ri-re» [10] da parte dell’uomo viene attuata una sua ulteriore intrusione in cui campo semantico che, non essendogli proprio, viene sottoposto a una riconfigurazione dipendente dal tintinnio delle monete durante la conta che, smembrando la maglia della parola, sembrano volerla centellinare.

[10] Ivi, 176.

Così, l’azione compiuta dal marito permette di avanzare un accostamento tra la macchina da scrivere, acquistata da quest’ultimo, e i registratori di cassa di inizio ‘900. Il primo modello di registratore venne ideato da James Ritty, proprietario di un saloon, il quale, a sua volta, trasse ispirazione da una macchina, vista su una nave, che teneva il conto di tutte le volte che un’elica compiva il suo giro. È, altresì, interessante considerare che Ritty decise di progettare questo strumento al fine di impedire che i suoi dipendenti gli rubassero parte dell’incasso. Questa associazione permette di constatare come la continua conversione della parola in merce, attuata da Giustino, inneschi una sottrazione al processo di creazione, incarnato da Silvia, osservando come la circolarità dell’elica del motore, ispirazione del primo registratore, possa essere paragonata a un tentativo di ritracciare e rintracciare l’origine delle volute della penna, per invertirne il senso. Nella scrittura a macchina la postura da assumere è quella eretta, andando, ancora una volta, a correggere l’inclinazione caratteristica di Silvia, alterando anche il contatto stesso con la parola, prendendo le distanze dalla mano che scrive. Bisogna, inoltre, prendere in considerazione la struttura stessa della macchina da scrivere la quale si compone di un telaio, di un carrello contenente un rullo su cui poggia il foglio di carta e di un blocco di martelli azionati da una tastiera. La presenza dei martelli sembra contribuire allo smembramento della parola, ridotta a mero grafema accumulabile e, una volta raggiunto il margine destro del rigo, per passare a quello successivo viene azionata una leva. Tramite l’azione, definita come ritorno a carrello, viene prodotto un suono stridente che ricorda quello dei registratori di cassa, replicando il tintinnio delle monete che si infrangono tra loro. Questa associazione risulta ancora più chiara citando quanto pronunciato dal signor Ippolito, zio di Silvia, il quale asserisce «Ah dev’essere uno strazio per lui contare tutte le parole che gli sgorbia la moglie e pensare quanto guadagnerebbe in America», [11] confermando la concezione della parola come merce di scambio, ma soprattutto come mero mezzo di guadagno.

[11] Ivi, 178.

Mario Lavagetto, riferendosi a Svevo, parlava di «infrazioni clandestine […] conservate nell’ombra», [12] concetto assimilabile alla figura di Silvia, avallato e ampliato da quello che Umberto Artioli definisce «un segreto raccordo tra la scrittura e il lato in ombra» [13] della donna.

[12] Tratto da Zeno, introduzione di Mario Lavagetto, in Italo Svevo, La coscienza di Zeno e «continuazioni», VIII.
[13] Umberto Artioli, Suo Marito…, 209.

Infatti, è l’ombra a preservare la sua grafia, ma soprattutto questo aspetto consente di soffermarsi sul suo timore nei confronti dello specchio, volto a cogliere «l’immagine della propria anima, nuda di ogni finzione necessaria». [14] Ed è Paolo Puppa a metterlo in luce, in particolare, in relazione al ruolo pericoloso che lo specchio svolge rispetto all’unità del soggetto, parlando di «formidabile spinta a uscire traumaticamente dal sé». [15]

[14] Paolo Puppa, La recita interrotta. Pirandello: la trilogia del teatro nel teatro, Bulzoni Editore, Roma, 2021, 110.
[15] Ibidem.

A essere mostrata è una donna che scrive, raramente colta nell’atto, andando a sancire con il silenzio il legame che tiene in equilibrio squilibrante la propria penna. Il suo lato in ombra è quel cono ritagliato dalla mano ripiegata sul foglio, nel gesto massimo di raccoglimento, capace di trattenere la sproporzione della percezione di sé che dilaga al di là della pagina. Questo processo di raccoglimento umbratile, sottratto dalla rarefazione della nascente società dello spettacolo, viene attuato Silvia e, soprattutto, dalla semantica di cui si fa portatrice il suo nome. La silva [16] su cui quest’ultimo si poggia è quel reticolato rappresentato dalla scrittura, contrapposto a qualsiasi superficie in grado di riflettere quella figura che mai potrà raggiungere la soggettività, poiché ostacolata dall’ingerenza del demiurgo Giustino.

[16] Umberto Artioli, Suo Marito…, 208: «[…] si chiama Silvia, da silva, a designare i labirinti di una psichicità così aggrovigliata da risultare impenetrabile».

Silvia si presenta come una donna in perenne contraddizione, innanzitutto, con sé stessa, incapace di ricondurre alla propria origine il suo essere donna, madre e scrittrice, proprio perché a mancarle è la matrice, ossia colei che le ha dato vita. Ciò viene amplificato dalla presenza dell’avverbio traumaticamente, sostenuto dalla morte del figlio e dalla conseguente vittoria dell’opera/merce e, quindi, dell’unica rivendicazione che è materialmente possibile compiere soprattutto perché, a detta dell’uomo, ciò che in Italia conviene è il teatro. Dunque, è proprio l’inclinazione che Silvia esercita su di sé, quindi un processo mai concluso poiché tendente a un rispecchiamento diverso, a consentire a Giustino una intrusione, con conseguente tentativo di riannodare l’origine, secondo i propri termini. L’uomo, così, impone un lessico che risponde alle leggi della nascente società dello spettacolo, tramutato in mera estroflessione dall’evanescenza delle luci del palcoscenico.

Il peso della scrittura di Silvia si contrappone alle luci del trionfo, unico parto a cui si assiste, facendo del grembo il correlativo oggettivo di un vincolo epidermico che pone a stretto contatto identità ed estraneità, quindi la parola e il suo essere mero calcolo economico. Ed è proprio la perpendicolarità delle assi del palcoscenico a essere responsabile del livellamento delle volute della scrittura di Silvia, riproducendo quasi una partitura funerea (non si dimentichi come vita e morte si intreccino a partire dalla pagliuzza dorata del nido, [17] chiamato ad accogliere l’unica vita mai reclamata, ossia quella di Vittorio) che appiattisce e annulla l’intervento della mano.

[17] Luigi Pirandello, Suo Marito…, 91-92, corsivo nostro: «Troppo, troppo alto ormai ha spiccato il volo la colombella vostra; ha valicato le Alpi e il mare, e andrà a farsi il nido lontano, con molte pagliuzze d’oro, nelle grandi riviste di Francia, di Germania, d’Inghilterra… Come volete che deponga più qualche ovetto azzurro, e sia pur piccolo piccolo, così… su l’ara delle nostre povere Muse?».

Il reticolato della scrittura si dispone silenziosamente sulla pagina che ospita la parola, così come il grembo di Silvia accoglie l’esistenza più silenziosa, quel «germe d’una vita» [18] che spinge a concepire la maternità della donna come qualcosa di mostruoso, perché ostacolo alla bramosia di accumulo del marito. Infatti, questa sostituzione di consistenze si riflette nella definizione che lo zio di Silvia dà di Giustino, quando afferma che l’uomo gli dà afa, parlando di «ristagno di luce in basso che snerva l’elasticità dell’aria». [19]

[18] Ivi, 152.    [19] Ivi, 130.

Si assiste, dunque, al processo di compattazione materica della vita e, quindi, di ciò che la scrittura rappresenta, tramutatasi dallo scribacchiare allo sgorbiare, manipolazione acustica attuata dalle dita che dicono di Giustino, verbo usato da Pirandello per definirle. Eppure, il gesto di Onorio Roncella di sbattere le mani sembra voler smagliare quel ristagno di luce, replica della traiettoria dei coni dei faretti soffocanti del palcoscenico che circoscrivono quanto Giustino ha accumulato. Infatti, quanto l’uomo auspica è di far rientrare la moglie all’interno di quei bordi, forzando la smarginatura propria della sua scrittura.

La donna, dunque, risulta essere una impersonalità da allestire tra le mani del marito, necessitando ella stessa di una forma, di qualcosa che le dita di Giustino, sottoposte alla sua «economia diabolica», [20] siano in grado di riconoscere e distinguere al tatto.

[20] Umberto Artioli, Suo Marito…, 208.

Lo specchio ci consente, inoltre, di affrontare un’ulteriore sfaccettatura del continuo rovesciamento dei ruoli di moglie e marito, ossia quella del doppio che assume una accezione diversa a seconda della figura a cui è associata. Attingendo a Edgar Morin, l’ombra è concepita come doppio, come «proiezione dell’individualità umana in un’immagine che le è divenuta esterna», [21] come nel caso di Silvia e del Demone misterioso che divampa nella sua scrittura e che ne preserva l’incorruttibilità. Inoltre, sempre secondo il filosofo, «l’uomo ha innanzitutto fissato sul doppio tutte le ambizioni della sua vita […] e l’ambizione fondamentale della sua morte: l’immortalità». [22]

[21] Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, 35.
[22] Ibidem.

Questo sembra configurarsi come l’operato che Giustino impone a Silvia, amplificato dalla presenza di un duplice prolungamento della vita: da un lato l’opera e dall’altro il figlio dei coniugi. Eppure, l’unica delle gestazioni a cui è concesso non solo venire visivamente alla luce, ma anche rimanere in vita è quella del dramma, la vera attesa riconosciuta dal marito, a cui questo termine è associato, e dal pubblico. L’ombra è per Silvia quel doppio che la spinge ad assumere una tipologia di postura imprevista, soprattutto nei confronti della propria scrittura. L’inclinazione tipica della sua mano si riflette nel processo di creazione dal lei incarnato, cercando di svincolarsi dalla proiezione che di lei il marito ha contribuito ad allestire. Silvia si tramuta in eidolon, in una figura dalle fattezze rarefatte di cui la parola sembra l’unico elemento capace di mantenerla ancorata a un passato in cui è stata davvero corpo. Tuttavia, tramite la maternità, la donna acquisisce una nuova postura nei confronti del processo creativo, facendo in modo che nel figlio possa risiedere quel passaggio linguistico di cui lei era stata privata. Eppure, il piccolo Vittorio parlerà una volta soltanto, prima di diventare lui stesso parola, una breve comunicazione [23] che riunirà, forse per la prima volta, moglie e marito.

[23] Luigi Pirandello, Suo Marito…, 410: «Vieni subito. Tuo figlio muore».

Silvia è circondata da doppi responsabili della rifrazione della propria immagine, scomposta e riconfigurata non solo dalle dita del marito, ma dall’allestimento della messa in scena della sua opera. È proprio tra gli interstizi del suo inclinarsi, per sfuggire alla morsa materica del marito, che si insinua quest’ultimo, proiettando sulla donna quello che le sue mani non riescono ad afferrare, poiché incapaci di raccogliere e cogliere. Il suo essere chiamato Roncello, con una appropriazione declinata al maschile del cognome della moglie, indica come quest’ultima sia divenuta catalizzatore di quanto il suo catalogare non sia in grado di raggiungere e, quindi, di comprendere. L’immortalità per Giustino è data non dal permanere della scrittura, ma dal suo essere tradotta in voce declamata, l’unica in grado di afferrare poiché divenuta corpo tramite l’applauso del pubblico, restituendo quanto da lui stimato sia il vero peso dell’opera e, quindi, delle parole della moglie.

In conclusione, è necessario constatare come il binomio ombra/trionfo venga sottoposto a un ultimo e definitivo ribaltamento nel momento in cui sarà Silvia a calcare le travi scricchiolanti, unico spazio di cui Giustino ha erroneamente ritenuto di poter avere il controllo. La conta incessante delle parole da parte dell’uomo si ripercuote sulla sottrazione del tempo che resta al figlio, mentre assiste al trionfo della moglie, chiedendosi chi stesse provvedendo alla sua contabilità, non ritenendola capace di poter assurgere a un compito tale. E, così, Giustino da artefice si tramuta in scompaginato, in mano che solo può accogliere quell’accumulo di carte scartate a cui, nell’ultimo ribaltamento di ruoli, è consegnato il significato del romanzo.

Annachiara Monaco
Settembre 2021

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