Legge Gaetano Marino.
«Ah che incanto! che pace! Pareva che la Luna inondasse di luminoso silenzio quei prati: d’un silenzio attonito e pur tutto pieno di fremiti. Erano sottili, acuti fritinníi di grilli, risi di rivoli giù per le zane.»
Prime pubblicazioni: I Mattaccini, 5 gennaio 1902, poi in Il viaggio, Bemporad, Firenze 1928.
Gioventù
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Abbandonata tra i guanciali dentro quell’antico seggiolone di cuojo, che don Buti, il parroco, aveva voluto per forza mandarle dalla casa parrocchiale – («c’a preuva, madama, e a vëdrà s’a farà nen ‘l miracöl d’ fela guarì») – la linda vecchina inferma, ancora tanto bella con quei candidi capelli ondulati sotto la cuffia di merletti fini, guardava i prati verdi che si stendevano davanti alla villa, limitati qua e là da alte file di esili pioppi.
Tutta Cargiore era in ansia e in pena per la malattia di lei. I ragazzi raccolti nell’Asilo d’Infanzia, fatto costruire e mantenuto a sue spese, recitavano, poveri piccini, mattina e sera, una elaborata preghiera composta da don Buti per la sua guarigione. Nella farmacia (che era insieme droghiera e ufficio postale) dell’arcigno monsü Grattarola, tutti ricordavano che madama Mascetti, nata a Cargiore, maritata per forza a un ricco signore di Torino che se n’era innamorato durante una villeggiatura estiva lassù, dopo quattro anni, rimasta vedova, aveva lasciato il bel palazzo della Capitale e se n’era tornata a Cargiore, per beneficare i suoi compaesani con le vistose sostanze ereditate dal marito.
Solo monsü Grattarola faceva da contrabasso a quelle sviolinate patetiche con certi duri e profondi grugniti; ma nessuno gli badava. Sosteneva egli solo che la ragione del ritorno della Mascetti a Cargiore doveva cercarsi nell’ostilità implacabile dei parenti del marito, i quali le avevano finanche tolto il figliuolo, per educarlo a modo loro: il figliuolo che ora, nientemeno, era addetto d’ambasciata a Vienna. I più vecchi gli opponevano che la ragione era un’altra, più antica: l’avversione di Velia per Torino (Velia: la chiamavano così, loro, senz’altro) dopo le nozze contratte per forza, che erano state cagione della morte violenta di Martino Prever che s’era ucciso per lei, povero figliuolo; o piuttosto, per la crudeltà dei parenti di lei; ed era sepolto a Cargiore. E così si spiegava la protezione della Mascetti per la famiglia Prever e specialmente per il giovane Martino, pronipote di quell’altro. Era in mano dei Prever, ora, quella cara Velia. E il giovane Martino, mentr’ella se ne stava sul seggiolone del parroco a guardare i prati attraverso i vetri della finestra, era di là, nella stanza attigua, a rifarsi un po’ delle veglie durate.
Tranne un lampadino votivo su una mensoletta davanti a un antico Crocifisso d’avorio, nessun lume ardeva nella camera dell’inferma arredata con squisita semplicità e rara gentilezza. Ma il plenilunio la inalbava dolcemente.
Dietro la tenda della finestra, con la fronte appoggiata ai vetri, anche la infermiera guardava fuori.
– Che luna! – sospirò, a un tratto, nel silenzio. – Pare che raggiorni!
– Se aprissi un tantino, Manetta? Un tantino! – pregò la signora Velia, con voce carezzevole. – Non mi potrà far male.
– E il signor dottore? – domandò Manetta. – Che dirà il signor dottore? Sa lei che abbiamo già la neve su Roccia Vré?
– Un tantino! – insisté la padrona. – Vedi? respiro così calma.
Manetta aprì uno spiraglio, dapprima: poi, a poco a poco, per le insistenze dell’inferma, la mezza imposta.
Ah che incanto! che pace! Pareva che la Luna inondasse di luminoso silenzio quei prati: d’un silenzio attonito e pur tutto pieno di fremiti. Erano sottili, acuti fritinníi di grilli, risi di rivoli giù per le zane.
Per Marietta, l’incanto di quella notte era tutto lì, presente; ma alla vecchina, guardando assorta, pareva che quel silenzio sprofondasse nel tempo, e altre notti pensava, remote, simili a questa, vegliate dalla Luna; e tutta quella pace fascinosa assumeva a gli occhi di lei quasi un senso arcano, che la forzava al pianto.
Veniva da lontano, continuo, profondo, come un cupo ammonimento, il borboglio del Sangone nella valle, e di qua presso un rumore, di tratto in tratto, che la inferma non riusciva a spiegarsi.
– Che stride così, Marietta?
– Un contadino, – rispose questa lietamente, affacciata alla finestra, nell’aria chiara. – Falcia il suo fieno, sotto la luna. Sta a raffilare la falce.
Poco dopo, da un lontano ceppo di case del villaggio tutto sparso a gruppi su quel pianoro tra le prealpi, giunse dolcissimo un coro di donne.
– Cantano a Rufinera, – annunziò Marietta.
Ma la inferma aveva reclinato il capo, soffocata dall’interna commozione. Marietta non se ne accorse: rimase a contemplare estatica lo spettacolo del plenilunio e ad ascoltare il canto lontano. A un tratto si scosse, di soprassalto. La padrona rantolava. Spaventata, richiuse subito l’imposta; si chinò su l’inferma, le sollevò il capo, la chiamò più volte, invano; si smarrì, corse a chiamare ajuto nella stanza accanto.
– Signor Martino, signor Martino!
E Marietta scosse violentemente il giovanotto che stava a dormire sul canapè troppo piccolo per lui.
– Ah che stupida sono stata! Venga! Venga! Le avrà fatto male l’aria della notte! – smaniava Marietta, mentre il giovanotto stentava a riprendere coscienza.
Afferrò il lume che ardeva in quella stanza e rientrò nella camera dell’inferma, seguita dal signor Martino.
– M’ajuti! M’ajuti! Bisogna rimetterla a letto. Non c’è voluta stare, ed ecco le conseguenze!
– Zia Velia! zia Velia! – chiamava intanto il giovanotto con voce grossa, ancora insonnolito.
– Che chiama? non vede che non sente? – gli gridò Marietta, spazientita. –
M’ajuti a rimetterla a letto, e corra per il medico. Ma si svegli, eh? se no, di qui a che lei va e torna col medico, la povera signora… ah Dio, non sia mai!
– Muore? – domandò il signor Martino, avvertendo finalmente il rantolo. Ajutò l’infermiera a rimettere a letto quell’esile corpo abbandonato e scappò
per il medico, che abitava nella frazione di Ruadamonte.
– Che luna! – esclamò anche lui, appena fuori.
Meno male; con tutto quel lume, avrebbe potuto correre più speditamente per i difficili sentieri tra i prati. Ma non se l’aspettava, Dio santo, d’essere svegliato così, sul più bello. Povera zia Velia! Tutta la giornata era stata meglio, proprio meglio. Con le malattie di cuore, però, e a quell’età, da un momento all’altro… eh, non si sa mai! Se n’affliggeva tanto, lui, il signor Martino, ma tuttavia non poteva fare a meno di pensare che da troppo tempo ormai si studiava di non dar mai causa a quella vecchina, che avesse a lamentarsi di lui, e gli veniva di tirare dal fondo dei polmoni un respiro di sollievo. Non lo tirava perché, subito dopo, avrebbe sentito la puntura d’un rimorso. Intanto pensava al medico che si sarebbe certo seccato di quella chiamata notturna. Ma che poteva farci lui? Non poteva certo assumersi la responsabilità di sospendere quelle iniezioni che tenevano artificialmente in vita l’inferma, ora che il figlio da Vienna aveva telegrafato l’annunzio della sua partenza. Chi sa se avrebbe fatto a tempo, però… Meglio, forse… eh sì, meglio non…
– Auff! – sbuffò, a questo punto, il signor Martino, combattuto, interrompendo le amare riflessioni.
Passava davanti al camposanto. Intravide, per una delle finestre ferrate, aperte lungo il muro di cinta, la tomba gentilizia della sua famiglia e, accanto, quella della Mascetti. Correre, correre, affannarsi per sé e per gli altri, penare, per poi andare a finir lì, e saper dove… Meglio non saperlo! Meglio non costruirle avanti, quelle tombe… Bah! Era giovine, lui, e robusto…
– Che bella luna!
E mise un gran sospiro, come per cacciar via tutti i pensieri.
Tornò alla villa dopo circa due ore, col medico. Marietta annunziò loro che la malata, appena rimessa a letto, aveva dato in violente smanie, poi – coi segni – le aveva fatto comprendere che voleva scrivere qualche cosa.
– Come come? – domandò sorpreso, impuntandosi, il signor Martino.
– Sì, – riprese Marietta, – e ha scritto, e la lettera sta lì, sotto il guanciale, come ha voluto; poi s’è messa a delirare… Diceva, non so, che c’era la luna… che voleva scendere in giardino… che a Pian del Viermo cantavano, non a Rufinera… Stramberie! Poi s’è messa a chiamar lei, signor Martino…
– Me? – domandò arrossendo, poi impallidendo, il giovanotto. – Ero andato per il medico io, non gliel’hai detto?
– Glie l’ho detto; ma non ha capito! – seguitò Marietta. – Strillava: «No, Martino! No! No!» tutta spaventata… Ora, da un pezzo, sta tranquilla; ma così… Dio! pare morta…
Il dottor Allais, alto, asciutto, coi baffetti ancora biondi e i capelli già canuti, tagliati a spazzola, non si scompose affatto a quella narrazione dell’infermiera: alzò un piede a una traversa del seggiolone del parroco e si chinò per affibbiare una stringa del gambale di cuojo rimasta slacciata nella fretta del vestirsi. Teneva a dimostrare quella sua rigidezza impassibile. Possedeva anche lui una villa con un vasto giardino, aveva una simpatica moglietta che gli aveva recata una buona dote e continuava ad esercitare la professione, tanto per fare qualche cosa. Tastò il polso dell’inferma; poi, senza dare a veder nulla a quei due che lo spiavano intentamente, preparò la siringhetta per una nuova iniezione.
– Potrà tirare fino all’alba, – disse, licenziandosi. – Verso le cinque, tornerò.
– Ma il figlio dovrebbe arrivare nella mattinata di domani, – pregò, afflitto, il signor Martino. – Potesse almeno tirare fino all’arrivo di lui!
Il dottor Allais si strinse nelle spalle.
– Non dipende da me, caro signor Prever. E andò via.
Subito il signor Martino assalì di domande Manetta intorno a quella lettera misteriosa. Ma la infermiera non sapeva leggere, e poté dirgli soltanto che la signora aveva scritto col lapis dietro una vecchia ricetta del medico, poiché lei non aveva potuto trovarle altra carta lì nella camera; e che aveva scritto con stento e che infine aveva chiuso quel pezzo di carta in una busta del farmacista, da cui lei aveva tratto alcune ostie e una cartina di medicinale. Messa la lettera sotto il guanciale, la padrona aveva balbettato:
– Dopo morta.
Il signor Martino restò assorto, stupito, costernato. Era ben sicuro che il testamento della vecchia conteneva qualche disposizione in suo favore e in favore della sua famiglia. Ora questa lettera lo inquietava. Domandò:
– Ha scritto molto?
– Poco, – rispose Manetta. – Un pezzettino di carta, così… E la mano le tremava tanto!
– Sai la nuova, Manetta? – riprese, dopo aver pensato un po’, il giovanotto. – Corro a chiamare i miei. Hai sentito che ha detto il medico?
– Sì, – aggiunse Manetta. – E il signor parroco anche, se non le dispiace. Vada, vada.
Marietta, che era e si sentiva «una brava figliuola», rimasta sola, tentennò amaramente il capo. Non che stimasse cattivo quel bamboccione del signor Martino e interessato l’affetto della famiglia Prever per la sua padrona; ma… – eh, i dindi, i dindi piacciono a tutti; e la sua padrona ne aveva di molti e quell’aver pensato a scrivere qualche cosa in quegli ultimi momenti doveva per forza suscitar timori o accendere speranze.
N’ebbe la prova, non appena giunsero, tutti ansanti dalla corsa, i parenti del signor Martino e don Buti. Più e più volte fu costretta a ripetere tutto ciò che poteva dire intorno a quella lettera. Pareva che ci volessero leggere attraverso le sue parole. E che facce da spiritati! Don Buti pareva incerto se vederci una minaccia per l’Asilo d’Infanzia o una promessa: forse l’erezione d’un Asilo pei vecchi, o d’un ospedaletto, chi sa? o di una cappella: qualche disposizione, insomma, di beneficenza o in favore della santa religione. I Prever erano addirittura scombussolati, e se la prendevano con Martino che non s’era trovato presente, giusto in quel momento!
– Ma se ero corso per il medico! – si scusava il giovanotto col padre che pareva il più contrariato.
La madre sapeva dominarsi meglio: grassa pallida placida, dal parlare lento e dal gesto molle, rivolgeva a Marietta sciocche e inutili domande.
L’inferma accennava di tratto in tratto di riscotersi dallo stato comatoso. Tutti allora, per un momento, zitti e intenti, intorno al letto di lei.
Ruppe l’alba, alla fine. Cielo aggrondato, piovoso. Su per i greppi delle scabre montagne, veli di nebbia stracciati. Ritornò il medico, che non volle rispondere nulla, al solito, alle tante interrogazioni dei Prever e di don Buti, protestando:
– Mi lascino ascoltare.
Fece ancora un’iniezione, ma dichiarò ch’era proprio inutile: la morte sarebbe avvenuta da un momento all’altro per paralisi cardiaca.
Poco dopo la partenza del medico, la signora Velia però si riscosse con un lungo sospiro dal profondo letargo in cui pareva inabissata, e schiuse gli occhi.
Subito i Prever spinsero al letto il giovine Martino, suggerendogli sottovoce:
– Chiamala! chiamala!
– Zia Velia! – chiamò il giovanotto.
– Madama Velia! – chiamò contemporaneamente, dall’altro lato del letto, don Buti.
Ma la morente non mostrò di riconoscere né l’uno né l’altro.
Entrò in quel momento nella camera, inavvertito, un signore su i cinquantanni, bassotto, azzimato, profumato, con le fedine già brizzolate e la calvizie nascosta appena da pochissimi capelli raffilati con meschina cura a sommo del capo. Si avanzò fino al letto, con le scarpe sgrigiolanti, scostò piano con la mano inguantata il signor Martino, si chinò verso la morente:
– Mamma!
I Prever, don Buti, Manetta si guardarono negli occhi, scostandosi; poi presero tutti a osservarlo, con un’aria mista di suggezione e di diffidenza.
La morente fissò gli occhi velati sul figlio e aggrottò le ciglia; agitò un braccio e nascose il volto, balbettando con espressione di terrore:
– Ch ’a vada via chiel!
– Mamma, sono io, sai! sono io! – disse piano, sorridendo, il Mascetti, e si chinò di nuovo verso la morente.
Ma questa raffondò vie più il capo, come se volesse cacciarlo sotto il guanciale. Allora la busta, che vi stava nascosta, scivolò sul tappeto. I cinque Prever e don Buti la puntarono rattenendo il fiato, come tanti cani da caccia. Il figlio non se ne accorse, e si volse, dolente, per dire:
– Non mi riconosce.
Vedendo tutti gli occhi fissi lì presso i suoi piedi, si chinò anche lui a guardare, e vide la busta.
– Sarà per lei, – gli disse piano Manetta, indicandola. – La signora però ha detto: «Dopo morta».
II Mascetti la raccolse, e poiché la madre continuava a dire, soffocata: – Ch’a vada via! ch’a vada via! – si recò, angustiato, nella camera attigua, seguito poco dopo da don Buti.
– Povera, povera Madama.
E il parroco cominciò a tessere al figliuolo l’elogio della madre.
– Grande benefattrice!
Sopraggiunse, con aria smarrita, Prever padre; poi venne anche Prever figlio, rosso come un gambero, spinto evidentemente dalla madre e dalle sorelle.
Il Mascetti se ne stava compunto e taciturno; chinava di tanto in tanto il capo alle parole melate del parroco, ma pensava intanto tra sé all’accoglienza che gli aveva fatto la madre dopo un così lungo e precipitoso viaggio intrapreso per rivederla. – Sì, senza dubbio: nell’incoscienza, povera vecchina. Era chiaro che lo aveva scambiato per qualche persona a lei odiosa, lì, del paese. Ma era pur naturale! Che ricordi aveva egli della madre? Quasi quasi aveva più notizie del padre, morto quand’egli aveva appena tre anni, che della madre, vissuta fino adesso. Del padre gli avevano parlato tanto i parenti, fin dalla infanzia; mentre la madre era venuta a ritirarsi lassù, ed era vissuta sempre lontana da lui. Egli era solito scriverle due, tre volte l’anno, nelle feste principali, per farle gli augurii; e lei gli aveva risposto, sì e no, ma sempre con frasi comuni e brevemente e senz’alcuna effusione di cuore, mai. La notizia della grave malattia di lei gli era arrivata di colpo. Mah! doveva avere settantatré o settantaquattro anni sua madre: il suo tempo, dunque, lo aveva fatto. Ne aveva già quasi cinquanta, lui, purtroppo.
Giunsero a un tratto, dalla camera, parole concitate, poi uno strillo di madama Prever e due altri strilli simili delle zitellone. Il Mascetti balzò in piedi:
– Morta?
– Venga, signore! – chiamò Manetta, facendosi all’uscio, con gli occhi lagrimosi.
Morta, e in quell’atteggiamento di rivolta e di paura preso all’apparire del figlio. Manetta le aveva pian piano rimesso sul letto il braccio, che ella aveva levato per nascondere la faccia; ma nessuno ardiva di toccarle la testa.
Il Mascetti contemplò un pezzo sua madre, poi si pose una mano sugli occhi. Non riusciva a piangere, irritato sordamente dal pianto di quegli altri, per lui affatto estranei (ne ignorava finanche i nomi!), ma che pure mostravano d’avere una ragione per piangere sua madre, più di lui che era il figlio e che non pertanto, alla loro presenza, era stato accolto in quel modo.
Don Buti s’era inginocchiato davanti al letto e recitava la preghiera dei defunti. Anche i Prever e Marietta si erano inginocchiati e pregavano con lui, tra i singhiozzi. Il Mascetti tornò a ritirarsi nell’altra stanza.
La signora Velia aveva ricevuto i sacramenti tre giorni avanti. Finita la preghiera, don Buti scappò in chiesa per far sonare le campane e dar le prime disposizioni per i solenni funerali del giorno appresso: le signore Prever si misero a disposizione di Marietta per accudire al cadavere; il signor Martino fu spedito per i ceri da accendere attorno al letto funebre, e Prever padre, non sapendo che fare, si recò di nuovo a raggiungere nell’altra stanza il Mascetti.
Quella lettera misteriosa gli stava fissa in mente come un chiodo. «Dopo morta.» Forse il figlio, per curiosità, l’aveva già aperta. Che stupida, quella Marietta! Che c’entrava dire al figlio: «Sarà per lei?». Dall’accoglienza che la moribonda gli aveva fatto, si poteva capir chiaramente che madama Velia non si aspettava di rivedere il figlio; dunque, nello scrivere quella lettera, non aveva nient’affatto pensato a lui.
Le stesse riflessioni facevano nella camera della morta le Prever, e madama anzi non seppe tenersi dal rimproverare, con garbo, Marietta. E a quella lettera pensava pure, tra le smanie, il signor Martino, andando per i ceri, e don Buti correndo dalla chiesa parrocchiale all’Asilo per far chiudere il portone in segno di lutto e dare anche lì disposizioni per il funerale del giorno seguente.
Solo il Mascetti pareva se ne fosse dimenticato. Interrogava il Prever su la vita della madre, su Cargiore, per venire indirettamente a sapere tra che gente si trovasse. Gli era nato finanche il dubbio che quelli fossero lontani parenti materni, di cui egli ignorasse l’esistenza.
Il Prever si struggeva dentro. Gli diede ragguaglio di sé, della sua famiglia; gli parlò dell’antica amicizia di essa per madama, tacendo però dell’amore e del suicidio dello zio Martino, ed entrò in fine a parlargli anche lui delle grandi benemerenze della defunta, delle opere di carità, parte compiute, parte promesse da lei, per concludere che tutta Cargiore era profondamente addolorata e, nello stesso tempo, in legittima ansia di conoscere se…
Oh! il Mascetti s’affrettò a rassicurarlo: con tutto il cuore egli avrebbe adempiuto alle generose promesse della madre, anche se nessuna disposizione si fosse trovata nel testamento. Ma non mostrò affatto di ricordarsi di quella lettera scivolata di sotto il guanciale. E tutto quel giorno e fino alla metà del giorno appresso tenne sulla corda quella povera gente.
Don Buti, alla fine, quando già la cassa mortuaria era arrivata, non seppe tenersi più. Gli si presentò, seguito dai Prever, tutto cerimonioso e impacciato, con la scusa di non voler mancare a qualche volontà, a qualche disposizione della defunta intorno ai funerali o al seppellimento, espresse probabilmente in quella tal lettera.
– Se Vostra Signoria si ricorda…
– Ah già! – esclamò il Mascetti, cercandosi nelle tasche.
Se n’era proprio dimenticato! Tutti gli si fecero attorno, sospesi in un’ansia trepidante. La busta, dopo lunga ricerca, fu trovata in fondo ad una tasca dei calzoni. Il Mascetti l’aprì, ne trasse la ricetta di cui aveva fatto cenno l’infermiera. La scrittura a lapis era quasi indecifrabile. Ci fu bisogno del concorso di tutti per l’interpretazione di certe parole smezzate o scritte scorrettamente in dialetto tra altre italiane. Il biglietto diceva così:
Chi trova questa carta a l’è prega d’aprire l secound tiroir del comò di faccia al mio letto, prendere con le sue man n fagottin che vi si trova in fondo all’angolo a destra e d butelo d’ souta mia testa nt la cassa.
I Prever, don Buti restarono delusi, storditi, non sapendo che pensare.
– Un fagottin? – domandò madama Prever. – Che sarà?
– Andremo a vedere, – propose, timido, don Buti. – Intanto sono proprio contento che una disposizione ci sia, come avevo preveduto.
Si recarono tutti nella camera della morta. La vecchina, parata amorosamente da Manetta, era già deposta nella bara non ancora chiusa. Il figlio, seguendo le indicazioni del biglietto, aprì il secondo cassetto del canterano e cercò nell’angolo a destra.
Non c’era propriamente alcun fagottino: c’era soltanto l’involto di un pezzo di panno turchino, forato e bruciacchiato in una parte, come da una palla: c’era un guscio di noce, alcuni fiori secchi, una ciocchetta di capelli castani e un pezzettino di carta, su cui erano scritte queste parole già sbiadite dal tempo: «Notte di luna! 22 ottobre 1849», e sotto, due nomi, congiunti da una lineetta: «Velia-Martino».
– S’è ricordata di lui! – scappò, nella sorpresa, al Prever.
II Mascetti nel volgersi a guardarlo si accorse che don Buti faceva cenno a colui di tacere, e volle sapere allora di chi si fosse ricordata la madre e che significasse quel ritaglio di stoffa così forato.
Quando glielo dissero, non seppe più toccare quegli oggetti, che appartenevano alla remota gioventù di sua madre, prima ch’egli nascesse. Si scostò dicendo:
– Facciano loro la sua volontà.
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