Frammento di cronaca di Marco Leccio – Audio lettura

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Legge Giuseppe Tizza
«Ma fuori, nelle relazioni con gli altri, è ben triste l’impressione dei figli nel vedere il padre staccarsi dalla loro realtà per entrare in quella che gli altri gli daranno. Avvertono subito qual’è, que­st’altra realtà, e ne soffrono.»

Prime pubblicazioni: Nel rifacimento della novella Berecche e la guerra per il XIV volume delle Novelle per un anno (Milano, Mondadori, 1934), ove i tre capitoli dell’edizione del 1919 sono diventati otto, Pirandello utilizzò questo racconto. Il secondo capitolo di Marco Leccio col signor Livo Truppel fu travasato in Berecche.

Frammento di cronaca di Marco Leccio
Immagine dal Web

Frammento di cronaca di Marco Leccio
e della sua guerra sulla carta
nel tempo della grande guerra europea

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. Ogni anno il 21 luglio è stato giorno di festa in casa di Marco Leccio. An­niversario della battaglia di Bezzecca, e onomastico della figliuola maggiore, signora Bezzecca Truppel.

             Quest’anno, primo anno della nostra guerra, coi nostri soldatini già quasi in vista di Trento, la festa avrebbe dovuto essere più che mai solenne; viceversa è andata a monte per due dolorosissime ragioni.

             Prima: il genero signor Truppel, oriundo svizzero tedesco. Ma non propria­mente per lui, Truppel, ottima pasta d’uomo, alieno dalla politica, non più svizzero, tanto meno tedesco, sebbene non ancora italiano. Per il suo co­gnome.

             Non se l’è mica dato né scelto da sé, il signor Truppel, quel cognome; gli è venuto da suo padre, morto a Zurigo da tanti anni; e non ci tiene.

             Forse lì a Zurigo, chiamarsi Truppel voleva dire qualche cosa; ma fuori del paese natale, cioè fuori delle relazioni, delle parentele, delle conoscenze, che cos’è più un cognome? Per uno sconosciuto, tanto vale chiamarsi Truppel, quanto chiamarsi… che so? in un altro modo qualsiasi. Se non fosse per aver le carte in regola…

             Il signor Truppel, per conto suo, dentro di sé, si conosce un’anima pacifica, senza cognome, senza stato civile, né nazionalità; un’anima per due occhi aperta qua, come altrove, all’inganno delle cose, che certamente non sono come appaiono, se un po’ si vedono in un modo e un po’ in un altro, a seconda dell’animo e degli umori. Egli fa di tutto per non alterarselo mai, il suo modo, e si contenta di poco, perché quel poco sa gustarselo in pace e con sag­gezza, come gli innocenti piaceri della natura, la quale, a dir vero, è una di tutti e non sa né di patrie né di confini.

             Candido com’è, e di tenero cuore, al signor Truppel piacciono specialmente le giornate di nuvole chiare, quelle dopo le piogge, quando c’è sapore di terra bagnata e nell’umida luce l’illusione delle piante e degli insetti, che sia di nuovo primavera. Di notte, guarda quelle nuvole che dilagano su le stelle e le annegano per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Guarda quelle stelle; sogna senza sogni, e sospira.

             Di giorno, il signor Truppel si considera un brav’uomo nella vita. Un brav’uomo, così, e basta. Non già a Roma, cioè in Italia, o altrove: no, nella vita. Così, e basta. Anzi, propriamente, un bravo orologiaio, nella vita.

             Tutto circoscritto nei limiti del suo banco ricoperto di candida tela cerata die­tro la vetrina della sua bottega in via Condotti, s’incastra nell’occhio destro il monocolo a cannoncino e, curvo su la pinzetta fissata al banco, prova e ri­prova con inesauribile pazienza sul pezzo da accomodare i tanti piccoli at­trezzi del suo pazientissimo mestiere, lime, seghe e calibri, nel silenzio tra­punto dall’assiduo acuto sottile pulsare dei cento orologi.

             Non gli passa minimamente per il capo, nell’adoperare con infinita delica­tezza quegli esili strumentini sul fragile congegno complicato degli orologi, che in quello stesso momento, altrove, per tanta parte d’Europa, uomini come lui a milioni ben altri strumenti adoperano, fucili, cannoni, baionette, bombe a mano, per un lavoro ben diverso di questo suo, d’accomodare orologi; e che il silenzio vibrante qua attorno a lui dall’acuzie di quel ticchettio continuo, ap­pena percettibile, è straziato altrove dall’orrendo rimbombo d’obici e di mor­tai.

             Il suo mondo, la sua vita son concentrati lì, di giorno, in una calotta d’orolo­gio; come, di notte, sciolta ormai da quasi tutte le passioni terrene, la vita del suo spirito è assorbita nella contemplazione dell’armonia di ben altre sfere: quelle celesti.

             Benché il signor Truppel paja uno stupido, si può giurare dal modo come sorride voltandosi, a richiamarlo da quelle sue celesti contemplazioni, ch’egli non considera il firmamento come un sistema d’orologeria.

             Rimase perciò propriamente come uno che caschi dalle nuvole, allorché, nei giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, una grossa frotta di dimostranti s’avventò, passando come un ura­gano, contro la sua bottega d’orologiaio e gli fracassò in un batter d’occhio insegna, sporti, vetrina, ogni cosa.

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             II. Il signor Truppel, passato il primo sbalordimento per il fracasso dei vetri rotti, non temette tanto per sé, quanto per il fratello, suo socio nell’orologeria e di natura ben altra dalla sua: ispido, cupo e bestiale.

             Tondo tondo, biondo biondo, il signor Truppel si buttò avanti, parando con le manine bianche grassocce, con gli occhi pieni di lagrime, quegli occhi che di solito hanno la limpida chiarità ridente dello zaffiro, a gridare a quei dimo­stranti ch’egli era svizzero e non tedesco, svizzero e non tedesco, svizzero, svizzero, svizzero; da più che venticinque anni in Italia, e genero di un vete­rano garibaldino, reduce di Bezzecca, e con la moglie che si chiamava an­ch’essa Bezzecca, e con un figliuolo già sotto le armi, allievo ufficiale, allievo ufficiale, allievo ufficiale nell’82° fanteria.

             Ma sì, a chi lo gridò? ai suoi vicini di bottega che lo conoscono bene e sanno tutti che perla di uomo sia. I dimostranti, fatto il danno, s’erano già allontanati da un pezzo, sicurissimi d’aver compiuto un atto, se non proprio eroico, certo molto patriottico. Ma il danno, anche quello, via, roba da poco. Il guaio, il vero guaio, fu per il fratello, che il signor Truppel credeva ancora dentro la bottega, e invece no, non c’era più. Terteuffel!, corso dietro a quei dimostranti, imbestialito.

             Orbene, questo fatto, che per il pacifico signor Truppel ha avuto l’impor­tanza di un semplice malinteso tra lui e la popolazione romana, a causa del suo cognome tedesco (malinteso deplorevole, sì, ma da non farne poi un gran caso), certamente non sarebbe stato cagione di mandare a monte il 21 luglio la festa in casa del suocero, se il fatto stesso, riferito a Marco Leccio, non si fosse malamente complicato per la violenta intromissione di questo.

             Marco Leccio, su le furie, non se la prese mica coi dimostranti che avevano fracassato al genero i vetri della bottega, atto vandalico ma scusabilissimo col furore popolare giustamente divampato per le losche e vili manovre tedesche a danno degli interessi e del decoro d’Italia. Se la prese col genero per quella – come disse – sua porcheria di cognome tedesco.

             Perdio! dopo venticinque anni di dimora in Italia, perché suo genero – sviz­zero – doveva ancora portare quel cognome che diventava oggi come un mar­chio di infamia? Avrebbe dovuto già da un pezzo domandare la cittadinanza italiana e cambiarsi quella porcheria di cognome. Si chiamava Livo o Godolivo, Truppel? Ebbene, Livo Truppa! Ecco fatto: Truppa, Truppa! Bellissimo cognome, d’occasione!

             Niente in contrario, quel buon signor Livo Truppel. Sorridendo, si dichiarò, da parte sua, prontissimo. Ma c’era il fratello, c’era, e la bottega in comune. E persuadere il fratello a questo cambiamento non solo di cognome, ma anche di ditta, non gli pareva facile impresa. Marco Leccio disse che se ne prendeva lui pacificamente l’incarico; ma l’esito fu una querela per ingiurie e minacce del signor Guglielmo Truppel al veterano garibaldino Marco Leccio e la condanna condizionale di questo, in pretura, a L. 43 di multa.

             Marco Leccio, quel giorno, fu cacciato a viva forza dalla pretura perché, udita la condanna, si mise a gridare come un ossesso che voleva pagare la multa, sì, ma non voleva la condanna condizionale. Ecco qua le 43 lire; ridi­ceva porco al signor Truppel! La museruola per cinque anni a lui? La muse­ruola in un momento come quello?

             – Signor pretore, io debbo gridare contro i ricchi signori dell’aristocrazia romana, che non danno un soldo alla lista dei comitati di organizzazione civile! Contro le istituzioni cittadine privilegiate che non danno un soldo neppur esse o sottoscrivono per somme irrisorie! e ci sono gli incettatori delle derrate! e ci sono i padroni di case! Verità sanguinose c’è da gridare contro quanti in quest’ora suprema non sentono il loro dovere di italiani!

             Il pretore si turò le orecchie; ordinò che l’aula fosse sgombrata, e tutto finì lì.

             Ma il povero signor Truppel si trovò, dopo la condanna, in una condizione che non avrebbe potuto esser peggiore, data la sua pacifica natura. Tra il fra­tello, da una parte, si trovò, suo socio nell’orologeria e ospite finora in casa sua, e la moglie e il suocero, dall’altra.

             Il fratello, bisogna dire la verità, non gl’impose d’abbandonare la moglie e il tetto coniugale per seguitare a convivere con lui in una casa a parte. No, ma pretese e si fece promettere e giurare che almeno non avrebbe rimesso piede mai più nella casa del suocero e che se il suocero veniva qualche sera da lui a visitare la figliuola egli, ove non riuscisse lì per lì a trovare una scusa per an­darsene fuori di casa, oltre il saluto non gli avrebbe rivolto la parola e, dopo il saluto, avrebbe sputato in terra.

             Sputato in terra?

             Sì, sputato in terra, così.

             Il signor Truppel guardò afflittissimo per terra lo sputo del fratello, e quasi quasi fu per cavare di tasca un fazzoletto per andare a pulire.

             – No! no! sputare in terra – gli gridò il fratello, – sputare in terra. Così! E sputò di nuovo.

             Ma santo nome di Dio benedetto! Se non sapeva sputare, lui, se non sputava mai neppure nel fazzoletto, da quella brava persona che era! Si, sì, va bene: il signor Truppel promise, giurò per placare il fratello; ma, passato il primo momento, si sa che valore hanno certe promesse e certi giuramenti anche per coloro a cui sono stati fatti.

             A ogni modo, partecipare alla festa del 21 luglio in casa del suocero, il bravo signor Truppel non ha potuto.

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             III. Anche se avesse potuto, però, la festa non avrebbe avuto luogo ugualmente per un’altra e più grave e dolorosa ragione.

             Per intender bene quest’altra ragione bisogna sapere che cosa realmente il 21 luglio rappresenta per la famiglia Leccio. Non l’anniversario soltanto della gloriosa battaglia garibaldina; non soltanto l’onomastico della figliuola mag­giore; ma la stessa ragion d’essere della famiglia, che appunto dalla battaglia di Bezzecca ha tratto l’origine.

             A diciott’anni Marco Leccio prese parte alla campagna del Trentino con De­fendente Leccio, suo padre, e con un certo Casimiro Sturzi, suo amico da fra­tello, coetaneo, orfano di padre e di madre. Perdette a Bezzecca, nella famosa carica alla baionetta, il padre e l’amico. Non ebbe neanche il tempo di pian­gerli. All’amico, mentre gli spirava tra le braccia raccomandandogli la sorella Marianna che restava sola al mondo, promise che, se fosse scampato alla morte, il che non era sicuro, date le difficoltà di quella campagna; ma se fosse scampato, la sorella l’avrebbe sposata lui.

             Certo, nel fare questa promessa, non s’aspettava che, appena quattro giorni dopo, quando già tutto il Trentino era occupato e Trento stava per cadere, Ga­ribaldi sarebbe stato costretto a rispondere all’ordine del La Marmora il suo: Obbedisco.

             Non ne parliamo, per carità, perché anche oggi – coi nostri soldati lì, quasi in vista di Trento – a sentirne parlare, Marco Leccio, pensando al padre morto, all’amico morto, alle terribili fatiche durate invano, al suo fiero impeto repub­blicano stroncato da quella parola, si amareggia il sangue, si guasta il fegato, ruglia ancora come una belva a cui non è prudente accostarsi.

             Quattr’anni dopo, nel 1870, presa Roma, egli manteneva la promessa fatta in punto di morte all’amico sul campo di battaglia, e sposava quasi per forza Marianna Sturzi.

             Quasi per forza, perché la povera Marianna, ospitata per carità in casa d’una certa Lanzetti in via del Governo Vecchio, sua lontana parente, pareva se l’in­tendesse molto timidamente con l’unico molto timido figliuolo di costei, di­ciannovenne, per nome Agostino.

             Il fatto è che ci furono pianti assai, e che se Marco Leccio non si ebbe un re­ciso rifiuto, lo dovette allo sbigottimento da cui furono prese le due donne e il timido giovanotto davanti alla prepotente e impetuosa sicurezza con cui egli venne a imporre il suo diritto: il diritto che gli veniva dalla sacra promessa al fratello morto eroicamente.

             – Amore? ma che amore! Sciocchezze! Dovere. Obbligo sacrosanto, a cui non si poteva mancare. Non aveva lui, repubblicano, seguito Garibaldi che combatteva in nome del re d’Italia?

             Quando un dovere preciso s’impone, non c’è amore che tenga; bisogna sacri­ficargli tutto. Anch’egli sposava controvoglia, perché non si sentiva adatto al matrimonio. Ma facile è fare ciò che piace; bisogna fare ciò che è difficile; obbedire a un dovere anche quando non piaccia.

             E non pensò Marco Leccio che l’unico desiderio di Casimiro Sturzi, nel rac­comandargli, morendo, la sorella Marianna, era che questa non restasse sola e trovasse un sostegno nella vita; che avendo ella trovato questo sostegno in quel giovanotto col quale forse sarebbe stata più lieta, egli avrebbe potuto sot­trarsi alla promessa di sposarla. Non lo pensò; non volle pensarlo. O piuttosto, non volle accogliere questo pensiero perché gli parve suggerito dal suo torna­conto, un vile accomodamento con la sua coscienza.

             Là, sposare!

             E sposò. Se la sposa non era adatta a quel genere di matrimonio, aveva egli tanto impeto in sé e tanto fervore patriottico, da bastare non solo per la moglie ma anche per tutti i figliuoli che sarebbero venuti: dieci, quindici, venti; non li avrebbe contati.

             Ne sono venuti otto: cinque maschi, tre femmine, di cui ecco qua l’elenco per ordine d’età:

             1° Giuseppe (Garibaldi), che ha già 44 anni; ma non bisogna parlarne;

             2° Bezzecca, moglie del bravo signor Truppel, 41;

             3° Anita, 38;

             4° Defendente, 33;

             5° Nino (Bixio), 29;

             6° Teresita, 24;

             7° Canzio, 21;

             8° Giacomo (Medici), 18.

             – Le donne, – dice Marco Leccio, – non bisogna mai lasciarle in ozio. Ho fatto fare figli a mia moglie fino a 47 anni.

             E soggiunge con orgoglio:

             – Giacomino, il mio ultimo, ha un anno meno del primo figlio di mia figlia Bezzecca. Ho voluto ancora, da nonno, esser padre, e che mia moglie fosse ancora madre, da nonna.

             Non dice quante pene e quali stenti gli sia costato il mantenerli, l’educarli, con quel suo animo pronto sempre a sottomettersi al giogo delle più aspre e dure necessità, sì, ma d’altra parte ribelle sempre a tutte quelle piccole transa­zioni e mortificazioni, a cui deve piegarsi chiunque alla fine si voglia procac­ciare un posto sicuro e rispettato nella vita.

             Le lotte politiche, la sua aperta professione di fede repubblicana, lo sdegno feroce per tutti gli atti della meschina vita nazionale italiana lungo tanti e tanti anni, gli hanno fatto perdere tre volte il frutto delle fatiche; è stato due volte in prigione, una volta al confine; e ogni volta ha dovuto ricominciare daccapo. Vent’anni d’Agro romano, nell’appalto fortunato d’una bonifica, ma da cui alla fine, col corpo debellato dagli acciacchi, è stato costretto a ritirarsi, gli hanno dato, non certo l’agiatezza, ma tanto da vivere in riposo, adesso, mode­stamente, i suoi ultimi anni, con la moglie e i tre figliuoli che gli sono rimasti in casa.

             Bisogna riconoscere che il matrimonio patriottico non ha impedito alla si­gnora Marianna d’esser ottima moglie e ottima madre, come non ha impedito ad Agostino Lanzetti, il quale poco dopo quel matrimonio per dispiacere si fece prete e ora si chiama don Agostino, di rimanere buon amico di casa Lec­cio, non ostante il contrasto delle opinioni politiche e non ostante il più forte dolore che Marco Leccio abbia avuto nella sua vita e del quale fu autore, per quanto incosciente, don Agostino appunto: la degenerazione cioè del suo primo figliuolo, ora cassiere in un negozio d’arredi sacri in piazza della Mi­nerva.

             Si può argomentare da questa professione di cassiere in un negozio d’arredi sacri in che senso Marco Leccio dica degenerato il suo primo figliuolo.

             Gli aveva imposto al fonte battesimale il nome Garibaldi: ora, le rare volte che gli accade di nominarlo, lo chiama, col volto atteggiato di sdegno e di de­risione, San Giuseppe.

             Don Agostino Lanzetti giurò e spergiurò in principio di non averci messo mano affatto, di non sentirsi per nulla responsabile dei sentimenti e delle opi­nioni per cui quel figliuolo s’è da tanti anni alienato dal padre. Ora però non giura e non spergiura più. Non giura e non spergiura più, da quando Marco Leccio, per non offendere la moglie, se l’è chiamato in disparte e gli ha detto a quattr’occhi:

             – Don Agostino, sta’ zitto! La colpa è tua. Tua, perché mia moglie, quando concepì quel disgraziato, che fu nel primo anno del nostro matrimonio, piangeva sempre, e piangeva per te che t’eri fatto prete. Perciò quel figliuolo lì m’è nato con la chierica. Hai capito? Sta’ zitto.

             Fortuna che l’influsso ecclesiastico potè così fortemente soltanto su quel primo nato, e fortuna che vennero poi due femmine, Bezzecca e Anita, nelle quali a mano a mano s’attenuò fin quasi a sparire. Il quarto e il quinto figlio, Defendente e Bixio, diedero anch’essi dolore al suo cuore repubblicano quando vollero entrare nella regia milizia. Ma oggi Marco Leccio è lieto e or­goglioso che tanto il primo, capitano d’artiglieria, quanto il secondo, tenente di fanteria, siano già al fronte insieme col settimo figliuolo Canzio, sottote­nente di complemento nei granatieri di Sardegna.

             Quanto a Giacomino… Ecco, il 21 luglio, anniversario della battaglia di Bez­zecca…

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             IV. Tutto pronto, tutto pronto… Camicia rossa e medaglie commemorative al petto; non per vana pompa, ma per vestire di giusti panni la sua intenzione d’arruolarsi a sessantasette anni volontario per una guerra che dev’esser pro­secuzione e compimento di quella del 1866.

             Il 21 luglio, anniversario della battaglia di Bezzecca, Marco Leccio s’era chiuso nello studio, divenuto dai primi d’agosto dell’anno scorso non un solo campo di battaglia ma parecchi campi di battaglia; e insieme col vecchio re­duce Tiralli, suo aiutante di campo, o piuttosto, suo umilissimo attendente, aspettava che Giacomino scendesse a noleggiare una vettura non volendo re­carsi a piedi, così parato, alla caserma dell’82 fanteria.

             Non mancava dunque che questo. L’animo c’era; la volontà c’era. Non è forse tutto la volontà?

             Don Agostino Lanzetti, che con gli anni e i perseveranti studii latini s’è fatto, a simiglianza del corpo, sottilissimo lo spirito, e aguzzo come il suo mento, e arguto come il suo naso, per tranquillare le donne nella saletta da pranzo, cioè la signora Marianna e la figliuola Teresita, diceva di no: un no liscio come la sua faccetta di carruba secca. No, che la volontà non era tutto. Quella di Dio, sì; ma quella degli uomini… – cammina forse da sola, la volontà degli uomini? Ha bisogno di due buone gambe, per camminare.

             – E Marco, – diceva – state tranquille: cammina col bastone.

             La sciatica. Se l’è presa Marco Leccio, a poco più di quarant’anni, nella campagna romana. Una di quelle!… ma una di quelle!…

             Ha fatto di tutto per liberarsene. Cure eroiche. Anche la cauterizzazione. Niente ha valso. E per gli accessi frequenti, spesso lunghi un mese e più, la gamba destra gli s’è un po’ raccorciata. Più d’un po’. Egli però non vuole ri­conoscerlo e sostiene che non è vero.

             Marco Leccio vuole avere il merito di camminare libero e spedito, sigaro in bocca, occhio ilare e bastone levato, con quel tormento che non lo lascia mai. Un dolore sordo, contundente. Un dolore pazzo che ora gli dà freddo ora caldo alla gamba. E certi pruriti, e certi formicolìi… Niente. Vuole esser più forte del suo dolore, a ogni costo.

             A nove anni, nel 1857, per imparare a soffrire per la patria, obbligava i com­pagni di giuoco a strappargli i capelli dal capo a uno a uno. Presentava la testa e, strizzando gli occhi e stringendosi le braccia incrociate sul petto, ordinava: – Strappate! –. Ora, vecchio, con quel malanno addosso, serra i denti, e là, si costringe, le notti di tortura, anche al decubito su la coscia affetta, quando però l’accesso non è di quelli famosi, perché allora i suoi spasimi sono così atroci, che non tollera neppur la vista d’una mano che accenni a sorvolargli su la gamba. Urla, come se gliela toccassero. Talvolta, anche solo traendo il respiro, il respiro gli si cangia in un grido: – ahi! –. E quando si riscalda contro qualcuno o per qualche cosa (il che, per dire la verità, gli avviene spesso), quantunque egli protesti sempre di voler ragionare, in mezzo ai ragionamenti, ecco che scatta in un’improvvisa bestemmia o in una feroce imprecazione, che lascia tutti sbalorditi, a bocca aperta, perché pare che non c’entri, quell’impre­cazione, e difatti non c’entra: è rivolta al nervo sciatico, che non vuole di quei riscaldamenti.

             Non vuole niente, non vuole, quel maledettissimo nervo! Perciò Marco Lec­cio, quand’è più infuriato, si dà sempre attorno con le mani a metter ordine nella stanza, a rassettare i piccoli oggetti su i mobili. Pare strano: una curiosa incongruenza: ma non è. Istintivamente, mentre il suo animo è acceso e in subbuglio, fa quei gesti per placare, per non smuovere la sua sciatica, che vuol calma, ordine, riposo: procura di darglieli fuori, tutt’intorno, non potendo den­tro di sé. Ma è tignosa, quella porca! D’improvviso, a tradimento, gli dà una fitta, lo pizzica; e allora, bum! Marco Leccio scaraventa a terra l’oggettino che stava per rimettere a posto con tanto garbo in mezzo alle furie.

             – La volontà – soggiungeva quella mattina del 21 luglio don Agostino Lanzetti alle due donne nella quieta saletta da pranzo – dico la loro volontà, gli uomini la vogliono salvare a ogni costo; e quand’essa non sappia stare nei limiti del possibile, per salvarla, la chiamano velleità. Se una donna vuole esser uomo, se un vecchio vuole esser giovane… velleità! Cose ridicole e pietosissime. Vedrete che Marco ha un bel volere: non potrà; e se non lo vuole intender lui, gliene daranno intenzione gli altri. State tranquille.

             C’era poi anche Giacomino, che non sapeva risolversi ad andar per la vettura, non perché a lui come lui non paresse mill’anni di presentarsi in caserma ad arruolarsi anche lui volontario; ma perché doveva presentarsi col padre.

             È spesso un gran dolore e una grande mortificazione per i figliuoli il notare che al proprio padre gli altri non danno e non possono dare quella stessa realtà ch’essi gli danno. Per essi il padre è quale lo amano e lo rispettano, in casa, in famiglia, per tutta quella parte della loro vita, che resta legata e sottomessa al­l’affetto paterno, all’autorità paterna. Ma fuori, nelle relazioni con gli altri, è ben triste l’impressione dei figli nel vedere il padre staccarsi dalla loro realtà per entrare in quella che gli altri gli daranno. Avvertono subito qual è, que­st’altra realtà, e ne soffrono. Il padre non se n’accorge e guarda gli occhi del figlio e nota che questi l’ha come lasciato solo, abbandonato; che gli sta ac­canto in atteggiamento penoso e sospeso. Perché? Che avviene? Non si sente più sicuro di sé, sente che gli manca un appoggio, l’appoggio solito della pro­pria realtà nel suo figliuolo. – Ma come? Che è?

             – Niente, papà… – sorride afflitto il figliuolo. E se lo vorrebbe portar via subito, per non tenerlo così esposto alla ridicola realtà, che ha assunto per gli altri, il suo papà che è vecchio e non sa che oggi non si pensa più così, non si va più a spasso vestiti così, con quel cappello di quella foggia, per esempio, e più così non si parla e più così non si ride, e via di seguito. Ma come si fa a dire al padre di queste cose?

             Giacomino fremeva, quella mattina, si sentiva torcer le viscere, solo pen­sando all’aria, all’impostatura con cui il padre si sarebbe presentato in ca­serma alla commissione d’arruolamento, parato a quel modo; alle parole che avrebbe rivolto alla commissione, senza intendere che oggi l’offerta di sé do­veva esser fatta con modestia e serietà.

             Non che Giacomino, badiamo, credesse che nell’intenzione del padre non fosse seria l’offerta della sua vita. Sapeva bene chi era suo padre e in che conto la teneva, la vita e le cose sue più care, non già di fronte a un debito d’onore, ma anche per un puntiglio da nulla, come tante volte aveva dimo­strato. Ma il modo! la maniera! Tutto quello che il padre diceva, da undici mesi, della guerra europea là nello studio col reduce Tiralli, curvo ora su que­sta ora su quella carta geografica, irta di bandierine, dei varii fronti della guerra, stese su tante tavole sorrette dai cavalletti, Dio liberi se si fosse messo a ripeterlo lì davanti alla commissione!

             Sudava freddo, Giacomino, solo a pensarci. Don Agostino Lanzetti lo spinse ad andare per la vettura.

             – Va’, va’, figliuolo; non lo fare aspettar troppo. Sai bene com’è… Per ora, di là con Tiralli si distrae parlando della guerra, ma se poi s’accorge che s’è fatto tardi, son guai!

             Giacomino andò e, purtroppo, di lì a poco, tutto quello che aveva immagi­nato di dover soffrire, lo soffrì davvero nella caserma dell’82 fanteria.

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             V. La commissione era composta da un tenente colonnello, da un maggiore re­latore, da un capitano medico e da un capitano contabile, nella sala della sa­nità.

             Marco Leccio si presentò fieramente accigliato, a denti stretti, le mascelle convulse e le nari divaricate, da cui l’ansito cacciava come due cannonate di fumo. Ma non per l’emozione patriottica, né per darsi un’aria, come credette Giacomino. Per ben altro! Smontando dalla vettura innanzi al portone della caserma, Marco Leccio aveva avvertito la fitta ben nota alla piegatura della natica, e ora faceva sforzi erculei perché non paresse nulla, andando innanzi alla Commissione.

             Furono tre i supplizii di Giacomino. Primo, quando il tenente colonnello cre­dette di porgere un bel saluto al veterano garibaldino che veniva a offrirsi vo­lontario; e il padre, commosso, con una mano sul petto, prese a dire:

             – Questa guerra, signor colonnello, avremmo dovuto combatterla soltanto noi! Noi. Perché è la guerra nostra. Quella che ci costrinsero a troncare nel bel meglio, il 1866! L’onta, il ribrezzo di più che trent’anni per un’alleanza odiosa col nemico nostro, fomentati dallo sdegno, dall’orrore delle atrocità commesse dai nostri alleati di ieri, signor colonnello, hanno dovuto rodere il freno d’una disumana pazienza. E ora che questo freno finalmente s’è rotto, ora che il ribrezzo, l’odio soffocati per trenta e più anni prorompono e s’avventano, ecco, ecco come ci ritroviamo noi, signor colonnello: noi, quanti siamo di questa sciagurata generazione nostra, a cui, dopo Bezzecca, è toccata l’onta della pazienza e l’ignominia di una alleanza col nemico irreconciliabile. Vecchi ci troviamo, quasi finiti, e dobbiamo mandare avanti i nostri figli, nei quali forse il ribrezzo non freme e l’odio non ribolle come in noi! Ma noi, no, signor colonnello! noi, così vecchi come siamo, dobbiamo esser messi avanti a tutti! come avanti a me, a Bezzecca, fu messo mio padre! I figli ci debbono veder cadere, noi vecchi, perché così l’odio, il furore della vendetta divampi in loro uguale al nostro e uguagli quelle forze che a noi vecchi mancano! Ho già tre figli al campo e vengo a portare quest’ultimo. Vogliamo essere soldati semplici, signor colonnello, tanto io che mio figlio. Ho anche due nipoti lassù alla frontiera: un sacerdote, caporale di sanità, figlio del mio figliuolo maggiore; e il figlio di mia figlia, ufficiale di complemento. Mi piacerebbe, signor colonnello, d’andare fantaccino sotto il comando di questo mio nipote!

             Fortuna che il tenente colonnello e gli altri della commissione, dapprima un po’ storditi, accolsero approvando con un sorriso simpatico quella mezza concione.

             Il secondo supplizio di Giacomino fu all’esame delle carte, quando il mag­giore relatore nella fedina del padre trovò segnate le tre condanne politiche.

             – Cancellate! son già cancellate, signor Maggiore! – esclamò con fiera dignità Marco Leccio. – Le cancello io col solo fatto che mi presento qui, ora, volontario. Mi furono inflitte, perché non ho saputo mai acquietarmi a quell’onta di cui le ho parlato poc’anzi, e tre volte mi sono ribellato coi miei compagni di fede repubblicana. Ora che in Italia non c’è più partiti, ora che l’Italia fa il suo dovere, queste condanne cadono da per sé, son cancellate. Ce ne sarebbe anzi una quarta, recente, signor Maggiore, che lì non è segnata, perché condizionale.

             – Ah sì? Una quarta? Perché? – domandò il maggiore.

             – Perché ho detto porco a Truppel, signor maggiore.

             – Truppel, l’ammiraglio tedesco?

             – Nossignore, Truppel fratello di mio genero. Un porco svizzero tedesco. Mia figlia si chiama Bezzecca, signor maggiore, e non ho saputo tollerare che a questo nome restasse attaccata quella porcheria di cognome tedesco. Mio genero, che è un bravo uomo, era pronto a cambiarselo. Il fratello non ha vo­luto saperne, e allora… sciocchezze, una querela per ingiurie… 43 lire di multa… condanna condizionale…

             L’ultimo supplizio più grave di tutti, fu alla visita medica.

             Quanto a lui, Giacomino, bel figliolone roseo con tanto di spalle, non c’era da discutere: subito accettato, bersagliere ciclista volontario. Ma quando si venne alla visita del padre…

             Si vedevano, santo Dio, le vestigia della cauterizzazione lì su la coscia, i segni delle suppurazioni dei tanti vescicanti che vi aveva applicati con la po­mata epispastica, e i segni delle ventose e delle mignatte. Nossignori! Assicu­rare e sostenere che non era niente; che poteva marciare, anche a giornate; che soltanto qualche volta, in principio, provava una tal quale difficoltà a muo­versi, ma che poi, subito, i movimenti gli si scioglievano, gli si facevano liberi, agili come se nulla fosse. – Che, la gamba? raccorciata? ma che raccorciata! no! dove? normalissima!

             Se non che, a un certo punto, come il capitano medico accennò appena ap­pena di toccargliela, istintivamente ebbe come un imbevimento e fece per riti­rarsi, sussultando. Soffriva da mezz’ora, lì, in piedi, spasimi d’inferno!

             Il tenente colonnello, bravissimo uomo, ammirato, commosso e pur sorri­dente dell’ingenuità di quella generosa dissimulazione, non ostante che così chiari lì su la coscia apparissero i segni del male, si provò a fargli intendere che la commissione era dispostissima ad accoglierlo, perché in genere, senza stare a sofisticare, si largheggiava nell’accoglimento dei veterani per il presti­gio del loro aspetto e del loro passato. Gli avrebbe fatto dunque indossare, senza dubbio, la divisa. Ma inviarlo al fronte, in coscienza, non poteva. Po­teva renderlo utile, utilissimo, facendogli prestar servizio nella maggiorità, ecc. Più di questo non poteva.

             Marco Leccio non ebbe scatti, non proruppe, propriamente; anzi non s’offese neppure; non potè tuttavia nascondere un certo sdegno alla proposta: non tanto per la proposta in sé, quanto in relazione a ciò che egli invece si proponeva di fare.

             – Vestire per comparsa, no, signor colonnello! Maggiorità vuol dire… scrivano? star qui a scrivere su la carta? Carta per carta, signor colonnello, ce le ho tutte a casa, le carte della guerra. La farò a casa la guerra su la carta.

             Così, Giacomirio rimase, e lui se ne tornò solo in vettura, aggrondato, scon­fitto, con tale cupezza di misantropia scolpita nel volto, che non poteva dipen­dere dalla sola disperazione di quel disinganno.

             Difatti, non dipendeva da questo soltanto. In fondo, egli non si era ingannato; lo aveva previsto. Gli sarebbe certo piaciuto andare a morir bene lassù; ma non per questo soltanto aveva fatto quel tentativo di arruolamento quasi dispe­rato. La coscienza delle sue condizioni fisiche gliel’avrebbe forse sconsigliato. Un’altra ragione lo aveva spinto, che non voleva dare a vedere nemmeno a se stesso: Giacomino.

             Dirgli di no, opporsi al proposito che questo suo ultimo prediletto figliuolo gli aveva manifestato, di andarsi ad arruolare volontario per seguire i tre fra­telli, non poteva, non doveva; per tutto il suo passato, per l’educazione che gli aveva data, non poteva, non doveva. Ma staccarsi dal figlio, da questo suo ul­timo figlio che, solo, gli aveva fatto sentire quello che forse gli altri tutti insieme non gli avevano fatto ancora sentire, la tenerezza paterna, fino al punto di credersi capace di qualunque viltà solo al pensiero di un rischio ch’egli po­tesse correre; staccarsi da questo figlio non sapeva neppure. E perciò solo aveva tentato.

             Ora, non soffriva per altro. A chi non lo sapeva (e non lo sapeva nessuno) poteva parer ridicola tutta quella disperazione per non esser stato arruolato vo­lontario a 67 anni.

*******

             VI. Solo un’anima grossolana non è capace d’avvertire il disgusto che deve provare un magnifico divano di panciuta gravità, una soffice poltrona con la frangia lunga fino ai piedi, se sul tavolinetto lì davanti un cameriere venga a posare sbadatamente o per accorrer presto alla chiamata del padrone, una cuc­cuma affumicata di cucina, o se la cameriera si scordi su la testata di quel di­vano o sul bracciuolo di quella poltrona lo spolveraccio sporco o il piumino spennacchiato.

             Hanno i mobili anch’essi una sensibilità che vuol essere rispettata.

             Lo studio di Marco Leccio, per questo riguardo, non è stato offeso affatto dalla sua trasformazione, fin dal principio della grande guerra europea, in più campi di battaglia. Vi era già da un pezzo predisposto e anzi per un buon tratto avviato.

             Di studio, propriamente, non aveva mai avuto che una modesta scansia di libri, tutti per altro d’argomento storico e guerresco, sul risorgimento italiano e su le congiure delle società segrete. C’era poi una scrivania impiallicciata, all’antica, di quelle col palchetto a casellario davanti, per la corrispondenza. Accanto a questa scrivania, uno scaffaletto coi vecchi registri d’amministra­zione della tenuta dell’Agro romano, di cui, come s’è visto, il guadagno più cospicuo per Marco Leccio è stata la sciatica. Poi, le quattro pareti attorno erano coperte di stampe anch’esse guerresche: la battaglia di Calatafimi, la spedizione di Sapri, San Fermo, Aspromonte, la partenza da Quarto, la morte d’Anita; e di ritratti: quello di Mazzini e di Garibaldi, non c’è bisogno di dirlo, di Nino Bixio e di Stefano Canzio e di Menotti, di Felice Orsini e di Guglielmo Oberdan. Per giunta, nella parete di fronte, a mo’ di panoplia o di trofeo, ricordo della campagna del Trentino, Marco Leccio aveva appeso il suo vecchio schioppettone d’ordinanza incrociato con lo sciabolone d’ufficiale di Defendente Leccio suo padre. Sopra il motto di Garibaldi in grosse lettere: Fate le aquile; in mezzo, il suo berretto di garibaldino e una fascetta di velluto – rosso s’intende – ov’erano affisse le medaglie. Più sotto, in cornice, una let­tera scritta da lui il 19 luglio 1866 dal forte d’Ampola a un amico di Roma, con un ritaglio della bandiera austriaca presa in quel forte.

             Non potevano dunque restare offesi tutti quei libri di storia del risorgimento e quei ritratti e quelle stampe guerresche e quelle sciabole e quello schioppet­tone da una prima grande carta geografica, teatro della guerra sul fronte occi­dentale, fissata su una tavola da ingegnere sorretta da cavalletti; poi da una seconda carta non meno grande, teatro della guerra sul fronte orientale, su un’altra tavola sorretta anch’essa da cavalletti; poi, da una terza, più piccola, della Balcania fino all’Asia Minore; e ora infine dalle due ultime, della guerra nostra: la carta del Trentino e l’altra della Venezia Giulia.

             Su ciascuna di queste carte pende dal soffitto, filo e padellina, una lampada elettrica. Cinque lampade elettriche, di sera tutte accese, che fanno un bel ve­dere.

             Marco Leccio, discutendo i varii disegni strategici dei Tedeschi o degli Al­leati, i progressi, le ritirate, gli assedii alle fortezze, le resistenze dei campi trincerati, o col suo aiutante di campo il reduce Tiralli o anche con don Ago­stino Lanzetti, passa fulmineamente da un teatro di guerra all’altro e vuole che le sue indicazioni, le sue tracce, le sue mosse si vedano e seguano chiara­mente.

             Di queste lampadine, quattro sono bianche, una azzurra. L’azzurra pende sul teatro di guerra del Trentino, che non è propriamente una carta delle solite, ma una plastica in rilievo di cartapesta colorata, coi suoi laghi e i fiumi, i monti e le vallate, i ghiacciai, le fortezze, i valichi, borghi, città e insomma ogni cosa, che pare di poterci vivere in mezzo e andare e sentire il freddo di quei ghiac­ciai, l’ombra e la frescura di quelle vallate, uno che già ci sia stato e conosca i luoghi come Marco Leccio: Salò sul Garda, i valichi della Val Sabbia, il lago d’Idro, Storo alle Giudicarle, Val Trompia e Val Camonica, Rocca d’Anfo, le valli del Chiese e del Ledro con Ampola, e valle Conzei…

             Spegne Marco Leccio le altre quattro lampadine e lascia accesa qua quest’ul­tima azzurra, che vi spanda dall’alto un lume di sera, un blando lume di luna che conservi e accresca l’illusione della realtà a quel rilievo colorato. E non è già che quel lago di Garda e quelle valli e quei monti siano così piccoli perché finti, di cartapesta colorata: no; così piccoli sono perché egli li guarda da lon­tano lontano. Li ha lì davanti, sotto gli occhi? Sì, è vero. Ma lontano, nel ri­cordo, è il giorno da cui li guarda. E questa lontananza, che è di tempo, ha pur l’effetto, ecco, di fargli veder piccoli quei noti luoghi veri.

             Vi passa su nottate intere, con occhi sognanti, sapendo che lì, su le più alte cime, nei passi più difficili, in mezzo alla neve, sui ghiacciai, tra le rocce, si combatte anche di notte, a respingere gli assalti insidiosi del nemico, a guada­gnare altri passi, altre cime; e che su una di queste cime più contese c’è suo figlio, capitano d’artiglieria, quello che porta il nome di suo padre. Che farà a quest’ora? Serbare in petto l’ardore della fede nel gelo delle alte montagne, gelo che morde e avvilisce, e in mezzo al nevischio pungente, nella nebbia ch’esilia nell’angoscia di una tetraggine attonita e spaventevole, in mezzo alle bufere di neve, in quelle solitudini della natura così enormi, che la compagnia di pochi uomini non basta a confortare, è ben duro! Si vendicano i monti dei piccoli uomini che osano violare lassù la loro pace eterna. E son essi, i monti, i più formidabili nemici. Forse a quest’ora suo figlio, dalla ridotta scavata die­tro a una profonda trincea, è impegnato in un duello notturno d’artiglierie. Da un momento all’altro, chi sa! i suoi pezzi possono essere individuati, e allora… una granata…

             Si tira indietro, Marco Leccio, e para le mani e contrae il volto per lo spa­simo, come se arrivasse a lui in quel punto la granata. Poi serra gli occhi e si sforza di distrarre l’animo dall’immagine del suo figliuolo in pericolo, richia­mando gli antichi ricordi della campagna garibaldina lassù. E tutti i ricordi a poco a poco gli si rifanno vita, gli ridanno le ansie, i fremiti, gli affanni, le gioie, i dolori, le rabbie d’allora. Ansa, sbuffa, sbarra gli occhi o li aggrotta, arriccia il naso, s’ilara in volto tutt’a un tratto con la bocca schiusa a un sor­riso beato, e una lagrima gli sgocciola lenta da un occhio. Perché? Ma per niente! E entrato, di sera, in una casa di campagna in vai di Ledro. Il focolare monumentale è in mezzo alla stanza rustica, sotto la cappa, che è come una tramoggia enorme capovolta, tutta affumicata dentro. Il vento geme continuo dalla gola nera del camino, dalla quale pende una catena, al cui gancio è so­speso un calderotto fumante. Attorno, nelle nicchie sotto la cappa, stan seduti i contadini della casa, che parlano gravi in quella voce continua del vento te­nebroso… Ebbene, piange per questo? No: è quell’angoscia di rimpianto che, a chi passa precario per un luogo, dà la stabile vita degli altri in quel luogo, una vita intraveduta e assaporata per un momento, così intensamente, che tutta l’anima per sempre se ne impregna e nel ricordo può tornare a viverla, a rias­saporarla, a chiudersi in essa, come se fuori più non ci fossero le tante vicende di prima e di poi, le incertezze e le difficoltà del cammino, i desiderii, i pen­sieri che non hanno requie!

             Non capisce nulla di tutto questo il reduce Tiralli; e Marco Leccio se ne sde­gna e lo bistratta spesso, perché da lui, almeno, vorrebbe essere compreso ajutato nell’illusione che in un certo modo, lì nello studio, su tutte quelle carte, stiano combattendo sul serio anche loro.

*******

             VII. Il povero Tiralli, per dire la verità, è troppo impensierito della sua miseria. Miseria assoluta e tuttavia non semplice, perché complicata dalla sua qualità di reduce delle patrie battaglie, la quale gl’impone una certa dignità che, quanto più la considera tanto più lo intontisce.

             Non mangia tutti i giorni il reduce Tiralli, ma tutti i giorni si pettina bene i molti capelli lanosi, che per grazia di Dio gli sono rimasti; tutti i giorni s’in­dustria a lungo a far la barba con un mozzicone di candela al suo colletto inamidato, ai suoi polsini ingialliti e sfilacciati. Se porta sempre al petto le medaglie, non è per vanagloria, ma per distrarre l’attenzione dei passanti dalle sue scarpe e dal suo vestito, e poi perché non passa giorno che non faccia ser­vizio d’accompagnamento funebre.

             Li ha accompagnati tutti a uno a uno i suoi commilitoni più vecchi e anche più giovani di lui. Si può essere sicuri che in ogni portone di casa ove un re­duce è morto, accanto al tavolino su cui si raccolgono le firme dei visitatori, c’è lui, Tiralli, con le medaglie al petto, che piange molto dignitosamente.

             Finito l’accompagnamento, resta con certi occhi, cammina con certi passi, parla con certa voce, come se fosse sempre dietro a un carro mortuario.

             Marco Leccio lo soccorre come può e spesso lo trattiene a tavola con lui, e cerca in tutti i modi di scuoterlo da quel funebre intontimento. Ma lo scuote troppo, e lo imbalordisce di più. Urli, strilli… E poi pretende da lui, là sui campi di battaglia dello studio, certi servizii di spostamenti di bandierine, che al povero reduce Tiralli riescono quasi sempre male, debole com’è di vista e con le mani troppo tremolanti.

             – Ma come? ma che hai fatto? Ma questa è La Haute Chervauchée! E che c’entra La Haute Chervauchée? Mi ci pianti la bandiera francese? Ma dove? ma quando? Non vuoi capirlo che i francesi non si muovono? Presa? quando? che presa! ci avranno mandato sì e no qualche cannonata!

             Ha sudato più camicie, di questi giorni, con un gran tremore in corpo per paura di sbagliare, il povero Tiralli, correndo con le bandierine tedesche e au­striache appresso alla ritirata russa, prima dai Carpazi, poi dalla Galizia, ora dalla Polonia!

             Fosse una ritirata a precipizio, a rotta di collo, tale da non dover tenere più conto di nulla! Ma che! Una ritirata, che bisogna stare con tanto d’occhi aperti a seguirla; una ritirata di cui Marco Leccio decanta la miracolosa sapienza così fervorosamente, che guai se tra le sue dita tremicchianti una bandierina tedesca o austriaca corre troppo e s’appunta su un luogo difeso ancora stre­nuamente dalle retroguardie russe. Due giorni prima della caduta, ha appun­tato per isbaglio su Kowno una bandierina tedesca. Per miracolo Marco Lec­cio non se l’è mangiato.

             – Ah mi prendi già Kowno, pezzo d’animale? Togli via subito codesta bandierina! Kowno resiste e resisterà ancora per un pezzo, te lo dico io!

             Ora che Kowno è caduta, Tiralli potrebbe fargli osservare che infine il suo sbaglio è stato di poco. Non ha detto nulla. Ha riappuntato la bandierina. Marco Leccio, vedendola, ha muggito:

             – Non ti pareva l’ora, di’ la verità! Ma ce l’abbiamo ancora da vedere, sai? con codesto tuo signor Hindenburg, grande stratega delle tenaglie dei miei stivali!

             La strategia, non soltanto tedesca veramente, ma in genere tutta quanta la strategia scientifica moderna ha provocato e seguita a provocare in Marco Leccio uno sdegno che non potrebbe essere maggiore.

             E che qualcuno ha avuto la cattiva ispirazione di toccare un tasto, che non avrebbe dovuto esser toccato, conversando con lui. Gli hanno detto che a petto di questa guerra tutte le altre combattute finora dall’umanità, non parliamo delle battaglie garibaldine, ma anche le più famose battaglie napoleoniche, di­ventano cose da ridere. Ma sì, via, solo a considerare, per esempio, che tutti quanti i combattimenti degli eserciti regolari e dei volontarii nel periodo del nostro risorgimento, sommati insieme, non diedero di morti e feriti quanto in questa guerra ne danno certe scaramucce giornaliere, di cui i bollettini degli stati maggiori neppure tengono conto.

             Questo hanno avuto il coraggio di dire a lui, Marco Leccio, in principio della guerra. Non riesce ancora a calmarsi, a scordarselo, e se la piglia col povero Tiralli, come se gliel’avesse detto lui, come se veramente il povero Tiralli fosse un accanito difensore della strategia moderna.

             – Ah sì? ah sì? – sghigna di tratto in tratto. – Pochi morti, eh? pochi feriti? Poi lo investe:

             – E i tanti morti d’oggi, i tanti feriti d’oggi, a milioni, chi li ha fatti, donde provengono e che concludono? Bestie che non riflettete nulla! Non vedi che sono l’effetto di questa macchina stupida e mostruosa della tua strategia moderna, che mangia vite, strazia carni, e non conclude nulla? Sai dirmi che conclude, che ha concluso finora?

             Tiralli, muto, impalato, con un sopracciglio su, l’altro giù, lo guarda nell’at­teggiamento d’un cane fedele, rimproverato a torto dal padrone.

             – Quello che conclude sempre, – seguita Marco Leccio, – anche oggi, sempre, non vedi che è invece l’arma antica, l’arma gloriosa, l’arma nostra garibaldina, la baionetta? Te ne danno la prova, ogni giorno, su l’Isonzo, sul Carso, i bersaglieri nostri! E questi tuoi macchinosi tedeschi, carogne che si fanno forti dei ripari preparati e costruiti dalla tua famosa scienza strategica, appena la vedono, la baionetta, l’arma vera, che ha bisogno di coraggio e non di scienza, tremano, perdio, alzano le braccia e invocano pietà!

             Così dicendo, gli va incontro, proteso, con occhi feroci, le braccia contratte, i pugni alzati, serrati, come armati di baionetta, per farlo tremare davvero; ma poiché Tiralli non trema e resta muto e approva gravemente col capo, egli s’allontana esclamando con scherno:

             – La strategia, imbecilli! L’arte di far durare un secolo una battaglia, che prima con l’impeto dei soldati e il genio dei capitani si risolveva in quattro e quattr’otto, in una giornata al più! Gli studii tecnici, il materiale bellico, si dice così? bellico già! obici, «bi-bo», v’empite la bocca, mortaj da 305 e 420, fucili a tiro rapido, mitragliatrici, dirigibili, aeroplani, granate a mano, «shrapnell», gas asfissianti, bombe incendiarie, trattori meccanici, tanks, trincee scavate a macchina, blindate, mine terrestri, togate, reticolati, fili di ferro, cavalli di frisia, bocche di lupo, proiettori, razzi e bombe illuminanti, «bom-pimpam», pare la girandola, e la guerra dov’è? nessuno la vede! Prima gli uomini combattevano in piedi, come Dio li aveva messi! Nossignori, adesso, non basta in ginocchio, pancia a terra, come le serpi e rintanati, chi sappia resistervi; noi, no, i nostri no, per la Madonna! balzano in piedi, irrompono, si avventano a petto, bajonetta in canna, «Savoja!». Questo ci vuole! Altro che i tuoi meccanici e i tuoi farmacisti ! La strategia… la chimica… Vorrei sapere in che consiste, se non in un mostruoso e vigliacco ingombro, per far perdere invano tempo e vite umane! Metter su macchine, impedimenti, ripari per trovare poi il modo di buttarli giù; e non valeva tanto, allora, non metterli su, se alla fine quello che veramente decide è il petto dell’uomo che balza su dalle macerie di quegli ingombri vigliacchi e corre all’assalto? Te lo dico io perché serve tutta questa scienza: serve per non farla, la guerra! serve per minacciare in tempo di pace, per incutere spavento a chi vuol farla; ma quando poi la guerra è dichiarata, ecco qua, a che serve, lo vedi? a non farla finir mai…

             Interviene a questo punto, zitto, zitto, come un’ombra, don Agostino Lanzetti, dalla sala da pranzo. Sta ad ascoltare le ultime parole e approva più volte in silenzio col capo; poi dice:

             – Sì, caro, proprio a non farla finir mai. E sta’ pur certo Marco, che questa non è guerra che si risolve militarmente.

             – Ah no? – urla Marco Leccio.

             – No, – dice fermo don Agostino. – E soggiunge: – Sai che si racconta degli antichi Goti?

             Marco Leccio lo guarda in cagnesco.

             – Potresti finirla con codeste tue eterne storielle… Non ho tempo d’ascol­tarle!

             – Sono i padri antichi dei tedeschi d’oggi, – risponde placido e col suo solito risolino arguto il Lanzetti. – È una storiella che ti può giovare. Si dice, dunque, che gli antichi Goti avevano il saggio costume di discutere due volte ogni im­presa da tentare: una prima volta, ubriachi, e la seconda volta a digiuno. Ubriachi, perché ai loro consigli non mancasse ardimento; a digiuno, perché non mancasse prudenza. Ora è chiaro che i tedeschi moderni hanno perduto questo saggio costume dei loro padri. Discussero e deliberarono la loro im­presa, soltanto da ubriachi. Speriamo che possano presto, a digiuno, ritornare su la loro prima deliberazione. Ma ci vorrà ancora, purtroppo, assai tempo, non t’illudere! Assai tempo…

             – Già! – rugge Marco Leccio – assai tempo! Ma sai perché? S’interrompe; accenna di mordersi le mani; grida tra i denti, storcendo innanzi al volto le dita:

             – Non posso parlare! non posso parlare! Ma altro che il digiuno dei tedeschi ci vorrebbe a finire questa guerra! Ci vorrebbe, perdio, che tutti facessero come noi! Ecco che mi è scappata! Guarda che ci vorrebbe…

             Salta a quel trofeo della parete; cava dallo schioppettone d’ordinanza la bajonetta lunga come uno spiedo di girarrosto e fa l’atto di cacciarla nella pancia a Tiralli.

             – Va’ a dirlo a Joffre, va’ a dirlo a French, va’ a dirlo a Cadorna! questa ci vorrebbe!

*******

             VIII. Che la strategia moderna abbia ridotto l’ufficio del duce supremo d’una guerra non molto dissimile da quello a cui Marco Leccio attende con tenace costanza da circa tredici mesi: studio indefesso lì sulle carte dei punti, delle linee, delle posizioni, è per Marco Leccio in fondo una assai magra consola­zione.

             Fa il duce supremo, lo stratega, lì nello studio, davanti a Tiralli che lo segue e l’aiuta con funebre obbedienza; ma grazie! perché non può far altro…

             Certo, se una mossa prevista da lui in questo o in quel teatro della guerra, dati quei punti strategici e quelle linee e quelle posizioni s’effettua proprio come lui l’ha prevista, se ne compiace; guarda con occhi lustri ridenti e tutto il volto abbagliato di soddisfazione Tiralli, appena ne arriva la notizia nei bol­lettini degli stati maggiori, non badando più nemmeno se la mossa indovinata sia in favore dei tedeschi e a danno degli alleati, poiché veramente l’arte, di qualunque genere sia, è il regno del sentimento disinteressato, ragion per cui spesso diventa la funzione più crudele che si possa immaginare, come può darne esempio un medico che si compiaccia della giustezza di una sua pro­gnosi letale anche se questa prognosi l’abbia fatta su se stesso e voglia dire:

             «Benone, caro: tu sei morto.»

             Ma non è questo! non vorrebbe far questo Marco Leccio! Gl’importa assai che i duci supremi oggi combattano le guerre, come lui, su la carta! Che duce supremo del corno! Soldato, soldato raso, come il suo Giacomino partito jeri per il fronte, ecco quello che avrebbe voluto esser lui. E non ha potuto!

             Ieri, alla stazione, poco prima che il treno partisse, mentre il suo figliuolo dal finestrino della vettura lo guardava, lo guardava come se avesse voluto la­sciargli impressi, confitti nell’anima quegli occhi lucidi e intensi di commozione contenuta, ebbe la tentazione di saltare su quel treno, confondersi, na­scondersi tra i soldati, e partire anche lui.

             Lo morse la vergogna d’esser poi sorpreso e tirato giù per un orecchio dal treno, come un ragazzino.

             Più forte, più rabbiosamente lo morse poi il cordoglio, quando allo sportello d’una vettura più là vide un altro volontario in divisa di fantaccino, vecchio, più vecchio di lui, con la barba bianca e le antiche medaglie sul petto, che agi­tava le braccia e rispondeva esultante ai saluti, agli augurii, agli applausi.

             Non potè reggere a questo spettacolo; dovette andar via, via prima che il treno partisse col suo Giacomino che lo salutava, chi sa, forse per l’ultima volta!

             – Me lo sai dire – domanda ora, col volto atteggiato più di nausea che di sdegnosa Tiralli che gli sta davanti, nello studio, quasi su l’attenti, come se stesse ad ascoltare uno dei tanti elogi funebri, che sono per lui quel che la messa quotidiana è pei divoti, – me lo sai dire come pensi di morire tu?

             Tiralli, con gli occhi bassi, un sopracciglio più su, l’altro più giù, non ri­sponde.

             – Rispondi! – gli grida Marco Leccio.

             E Tiralli si stringe nelle spalle, sporge un po’ le labbra, fa un gesto appena appena con la mano.

             – Morire? Mah… Come Dio vorrà… Veramente lui, Tiralli, non ci ha ancora pensato. Marco Leccio riprende:

             – Quanti giorni ci restano ancora da vivere, a me e a te?

             Tiralli ripete quel vago gesto della mano; ma aggrotta pure un po’ le ciglia, come per il dubbio che il suo generale pretenda da lui sul serio, su un argo­mento come questo, una risposta categorica e precisa.

             – Altri quattro giorni! – gli grida sul naso Marco Leccio.

             E Tiralli allora s’affretta a dir di sì, di sì, più volte, col capo.

             – Quattro giorni, già…

             – Ma la chiami vita, questa? – incalza Marco Leccio. – Non ti vergogni? Che stai a far lì, ancora in piedi?

             Tiralli, stordito, si guarda attorno in cerca di una sedia per mettersi a sedere.

             – No! – gli urla Marco Leccio. – Io dico, ancora in vita! Da quant’anni te la vivi codesta tua agonia? Ti ci sei indurito, incadaverito; e non ti vergogni leggendo ogni sera sui giornali quanti giovani muojono a vent’anni, lassù, e quanti vecchi a sessanta, a settanta, fino a settantasei anni partono volontarii, dalla Sicilia, dalle Calabrie, dagli Abruzzi, dalla Romagna, dalla Lombardia, e vanno a combattere al fronte, semplici soldati? La faccia, qua, qua, non te la senti mangiare dalla vergogna? Hai visto ieri quel vecchio sul treno? Doveva averne settanta, per lo meno, e partiva! Pensa, pensa come va a morire quel vecchio, e pensa come morrai tu! Sporcheremo il letto, io e tu; e quello invece morrà in piedi! Io e tu, sul letto, tu col rantolo e io con la tosse; e quello con un grido in gola: «Viva l’Italia, figliuoli! Avanti sempre!». Capisci? Come Lavezzari! La morte del leone! Sull’alba, l’assalto: tutta la linea, un balzo e s’avventa alla baionetta: Savoja! Innanzi a tutti, lui, Lavezzari, che ha giurato di morire lassù! Corre, giunge fino all’ultima trincea nemica! ritto in piedi lassù, si sbottona la giubba e mostra la sua camicia rossa per morire così, da garibaldino! Tu capisci? «A settantasei anni», avrà pensato, «quest’assalto, questa carica alla baionetta ho potuto ancora farla; ma un’altra, domani? chi sa se le forze m’assisteranno più! E dunque, ora, qua, basta: ecco il petto, ecco la mia divisa vera, qua, tirate qua su la mia camicia rossa: voglio morire così!» Ed è morto. Tu sporcherai il letto, io sporcherò il letto, e intanto stiamo qua a giocare come due ragazzini scimuniti con le carte e le bandierine! Puah!

*******

             IX. Non ha finito di commemorare così la morte del vecchio leone Lavezzari, che un grido, seguito dal pianto di tre donne, gli giunge dall’attigua saletta da pranzo, e subito dopo l’uscio dello studio è aperto e su la soglia si mostrano pallidi e costernati don Agostino Lanzetti e il bravo signor Truppel.

             – Defendente? – grida allora Marco Leccio, con gli occhi sbarrati e levando le mani quasi a parare una sventura. – Nino? Canzio?

             Dicono di no, tre volte, col capo e con le mani, subito, don Agostino e il Truppel. Don Agostino poi soggiunge piano, socchiudendo dolorosamente gli occhi:

             – Marchetto…

             – Marchetto? Come! – esclama Marco Leccio, aggrottando fieramente le ci­glia. – Mio nipote? Era della sanità! Ma come? Hanno sparato sulla Croce rossa? Quando? Morto?

             – Mentre raccoglieva i feriti… – mormora don Agostino.

             – Morto?

             – Ha avuto appena il tempo di scrivere al padre e alla madre. Come un santo, è morto…

             E dicendo così, don Agostino piange e s’invetrano anche di lagrime i ridenti occhi azzurri del bravo signor Truppel.

             – Canaglie! Assassini! Briganti! – rugge Marco Leccio, levando le pugna serrate su la faccia di Tiralli rimasto impalato a quell’annunzio di morte. – Capisci? Sparano sui feriti e su chi li raccoglie! sparano sugli ospedali! si fanno riparo dei morti! Assassini! briganti!

             Poi, rivolto al Lanzetti:

             – Quando è arrivata la notizia?

             – Oggi, questa mattina, – risponde don Agostino. – Ma ci ha messo sei giorni la letterina ad arrivare, ed era unita alla comunicazione del comando e a un’altra lettera di condoglianza del capitano medico dell’ospedaletto da campo, in cui il povero Marchetto prestava servizio. E bisogna sentire che ne dice questo capitano! La dolcezza, una divina serenità nel coraggio, l’abnega­zione; e com’ha parlato prima di rendere l’anima a Dio! Anche di te ha par­lato… ci sono nella letterina anche i suoi ultimi saluti per te. «Ditelo al nonno,» ha scritto, «che sono morto bene…»

             Marco Leccio, per quanti sforzi faccia a trattenersi, rompe in due singhiozzi quasi rabbiosi.

             – Aspetta, – soggiunge subito don Agostino. – Dice così: «L’abito che indossavo, egli non volle credere che fosse anch’esso milizia, ed ebbe a sdegno che con quest’abito io portassi il suo nome. Sono sicuro che ora non lo crederà più…».

             Sono entrate nello studio, piangenti, la madre con le due figliuole, la signora Bezzecca Truppel e Teresita, pronte tutte e tre per recarsi alla casa di quel fi­glio, che Marco Leccio ha rinnegato da tanti anni. Credono tutti che si debba penar molto e molta arte di persuasione adoperare per indurre il padre alla ri­conciliazione col figliuolo maggiore, in una congiuntura come questa. Marco Leccio, con gli occhi chiusi per trattenere le lagrime e la commozione, scosta tutti, invece, e dice senz’altro:

             – Sì, sì… andiamo, andiamo… povero Marchetto, figliuolo mio… Andiamo… Col cappello in capo, innanzi alla porta, appoggiato al braccio di Tiralli, leva

             però il bastone e soggiunge con tono minaccioso:

             – Lo fece partire senza mandarlo qui a salutarmi! Quando lo vestì prete, sì, me lo mandò, per farmelo strapazzare, povero figliuolo mio! Vestito da soldato, prima di partire per il campo, quando io lo avrei baciato e benedetto, no, non volle più farmelo vedere! Ma non fa nulla, non fa nulla: vado lo stesso… Andiamo.

             Ancora prima d’arrivare al portoncino della casa in via Cestari, si sentono i pianti e gli strilli delle donne, cioè della madre e delle tre sorelle dell’ucciso. Parecchi curiosi sono raccolti innanzi al portoncino e dicono che il padre è come impazzito, e maledice tutti e grida contro il re, contro l’Italia, contro la guerra vituperii.

             Don Agostino Lanzetti si fa avanti a tutti. Prima di cominciare a salire la scala, si volta a Marco Leccio e con gli occhi e con le mani gli raccomanda di tenersi calmo e di compatire, per pietà; egli entrerà per primo e cercherà di placarlo. Con l’ajuto delle donne lo predisporrà ad accogliere la visita del padre. Stieno tutti indietro, ad aspettare un po’, qua sul pianerottolo della scala, sotto l’ultima rampa.

             – Sì, sì… – gli dicono, e con la mano gli fanno cenno d’andare.

             Don Agostino sale gli ultimi gradini; bussa; entra. Ma poco dopo, i pianti, gli strilli, si fanno più violenti, fra un gran tramestio, come per una colluttazione. Improvvisamente, la porta si spalanca, e, spettorato, strappato, trattenuto da tante braccia, furibondo, fa per scagliarsi contro i parenti, lui, Giuseppe Lec­cio, urlando:

             – Assassini! Assassini! Via! Via di qua o vi ammazzo! Assassini di mio figlio! Via di qua!

             La madre, le due sorelle, sbigottite, lo chiamano per nome, con gesti suppli­canti; si provano a salire qualche scalino, incoraggiate, spinte dal signor Truppel. Su, don Agostino riesce a strappare indietro, a scostare dalla porta l’ar­rabbiato; lo fa sedere su la panca della saletta, gl’indica il grande crocefisso a una parete, che dà a quella saletta l’aria di una sagrestia; e, a furia d’esorta­zioni e di buone parole, riesce alla fine ad ammansirlo, a farlo piangere.

             Le donne sono entrate col signor Truppel; Marco Leccio è rimasto con Tiralli sul pianerottolo. Poco dopo, la nuora si sporge dalla porta e lo invita a sa­lire; ma il figlio, appena lo vede, balza in piedi, scontraffatto di nuovo dal fu­rore; lo mira con gli occhi sbarrati, atroci, e si mette ad arrangolare orribil­mente, levando le mani artigliate.

             Marco Leccio si ferma a guardarlo austeramente e gli dice:

             – Pensa che sono padre anch’io. Quattro tuoi fratelli sono lassù. L’ultimo è partito ieri!

             – Al macello! Al macello! – grida il figlio, lasciandosi piegare dalle braccia che lo trattengono, a sedere di nuovo, e si copre il volto con le mani.

             Marco Leccio riprende:

             – Può toccare a me, domani, di ricevere la stessa notizia che oggi hai ricevuta tu; e poi un’altra! e poi un’altra! e poi un’altra!

             Per tutta risposta, il figlio scopre la faccia e gli grida:

             – Io la maledico, la patria!

             Marco Leccio fa un violento sforzo su se stesso per contenersi, poi dice:

             – Ero venuto qua per piangere con te; ma non così come piangi tu! Sono lagrime d’odio, di rabbia, le tue. Pensa che codeste lagrime neanche a tuo figlio possono essere accette! Tu lo chiudi nel tuo dolore soltanto e in codesto tuo odio per la patria; ma pensa che per la patria è morto tuo figlio, e che tu lo escludi, piangendolo così, dal pianto degli altri, dal mio, che egli stesso ha voluto. Se tu non vuoi, addio!

             Lascia lì le tre donne col genero e col Lanzetti, e se ne torna a casa, com­mosso, a braccio del fido Tiralli.

             Strascinando la gamba malata, che per l’improvviso riscaldamento s’è ri­messa a dolergli, pensa, per via, che questa è veramente una santa guerra, se possono morirvi così, benedicendola, un leone come il vecchio romagnolo Lavezzari e un povero agnellino come quel suo piccolo nipote Marchetto.

*******

             X. Da una settimana, tra i parecchi campi di battaglia che ingombrano lo stu­dio, Marco Leccio è solo.

             Il povero Tiralli s’è ammalato, non propriamente perché Marco Leccio gli ha gridato in faccia la vergogna di seguitare a vivere la sua agonia mentre tanti dei loro vecchi commilitoni vanno a trovar la morte su le stesse tracce per cui da giovani la cercarono lassù, contro lo stesso nemico e per lo stesso scopo d’allora; ma perché – vecchi – un filo d’aria, un subitaneo abbassarsi della temperatura, e ci s’ammala. È piovuto tanto in questo primo anno della grande guerra!

             I fisici han sentenziato che l’aria – non pare – ma è un corpo, un corpo sensibile anch’essa, e che i troppi spari, la furia delle troppe cannonate han potuto commuoverla. Le donnette del popolo, più poetiche nella loro ignoranza, han creduto invece a un gran pianto del cielo per la sciagurata follia degli uomini.

             II fatto è che, per le troppe piogge, sbalzi di temperatura se n’è avuti assai, e il povero Tiralli, non solo s’è bagnato più volte da capo a piedi, ma non ha potuto dar la solita provvista di sole alle sue ossa, impalandosi – cariatide del dignitoso monumento della sua miseria – per ore e ore in qualche canto di via.

             Marco Leccio è molto seccato. Ce l’ha specialmente con una mosca male­detta che viene ostinatamente a posarsi su la carta plastica del Trentino, men­tre lui, Dio sa con quanta pena, rimandando l’anima indietro indietro nel tempo, si crea l’illusione della lontananza, di cui ha bisogno per veder innanzi a sé quella carta come una realtà viva. Eccola là, maledetta! viene all’improv­viso a rompergli quella illusione, mettendosi come niente a passeggiare su per le vette di quelle montagne, su per quei laghi e per quelle vallate, qua e là la­sciando certi puntini neri, che possono scambiarsi per fortezze o borgate.

             Centomila volte l’ha cacciata, e centomila volte quella porca mosca tignosa, tedesca, tirolese, eccola lì daccapo!

             Ma non è la mosca soltanto. O meglio, sì, è la mosca, ma non quella soltanto che nei declinanti soli di settembre s’appiccica e si diverte a non dar più re­quie alle mani, alla fronte degli uomini, ma anche quell’altra, quell’eterna mosca che in ogni tempo si diverte a rompere dentro l’anima degli uomini ogni illusione.

             Da mesi e mesi, ormai, ogni sera, leggendo i giornali, Marco Leccio si fa l’illusione che finalmente, presto, gli alleati torneranno con impeto alla ri­scossa. I Russi, che già avevano sbaragliato gli Austriaci e occupato la Galizia fin quasi a Cracovia (santo Dio, fin quasi a Cracovia!) e poi, superando i Car­pazi, già scendevano sui campi ricchi di messi dell’Ungheria; i Russi, che su avevano invaso anche la Prussia orientale, costretti ora a ritirarsi da per tutto, a cedere Varsavia, tutta la Polonia con la linea delle fortezze, la Curlandia fin quasi a Riga; i Russi arresteranno finalmente domani questa colossale inva­sione dei tre gruppi d’eserciti austrotedeschi. E i Francesi, i Francesi che dopo la levata leonina della battaglia della Marna, da undici mesi se ne stanno fermi come a casa loro nelle trincee, quasi che abbiano giurato di volerci fare i vermi lì, finalmente domani ripiglieranno l’offensiva, romperanno il fronte te­desco ad Arras, obbligheranno il Kaiser a richiamare in gran furia gli eserciti del fronte orientale. E gl’Inglesi, coi loro ottocentomila uomini ammassati presso Calais, irromperanno finalmente domani nel Belgio per cominciarne la liberazione; e intanto, laggiù a Gallipoli, coi nuovi sbarchi nella baja di Suvla, col concorso della spedizione italiana, che a quest’ora sarà senza dubbio sal­pata da Taranto, forzeranno alla fine i Dardanelli e prenderanno Costantino­poli.

             Ogni sera, tutte queste illusioni. La sera appresso, sissignori, per ognuna, una mosca. In ogni bollettino degli stati maggiori, per ogni illusione, una mosca. La ritirata russa continua, e «sciò» una prima volta; i Francesi non si muo­vono, e «sciò» una seconda volta; gl’Inglesi non si muovono, e «sciò» una terza; a Gallipoli il nuovo tentativo di aggiramento è ancora una volta fallito, e «sciò, sciò, sciò…». Ma lo Zar ha assunto il comando supremo de’ suoi eserciti: eh, questo fatto qualche cosa vorrà dire! E il generale Joffre è venuto sul fronte italiano per abboccarsi con Cadorna; anche quest’altro fatto vorrà dire qualche cosa. Ed è certo che i Turchi non hanno più carbone e sono a corto di munizioni…

             Così le illusioni rinascono per le nuove mosche di domani sera.

             Ma intanto Marco Leccio si ritrova solo ogni notte a far impeto per tutti gli Alleati, nei suoi sogni violenti. Sogna violenze terribili e inaudite ogni notte: dei Russi che contrattaccano a Grodno e spezzano gli eserciti di Hindenburg, ammazzando settantamila uomini, facendone prigionieri altri settantamila con lo stesso Hindenburg a cui un cosacco gigantesco dà più volte in faccia il suo scudiscio dentato; o degli Inglesi che alla fine si avventano sull’Yser e spaz­zano a raffica in un batter d’occhio tutti i Tedeschi dal Belgio mentre i Fran­cesi sfondano anch’essi il fronte avversario, e, superato il Reno, via a Berlino! gl’Italiani, per Malborghetto, via a Vienna! E le due capitali, rase al suolo!

             Ansa, geme, raglia, arrangola nel sogno, con un braccio proteso a pugno chiuso su le terga della povera signora Marianna, che a un tratto, sentendosi quasi respinta dal pacifico letto coniugale, si sveglia spaventata, e udendolo gemere e ansare a quel modo, grida:

             – Marco! Marco! Dio, ti risenti male? La gamba?

             – Il corno! – borbotta Marco Leccio, nell’ansito che lo soffoca, balzando a sedere sul letto. – Stavo a finir la guerra così bene!…

             E ora, a ripigliare il sonno ti voglio!

             Dacché Giacomino è partito, l’ansia per i figliuoli sparsi sui tre fronti della guerra gli è cresciuta e non gli lascia più un momento di requie.

             Accende la lampadina elettrica; trae dal cassetto del comodino l’ultima let­tera nella quale Giacomino, sette giorni fa, gli annunziava che la mattina ap­presso sarebbe partito per la linea di fuoco; si stropiccia gli occhi, poiché gli occhi dei vecchi diventano acquosi la notte e allevano cispe, e si mette a ri­leggere, a rileggere, aggrondato, quella lettera.

             Come scrive bene Giacomino! Quanta poesia in questa lettera scritta dal campo alla vigilia della partenza per gli avamposti!

             Tutto l’accampamento tace. È notte alta. Sto nella mia tenda seduto sulla branda, il calamaio sulla coperta, e scrivo sulla gamba sinistra. La fucilerìa crepita lontano tra le cannonate. Ho acceso una sigaretta alla candela ap­poggiata all’alzo del mio fucile. La candela è ancora abbastanza lunga e io la farò consumare scrivendoti. Tanto, è l’ultima notte che mi serve. Domattina alle tre e mezzo noi nuovi arrivati andremo su un’altura che domina tutte le posizioni; un capitano di stato maggiore ce le indicherà a una a una e ci spiegherà le azioni che vi si sono svolte, quelle che vi si svolgono, quelle che vi svolgeremo noi.

             Svolgere… un tema, una volta…

             Posata sul fucile vicino alla candela è un’elegantissima farfalla bianca, con le ali spiegate e le antenne ritte. È immobile da tanto tempo.

             Sento il lamento dei grossi proiettili che ci passano sulla testa per portare la morte lontano. È uno strano angoscioso sibilo. Chi sa voi che fate ora… Dev’essere da poco passata la mezzanotte. L’orologetto da polso, che il buon Livo m’ha regalato, non cammina più da alcuni giorni. L’aria di questi luoghi gli avrà fatto male.

             La sigaretta è finita e ho cambiato posizione: scrivo sul ginocchio destro e bevo un sorso di caffè.

             La far)”alletta bianca è sempre lì ferma che si scalda le ali. O forse è morta? Io non la tocco.

             Le posizioni che andremo a occupare sono difficili. Andremo dalla parte del piano, a far guerra di notte.

             Io sono puro e forte e vibro nel silenzio della notte col ritmo calmo del mio cuore buono, ben provato. Non dormirò, forse. Vedo un mio compagno che nella tenda accanto si rilegge a una a una tutte le lettere ricevute.

             Fra quattro ore sarà chiuso un quadro di questa scena. Arrivederci, miei cari; dormite. Ho un’altra sigaretta in bocca. Buona notte, dormite. Nella vigilia di una marcia verso Voscuro, io mi sento tranquillo se porto il pensiero fra voi.

             La farfallina bianca si è destata; spengo la candela per la sua vita, buona notte di nuovo, e tutti i miei baci.

             In sette giorni l’avrà riletta settanta volte, questa lettera, Marco Leccio. Ogni volta s’è sentito stringere la gola da un’angoscia cupa e urgere le lagrime agli occhi, pensando all’anima di questo suo adorato figliuolo, alta come la notte che gli stava sul capo nello scrivere queste parole, e pura come quella farfal­lina bianca posata sul suo fucile.

             Da sette giorni, più nessuna nuova! Eppure è certo che in questi sette giorni Giacomino avrà scritto, perché prima di partire glielo promise, che avrebbe mandato ogni giorno notizie di sé. Tranne… Ma no! Maledizione! gli torna sempre in mente, sempre, questo tristo pensiero… Rivede Giacomino come dal treno lo guardava, lo guardava quasi volesse lasciargli impressi, confitti nel­l’anima, quegli occhi lucidi e intensi di commozione contenuta: e stringe le pugna e sbuffa e smania.

             – La colpa sarà della Posta… – gli mormora accanto la moglie, che indovina il perché di quegli sbuffi e di quelle smanie.

             Ella prega di nascosto, in silenzio. Non fa altro, da tre mesi. Tre rosarii al giorno, di quindici poste; e un quarto, ora, da che Giacomino è partito. Pare sia sempre stordita e non capisca ciò che le si dice; ma non è vero: è che prega, prega, ed è tanto assorta nella preghiera, che spesso non sente ciò che le si dice. Per Giacomino prega, ma più forse per gli altri tre figliuoli che le sembrano un po’ trascurati dal padre.

             – Già, sì… forse… – borbotta Marco Leccio. – È il lamento di tutti, questo maledetto disservizio postale! Lettere che non arrivano o che mettono sei e sette giorni ad arrivare; e prima ne arriva una scritta dopo, e il giorno appresso quella scritta avanti… ed è inutile muovere lagnanze e rimproveri. Non c’è bestia più dispettosa dell’impiegato postale. Più lo rimproveri e peggio fa. Lo sappiamo tutti per esperienza innanzi agli sportelli degli uffici postali. Guai se mostri un po’ di fretta: te lo fanno apposta; cominciano a gingillarsi col bollo che non prende, con la gomma che non scorre, col francobollo che non attacca… E bisogna vedere come ti saltano su insolenti alla minima osservazione.

             La mattina appresso se la prende col bravo signor Truppel che viene, per conto della moglie, a dar notizie del figliuolo e a chiederne dei cognati.

             – Bell’orologetto gli hai regalato a Giacomino! Ha scritto che non gli cammina più.

             Il bravo signor Truppel, con gli occhi ridenti di zaffiro, si prova a dimostrar­gli che un orologio in guerra, attaccato al polso di un soldato, deve per forza, indicibilmente soffrire; organismo sensibilissimo e delicatissimo, un orologino…

             – Già, già… – mastica Marco Leccio. – E nel tuo paese, adesso, non sene fabbrica più, è vero? Bel paese, va’ là, il tuo! Tutte le fabbriche di orologi mutate in fabbriche di proiettili… Affarone, la guerra! Anche per gli Stati Uniti di America, sì! Affaroni, affaroni… Sfido io! con questa guerra che non si vede! Diecimila colpi per cogliere un uomo… Ce n’è stati, di morti, non si nega; ma se n’è pure fatto, di fumo, va’ là! E non si parla dei cannoni! Migliaja di lire per ogni cannonata, che spesso fa ridere i soldati… Un bel congegno, per tutti i fornitori, questa strategia moderna… L’hanno inventata i tedeschi, e tanto basta. E intanto la Svizzera sciala. Dovresti metterti anche tu, con tuo fratello, a fabbricar proiettili. Ma tuo fratello, forse, li manderebbe di contrabbando all’Austria… Tu no, perché sei un buon figliuolo…

             Il signor Truppel lo lascia dire. Legge la lettera di Giacomino, che la signora Marianna è andata a prendergli dalla stanza da letto:

             – Oh, la farfallina bianca… – sorride a un certo punto il signor Truppel.

             E quest’esclamazione, all’improvviso, su le labbra sorridenti del buon Livo Truppel fa un tristo effetto a Marco Leccio, chi sa perché! Pensa per la prima volta che poteva esser la morte, quella farfallina bianca andata a posarsi di notte sul fucile del suo Giacomino. Si rabbuia tutto a questo pensiero, e guata quasi con odio il genero, biondo biondo e tondo tondo, che seguita a leggere sorridente. «Che truppa e truppa! Anche a cambiargli il nome, quello lì reste­rebbe svizzero per tutta l’eternità! Si commovesse un po’ leggendo quella bella lettera! Niente: eccolo là, sorride ancora per quella farfallina bianca, che forse gli sembra una bizzarria superflua nella lettera di Giacomino.»

             Quasi quasi, Marco Leccio gliela strapperebbe di mano, tanto quel sorriso lo irrita.

             E poiché gli occhi gli cadono su la carta dei Balcani, per dar comunque uno sfogo a quell’irritazione, si lancia, nel persistente malumore, in una carica a fondo contro gli Alleati che s’ostinano a sollecitare l’accordo e l’ajuto di que­gli Stati, che egli chiama un pugno di briganti. L’accordo, l’ajuto, senza ca­pire che quanto più si dà loro importanza, quanto più si dà loro a intendere che l’esito della guerra quasi quasi debba dipendere da loro, tanto più essi pi­gliano ansa e si tirano indietro.

             Sopravviene in questo momento come un’ombra, come una larva, che un soffio d’aria potrebbe portar via, il povero Tiralli ancor convalescente, con un sopracciglio in su e l’altro in giù.

             La signora Marianna, il signor Truppel e Teresita lo accolgono con festa e, tanto per confortarlo, si congratulano con lui della recuperata salute. Marco Leccio, interrotto nella sua sfuriata, non dice nulla, lo guarda anzi come un nemico. Poi borbotta:

             – Sei venuto? Resta. Ma potevi anche fare a meno di venire. Non si muove nessuno, sai? Nessuno. Guarda… guarda qua!

             Lo piglia per un braccio e lo conduce davanti alla carta plastica del Trentino. Il povero Tiralli guarda. S’accostano a guardare anche gli altri. Nessuno ca­pisce che cosa ci sia di nuovo da vedere. E allora Marco Leccio grida:

             – Ma non vedete che ci passeggia la mosca?

*******

             XI. L’estate è finita, quest’anno, a termine di calendario.

             Siamo ai primi d’ottobre, e fa freddo, la mattina per tempo e la sera. Gli al­beri dei giardini, gli alberi dei viali, al sole umido, tendono con timore le fo­glie, che ormai sui rami ci stanno e non ci stanno. E han finanche fastidio degli uccellini, e paura anche, se – prendendo un po’ di calore – s’illudano e, saltando vivaci da un ramo all’altro, diano l’ultimo crollo a quelle povere fo­glie secche, che tengono appena.

             – Quest’autunno le foglie non cadono per noi – dice con aggrondata gravità Marco Leccio a Tiralli.

             Molto patito ma pettinatissimo, con la grossa fascia di lana girata una volta sola per ora attorno al collo, Tiralli, per tutta risposta, pompa col naso una sorsatina.

             – Quest’autunno, – ripete Marco Leccio, – le foglie non cadono per noi. Tiralli, un’altra sorsatina.

             – E soffiati il naso, perdio! – gli grida, seccato, Marco Leccio.

             Quel rumor di naso raffreddato gli dà il fastidio d’una realtà troppo vicina e affliggente, lì nel silenzio dello studio, tra le carte stese su le tavole, irte di bandierine. Un fastidio che impedisce al pensiero d’astrarsi e concentrarsi.

             Tiralli sa che è inutile; ma subito, per ubbidire, si soffia il naso.

             E per la terza volta Marco Leccio ripete:

             – Quest’autunno le foglie non cadono per noi…

             Se non che, ora che Tiralli non sorsa più, il seguito del discorso non viene.

             Marco Leccio, aggrondato, resta a meditare. E Tiralli, silenzio impalato, lo punta come un cane.

             C’è? non c’è? Marco Leccio ha l’impressione che ora non ci sia più. E a un certo punto scatta:

             – Ma di’! ma smuoviti! Lo senti almeno quello che ti sto dicendo?

             – Eh, – fa Tiralli, – come no? le foglie… quest’autunno, dicevi…

             – Non cadono per noi! – sbuffa Marco Leccio, balzando in piedi; ma grida subito: – Ahi!

             E s’afferra una gamba a metà levata, con tutto il volto contratto dallo spa­simo.

             – Maledetti loro! maledetti! maledetti!

             Tiralli, sentendolo imprecar così, trae un gran sospiro di sollievo. S’aspettava per lui l’imprecazione, a quella fitta improvvisa della sciatica; ora comprende per chi cadranno le foglie quest’autunno. E tutto contento gli domanda:

             – Dicevi per i Tedeschi, eh?

             – Mi pare! – sghigna Marco Leccio, risedendo con la gamba ancora tra le mani. – Ci voleva tanto, è vero? Di farmi gridar così… Se lo Zar, caro mio, che ti dicevo?

             – Lo Zar…

             – Sì, va bene; ma che ha fatto lo Zar? Tiralli resta perplesso, domanda:

             – Quello delle Russie?

             – No, quello della Luna! – gli grida Marco Leccio – Qual altro Zar c’è? Vuoi che parli di quel nasone austriaco della Bulgaria? Che stiamo parlando, d’ope­rette? Dico Nicola II, lo Zar, che ha fatto?

             – Ha assunto il comando supremo dei suoi eserciti…

             – Benissimo! E perché?

             Tiralli, così interpellato, comincia a entrar nel dubbio, che lo Zar abbia as­sunto il comando supremo dei suoi eserciti per fare avere una strapazzata a lui che, appena convalescente d’una malattia per cui è stato a letto più giorni, non crede in coscienza di meritarsela. Risponde:

             – Mah… Forse perché non è stato più contento delle manovre del generalis­simo Granduca…

             – Baje! – grida Marco Leccio. – Il Granduca ha manovrato come un dio! E io ti dico che se la manovra della ritirata doveva seguitare, il Granduca non sarebbe stato dispensato dal comando supremo degli eserciti russi.

             – E allora? – domanda Tiralli.

             – Allora, – risponde Marco Leccio, – io sono una bestia.

             Tiralli lo guarda trasecolato. Tutte le illazioni poteva immaginare dalla pre­messa delle foglie che quest’autunno non cadono per noi, tranne questa.

             – Sì, – riprende Marco Leccio. – Una bestia. Sono stato una bestia tutti i giorni che tu sei stato ammalato. Quante mosche qua, caro mio! Qua, e dentro l’anima mia! Bestia, bestia, perché non ho capito subito che se lo Zar assumeva il comando supremo de’ suoi eserciti, questo era segno che – di ritirate – basta, non se ne doveva più parlare; e segno anche che tutti i tradimenti erano stati scoperti e sventati; i tradimenti che sono stati finora la…

             E qui improvvisamente finisce la CRONACA di Marco Leccio e insieme la sua guerra sulla carta. Su l’Europa la guerra seguitò a imperversare per circa altri tre anni; ma gli Alleati commisero tali e tanti errori, uno dopo l’altro, che Marco Leccio alla fine, sdegnato, diede un calcio a tutte quelle carte nel suo studio, e non volle più saperne.

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