Fuoco alla paglia – Audio lettura 4

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Legge Lorenzo Pieri
«Quando aveva guadagnato quattro soldi, o strigliando due bestie o accudendo a qualche altra faccenda, purché spiccia, Nàzzaro diventava padrone del mondo. Due soldi di pane e due soldi di frutta. Non aveva bisogno d’altro»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 15 gennaio 1905, poi in La vita nuda, Treves 1910.

Fuoco alla paglia
Joseph Genova, Man on a donkey. Immagine da Saatchi Art

Fuoco alla paglia

Legge Lorenzo Pieri

Da Spreaker.com

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             Non avendo più nessuno a cui comandare, Simone Lampo aveva preso da un pezzo l’abitudine di comandare a se stesso. E si comandava a bacchetta:

             – Simone, qua! Simone, là!

             S’imponeva apposta, per dispetto del suo stato, le faccende più ingrate. Fingeva talvolta di ribellarsi per costringersi a obbedire, rappresentando a un tempo le due parti in commedia. Diceva, per esempio, rabbioso:

             –    Non lo voglio fare!

             –    Simone, ti bastono. T’ho detto, raccogli quel concime! No?

             Pumi… S’appioppava un solennissimo schiaffo. E raccoglieva il concime.

             Quel giorno, dopo la visita al poderetto, l’unico che gli fosse restato di tutte le terre che un tempo possedeva (appena due ettari di terra, abbandonati lassù, senza custodia d’alcun villano), si comandò di sellar la vecchia asinella, con la quale soleva pur fare, ritornando al paese, i più speciosi discorsi.

             L’asinella, drizzando ora questa ora quella orecchia spelata, pareva gli prestasse ascolto, paziente, non ostante un certo fastidio, che da qualche tempo il padrone le infliggeva e ch’essa non avrebbe saputo precisare: qualcosa che, nell’andare, le sbatteva dietro, sotto la coda.

             Era un cestello di vimini senza manico, legato con due lacci al posolino della sella e sospeso sotto la coda alla povera bestia, per raccogliervi e conservare belle calde, fumanti, le pallottole di fimo, ch’essa altrimenti avrebbe seminato lungo la strada.

             Tutti ridevano, vedendo quella vecchia asinella col cestino dietro, lì pronto al bisogno; e Simone Lampo ci scialava.

             Era ben noto alla gente del paese con quale e quanta liberalità fosse un tempo vissuto e in che conto avesse tenuto il denaro. Ma ora, ecco, era andato a scuola dalle formiche, le quali, b-a-ba, b-a-ba, gli avevano insegnato questo espediente per non perdere neanche quel po’ di fimo buono a ingrassar la terra. Sissignori!

             – Su, Nina, su, lasciati mettere questa bella gala qua! Che siamo più noi, Nina? Tu niente e io nessuno. Buoni soltanto da far ridere il paese. Ma non te ne curare. Ci restano ancora a casa qualche centinajo d’uccellini. Cio-cio-cio – cio… Non vorrebbero essere mangiati! Ma io me li mangio; e tutto il paese ride. Viva l’allegria!

             Alludeva a un’altra sua bella pensata, che poteva veramente fare il pajo col cestello appeso sotto la coda dell’asina.

            Mesi addietro aveva finto di credere che avrebbe potuto novamente arricchire con la cultura degli uccelli. E aveva fatto delle cinque stanze della sua casa in paese tutt’una gabbia (per cui era detta la gabbia del matto), riducendosi a vivere in due stanzette del piano superiore con la scarsa suppellettile scampata al naufragio delle sue sostanze e con gli usci, gli scuri e le invetriate delle finestre e dei finestroni, che aveva chiuso, per dar aria agli uccelli, con ingraticolati.

             Dalla mattina alla sera, dalle, cinque stanze da basso venivan su, con gran delizia di tutto il vicinato, ringhi e strilli e cinfoli e squittii, chioccolio di merli, spincionar di fringuelli: un cinguettio, un passerajo fitto, continuo, assordante.

             Da parecchi giorni però, sfiduciato del buon esito di quel negozio, Simone Lampo mangiava uccellini a tutto pasto, e aveva distrutto lì, nel poderetto, l’apparato di reti e di canne, con cui aveva preso, a centinaja e centinaja, quegli uccellini.

             Sellata l’asina, cavalcò e si mise in via per il paese.

             Nina non avrebbe affrettato il passo, neanche se il padrone la avesse tempestata di nerbate. Pareva glielo facesse apposta, per fargli assaporar meglio con la lentezza del suo andare i tristi pensieri che, a suo dire, gli nascevano anche per colpa di lei, di quel tentennio del capo, cioè, ch’essa gli cagionava con la sua andatura. Sissignori. A forza di far così e così con la testa, guardando attorno dall’alto della sua groppa la desolazione dei campi che s’incupiva a mano a mano sempre più con lo spegnersi degli ultimi barlumi crepuscolari, non poteva fare a meno di mettersi a commiserar la sua rovina.

             Lo avevano rovinato le zolfare.

             Quante montagne sventrate per il miraggio del tesoro nascosto! Aveva creduto di scoprire dentro ogni montagna una nuova California. Californie da per tutto! Buche profonde fino a duecento, a trecento metri, buche per la ventilazione, impianti di macchine a vapore, acquedotti per la eduzione delle acque e tante e tante altre spese per uno straterello di zolfo, che non metteva conto, alla fine, di coltivare. E la triste esperienza fatta più volte, il giuramento di non cimentarsi mai più in altre imprese, non eran valsi a distoglierlo da nuovi tentativi, finché non s’era ridotto, com’era adesso, quasi al lastrico. E la moglie lo aveva abbandonato, per andare a convivere con il suo fratello ricco, poiché l’unica figlia era andata a farsi monaca per disperata.

             Era solo, adesso, senza neanche una servacela in casa; solo e divorato da un continuo orgasmo, che gli faceva commettere tutte quelle follie.

             Lo sapeva, sì: era cosciente delle sue follie; le commetteva apposta, per far dispetto alla gente che, prima, da ricco, lo aveva tanto ossequiato, e ora gli voltava le spalle e rideva di lui. Tutti, tutti ridevano di lui e lo sfuggivano; nessuno che volesse dargli ajuto, che gli dicesse: «Compare, che fate? venite qua: voi sapete lavorare, avete lavorato sempre, onestamente; non fate più pazzie; mettetevi con me a una buona impresa!». Nessuno.

             E la smania, l’interno rodio, in quell’abbandono, in quella solitudine agra e nuda, crescevano e lo esasperavano sempre più.

             L’incertezza di quella sua condizione era la sua maggiore tortura. Sì, perché non era più né ricco, né povero. Ai ricchi non poteva più accostarsi, e i poveri non lo volevano riconoscere per compagno, per via di quella casa in paese e di quel poderetto lassù. Ma che gli fruttava la casa? Niente. Tasse, gli fruttava. E quanto al poderetto, ecco qua: c’era, per tutta ricchezza, un po’ di grano che, mietuto fra pochi giorni, gli avrebbe dato, sì e no, tanto da pagare il censo alla mensa vescovile. Che gli restava dunque, per mangiare? Quei poveri uccellini, là… E che pena, anche questa! Finché s’era trattato di prenderli, per tentare un negozio da far ridere la gente, transeat; ma ora, scender giù nel gabbione, acchiapparli, ucciderli e mangiarseli…

             – Su Nina, su! Dormi, stasera? Su!

             Maledetta la casa e maledetto il podere, che non lo lasciavano essere neanche povero bene, povero e pazzo, lì, in mezzo a una strada, povero senza pensieri, come tanti ne conosceva e per cui, nell’esasperazione in cui si trovava, sentiva un’invidia angosciosa.

             Tutt’a un tratto Nina s’impuntò con le orecchie tese.

             – Chi è là? – gridò Simone Lampo.

             Sul parapetto d’un ponticello lungo lo stradone gli parve di scorgere, nel bujo, qualcuno sdrajato.

             – Chi è là?

             Colui che stava lì sdrajato alzò appena il capo ed emise come un grugnito.

             –    Oh tu, Nàzzaro? Che fai lì?

             –    Aspetto le stelle.

             –    Te le mangi?

             –    No: le conto.

             –    E poi?

             Infastidito da quelle domande, Nàzzaro si rizzò a sedere sul parapetto e gridò iroso, tra il fitto barbone abbatuffolato:

             – Don Simo’, andate, non mi seccate! Sapete bene che a quest’ora non nego zio più; e con voi non voglio discorrere!

             Così dicendo, si sdrajò di nuovo, a pancia all’aria, sul parapetto, in attesa delle stelle.

             Quando aveva guadagnato quattro soldi, o strigliando due bestie o accudendo a qualche altra faccenda, purché spiccia, Nàzzaro diventava padrone del mondo. Due soldi di pane e due soldi di frutta. Non aveva bisogno d’altro. E se qualcuno gli proponeva di guadagnarsi, oltre a quei quattro soldi, per qualche altra faccenda, una o magari dieci lire, rifiutava, rispondendo sdegnosamente a quel suo modo:

             – Non negozio più!

             E si metteva a vagar per le campagne o lungo la spiaggia del mare o su per i monti. S’incontrava da per tutto, e dove meno si sarebbe aspettato, scalzo, silenzioso, con le mani dietro la schiena e gli occhi chiari, invagati e ridenti.

             –    Ve ne volete andare, insomma, sì o no? – gridò levandosi di nuovo a sedere sul parapetto, più iroso, vedendo che quello s’era fermato con l’asina a contemplarlo,

             –    Non mi vuoi neanche tu? – disse allora Simone Lampo, scotendo il capo. – Eppure, va’ là, che potremmo far bene il pajo, noi due.

             –    Col demonio, voi, il pajo! – borbottò Nàzzaro, tornando a sdrajarsi. – Siete in peccato mortale, ve l’ho detto!

             –    Per quegli uccellini?

             –    L’anima, l’anima, il cuore… non ve lo sentite rodere, il cuore? Sono tutte quelle creature di Dio, che vi siete mangiate! Andate… Peccato mortale!

             –    Arri,  – disse Simone Lampo all’asinella.

             Fatti pochi passi, s’arrestò di nuovo, si voltò indietro e chiamò:

             – Nàzzaro !

             Il vagabondo non gli rispose.

             – Nàzzaro – ripetè Simone Lampo. – Vuoi venire con me a liberare gli uccelli?

             Nàzzaro si rizzò di scatto.

             –    Dite davvero? – Sì.

             –    Volete salvarvi l’anima? Non basta. Dovreste dar fuoco anche alla paglia!

             –    Che paglia?

             –   A tutta la paglia! – disse Nàzzaro, accostandosi, rapido e leggero come un’ombra.

             Posò una mano sul collo dell’asina, l’altra su una gamba di Simone Lampo e, guardandolo negli occhi, tornò a domandargli:

             –    Vi volete salvar l’anima davvero? Simone Lampo sorrise e gli rispose:

             –    Sì.

             –    Proprio davvero? Giuratelo! Badate, io so quello che ci vorrebbe per voi. Studio la notte, e so quello che ci vorrebbe, non per voi soltanto, ma anche per tutti i ladri, per tutti gl’impostori che abitano laggiù, nel nostro paese; quello che Dio dovrebbe fare per la loro salvazione e che fa, presto o tardi, sempre: non dubitate! Dunque volete davvero liberare gli uccelli?

             –    Ma sì, te l’ho detto.

             –    E fuoco alla paglia?

             –    E fuoco alla paglia!

             –    Va bene. Vi prendo in parola. Andate avanti e aspettatemi. Devo ancora contare fino a cento.

             Simone Lampo riprese la via, sorridendo e dicendo a Nàzzaro:

             – Bada, t’aspetto.

             S’intravedevano ormai laggiù, lungo la spiaggia, i lumi fiochi del paesello. Da quella via su l’altipiano marnoso che dominava il paese, si spalancava nella notte la vacuità misteriosa del mare, che faceva apparir più misero quel gruppetto di lumi laggiù.

             Simone Lampo trasse un profondo sospiro e aggrottò le ciglia. Salutava ogni volta così, da lontano, l’apparizione di quei lumi.

             C’eran due pazzi patentati per gli uomini che stavano laggiù, oppressi, ammucchiati: lui e Nàzzaro. Bene: ora si sarebbero messi insieme, per accrescere l’allegria del paese! Libertà agli uccellini e fuoco alla paglia! Gli piaceva questa esclamazione di Nàzzaro; e se la ripeté con crescente soddisfazione parecchie volte prima di giungere al paese.

             – Fuoco alla paglia!

             Gli uccellini, a quell’ora, dormivano tutti, nelle cinque stanze del piano di sotto. Quella sarebbe stata per loro l’ultima notte da passar lì. Domani, via! Liberi. Una gran volata! E si sarebbero sparpagliati per l’aria; sarebbero ritornati ai campi, liberi e felici. Sì, era una vera crudeltà, la sua. Nàzzaro aveva ragione. Peccato mortale! Meglio mangiar pane asciutto, e lì.

             Legò l’asina nella stalluccia e, con la lucernetta a olio in mano, andò su ad aspettar Nàzzaro, che doveva contare, come gli aveva detto, fino a cento stelle. – Matto! Chi sa perché? Ma era forse una divozione…

             Aspetta e aspetta, Simone Lampo cominciò ad aver sonno. Altro che cento stelle! Dovevano esser passate più di tre ore. Mezzo firmamento avrebbe potuto contare… Via! via! Forse glie l’aveva detto per burla, che sarebbe venuto. Inutile aspettarlo ancora. E si disponeva a buttarsi sul letto, così vestito, quando sentì bussare forte all’uscio di strada.

             Ed ecco Nàzzaro, ansante e tutto ilare e irrequieto.

             –    Sei venuto di corsa?

             –    Sì. Fatto!

             –    Che hai fatto?

             –    Tutto. Ne parleremo domani, don Simo’ ! Sono stanco morto.

             Si butto a sedere su una seggiola e cominciò a stropicciarsi le gambe con tutt’e due le mani, mentre gli occhi d’animale forastico gli brillavano d’un riso strano, abbozzato appena sulle labbra di tra il folto barbone.

             –    Gli uccelli? – domandò.

             –    Giù. Dormono.

             –    Va bene. Non avete sonno voi?

             –    Sì. T’ho aspettato tanto…

             –    Prima non ho potuto. Coricatevi. Ho sonno anch’io, e dormo qua, su questa seggiola. Sto bene, non v’incomodate! Ricordatevi che siete ancora in peccato mortale! Domani compiremo l’espiazione.

             Simone Lampo lo mirava dal letto, appoggiato su un gomito; beato. Quanto gli piaceva quel matto vagabondo! Gli era passato il sonno, e voleva seguitare la conversazione.

             –    Perché conti le stelle, Nàzzaro, di’?

             –    Perché mi piace contarle. Dormite!

             –    Aspetta. Dimmi: sei contento tu?

             –    Di che? – domandò Nàzzaro, levando la testa, che aveva già affondata tra le braccia appoggiate al tavolino.

             –    Di tutto, – disse Simone Lampo. – Di vivere così…

             –    Contento? Tutti in pena siamo, don Simo’ ! Ma non ve n’incaricate. Passerà! Dormiamo.

             E riaffondò la testa tra le braccia.

             Simone Lampo sporse il capo per spegnere la candela; ma, sul punto, trattenne il fiato. Lo costernava un po’ l’idea di restare al bujo con quel matto là.

             –    Di’, Nàzzaro: vorresti rimanere sempre con me?

             –    Sempre non si dice. Finché volete. Perché no?

             –    E mi vorrai bene?

             –    Perché no? Ma, né voi padrone, né io servo. Insieme. Vi sto appresso da un pezzo, sapete? So che parlate con l’asina e con voi stesso; e ho detto tra me: La sorba si matura… Ma non mi volevo accostare a voi, perché avevate gli uccelli prigionieri in casa. Ora che m’avete detto di voler salvare l’anima, starò con voi, finché mi vorrete. Intanto, v’ho preso in parola, e il primo passo è fatto. Buona notte.

             –    E il rosario, non te lo dici? Parli tanto di Dio!

             –    Me lo son detto. È in cielo il mio rosario. Un’avemaria per ogni stella.

             –    Ah, le conti per questo?

             –    Per questo. Buona notte.

             Simone Lampo, raffidato da queste parole, spense la candela. E poco dopo, tutti e due dormivano.

             All’alba, i primi cinguettìi degli uccelli imprigionati svegliarono subito il vagabondo, che dalla seggiola s’era buttato a dormire in terra. Simone Lampo, che a quei cinguettìi era già avvezzo, ronfava ancora.

             Nàzzaro andò a svegliarlo.

             –    Don Simo’, gli uccelli ci chiamano.

             –    Ah, già! – fece Simone Lampo, destandosi di soprassalto e sgranando tanto d’occhi alla vista di Nàzzaro.

             Non si ricordava più di nulla. Condusse il compagno nell’altra stanzetta e, sollevata la caditoja su l’assito, scesero entrambi la scala di legno della cateratta e pervennero nel piano di sotto, intanfato dello sterco di tutte quelle bestioline e di rinchiuso.

             Gli uccelli, spaventati, presero tutti insieme a strillare, levandosi con gran tumulto d’ali verso il tetto.

             –    Quanti! quanti! – esclamò Nàzzaro, pietosamente, con le lagrime a gli occhi. – Povere creature di Dio!

             –    E ce n’erano di più! – esclamò Simone Lampo, tentennando il capo.

             –    Meritereste la forca, don Simo’ ! – gli gridò quello mostrandogli le pugna. – Non so se basterà l’espiazione che v’ho fatto fare! Su, andiamo! Bisognerà mandarli tutti in una stanza, prima.

             –    Non ce n’è bisogno. Guarda! – disse Simone Lampo, afferrando un fascio di cordicelle che, per un congegno complicatissimo, tenevano aderenti ai vani delle finestre e dei finestroni gli ingraticolati.

             Vi si appese, e giù! Gl’ingraticolati, alla strappata, precipitarono tutt’insieme con fracasso indiavolato.

             – Cacciamo via, ora! cacciamo via! Libertà! Libertà! Sciò! sciò! sciò!

             Gli uccelli, da più mesi lì imprigionati, in quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero in prima spiccare il volo: bisognò che alcuni, più animosi, s’avventassero via, come frecce, con uno strido di giubilo e di paura insieme; seguiron gli altri, cacciati, a stormi, a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima, come per rimettersi un po’ dallo stordimento, su gli scrimoli dei tetti, su le torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi del vicinato, suscitando giù, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a cui Nàzzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando a gridare per le stanze ormai vuote:

             – Sciò! sciò! Libertà! Libertà!

             S’affacciarono quindi anch’essi a godere dello spettacolo della via invasa da tutti quegli uccellini liberati alla nuova luce dell’alba. Ma già qualche finestra si schiudeva; qualche ragazzo, qualche donna tentavano, ridendo, di ghermire questo o quell’uccellino; e allora Nàzzaro, furibondo, protese le braccia e cominciò a sbraitare come un ossesso:

             – Lasciate! Non v’arrischiate! Ah, mascalzone! ah, ladra di Dio! Lasciateli andare!

             Simone Lampo cercò di calmarlo:

             – Va’ là! Sta’ tranquillo, che non si lasceranno più prendere ormai… Ritornarono al piano di sopra, sollevati e contenti. Simone Lampo s’accostò

             a un fornelletto per accendere il fuoco e fare il caffè; ma Nàzzaro lo trasse di furia per un braccio.

             –    Che caffè, don Simo’! Il fuoco è già acceso. L’ho acceso io stanotte. Su, corriamo a vedere l’altra volata di là!

             –    L’altra volata? – gli domandò Simone Lampo, stordito. – Che volata?

             –    Una di qua, e una di là! – disse Nàzzaro. – L’espiazione, per tutti gli uccelli che vi siete mangiati. Fuoco alla paglia, non ve l’ho detto? Andiamo a sellare l’asina, e vedrete.

             Simone Lampo vide passarsi come una vampa davanti agli occhi. Temette d’intendere. Afferrò Nàzzaro per le braccia e, scotendolo, gli gridò:

             –    Che hai fatto?

             –    Ho bruciato il grano del vostro podere, – gli rispose tranquillamente Nàzzaro.

             Simone Lampo allibì, dapprima; poi, trasfigurato dall’ira, si lanciò contro il matto.

             – Tu? Il grano? Assassino! Dici davvero? M’hai bruciato il grano? Nàzzaro lo respinse con una bracciata furiosa.

             – Don Simo’, a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? Fuoco alla pa glia, mi avete detto. E io ho dato fuoco alla paglia, per l’anima vostra!

             – Ma io ti mando ora in galera! – ruggì Simone Lampo. Nàzzaro ruppe in una gran risata, e gli disse chiaro e tondo:

             –    Pazzo siete! L’anima, eh? Così ve la volete salvare l’anima? Niente, don Simo’ ! Non ne facciamo niente.

             –    Ma tu m’hai rovinato, assassino! – gridò con altro tono di voce Simone Lampo, quasi piangente, ora. – Potevo figurarmi che tu intendessi dir questo? bruciarmi il grano? E come faccio ora? Come pago il censo alla mensa vescovile? il censo che grava sul podere?

             Nàzzaro lo guardò con aria di compatimento sdegnoso:

             –    Bambino! Vendete la casa, che non vi serve a nulla, e liberate del censo il podere. È presto fatto.

             –    Sì, – sghignò Simone Lampo. – E intanto che mangio io là, senza uccelli e senza grano?

             –    A questo ci penso io, – gli rispose con placida serietà Nàzzaro. – Non devo star con voi? Abbiamo l’asina; abbiamo la terra; zapperemo e mangeremo. Coraggio, don Simo’!

             Simone Lampo rimase stupito a mirare la fiducia serena di quel matto, ch’era rimasto innanzi a lui con una mano alzata a un gesto di noncuranza sdegnosa e un bel riso d’arguta spensieratezza negli occhi chiari e tra il folto barbone abbatuffolato.

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