Formalità – Audio lettura 3

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Legge Gaetano Marino
«Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti.»

Prima pubblicazione: Raccolta Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904. Composta probabilmente nel 1903.

Formalità. audiolibro 2
Henri Matisse, Le Violoniste à la fenêtre, 1918.

Formalità

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             I. Nell’ampio scrittojo del Banco Orsani, il vecchio commesso Carlo Bertone con la papalina in capo, le lenti su la punta del naso come per spremere dalle narici quei due ciuffetti di peli grigi, stava a fare un conto assai difficile in piedi innanzi a un’alta scrivania, su cui era aperto un grosso libro mastro. Dietro a lui, Gabriele Orsani, molto pallido e con gli occhi infossati, seguiva l’operazione, spronando di tratto ih tratto con la voce il vecchio commesso, a cui, a mano a mano che la somma ingrossava, pareva mancasse l’animo d’arrivare in fondo.

             – Queste lenti… maledette! – esclamò a un certo punto, con uno scatto d’impazienza, facendo saltare con una ditata le lenti dalla punta del naso sul registro.

             Gabriele Orsani scoppiò a ridere:

             – Che ti fanno vedere codeste lenti? Povero vecchio mio, vah! Zero via zero, zero…

             Allora il Bertone, stizzito, prese dalla scrivania il grosso libro:

             –    Vuol lasciarmi andare di là? Qua, con lei che fa così, creda, non è possibile… Calma ci vuole!

             –    Bravo Carlo, sì, – approvò l’Orsani ironicamente. – Calma, calma… E intanto – aggiunse, indicando il registro, – ti porti appresso codesto mare in tempesta.

             Andò a buttarsi su una sedia a sdrajo presso la finestra e accese una sigaretta.

             La tenda turchina, che teneva la stanza in una grata penombra, si gonfiava a quando a quando a un buffo d’aria che veniva dal mare. Entrava allora con la subita luce più forte il fragore del mare che si rompeva alla spiaggia.

             Prima d’uscire, il Bertone propose al principale di dare ascolto a un signore «curioso» che aspettava di là: nel frattempo lui avrebbe atteso in pace a quel conto molto complicato.

             –    Curioso?  – domandò Gabriele. – E chi è?

             –    Non so: aspetta da mezz’ora. Lo manda il dottor Sarti.

             –    E allora fallo passare.

             Entrò, poco dopo, un ometto su i cinquant’anni, dai capelli grigi, pettinati a farfalla, svolazzanti. Sembrava un fantoccio automatico, a cui qualcuno di là

             avesse dato corda per fargli porgere quegli inchini e trinciar quei gesti comicissimi.

             Mani, ne aveva ancora due; occhi, uno solo; ma egli forse credeva sul serio di dare a intendere d’averne ancora due, riparando l’occhio di vetro con una caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo difetto di vista.

             Presentò all’Orsani il suo biglietto da visita così concepito:

             LAPO VANNETTI

             Ispettore della

             London Life Assurancè Society Limited

             (Capit. sociale L. 4.500.000 – Capit. versato L. 2.559.400)

             – Prezatissimo signore! – cominciò, e non la finì più.

             Oltre al difetto di vista, ne aveva un altro di pronunzia; e come cercava di riparar quello dietro la caramella, cercava di nasconder questo appoggiando una risatina sopra ogni zeta ch’egli pronunziava in luogo della e e della g.

             Invano l’Orsani si provò più volte a interromperlo.

             – Son di passazzo per questa rispettabilissima provinzia, – badava a dir l’ometto imperterrito, con vertiginosa loquela, – dove che per merito della nostra Sozietà, la più antica, la più autorevole di quante ne esistano su lo stesso zenere, ho concluso ottimi, ottimi contratti, sissignore, in tutte le spezialissime combinazioni che essa offre ai suoi assoziati, senza dire dei vantazzi ezzezionali, che brevemente le esporrò per ogni combinazione, a sua scelta.

             Gabriele Orsani si avvilì; ma il signor Vannetti vi pose subito riparo: cominciò a far tutto da sé: domande e risposte, a proporsi dubbii e a darsi schiarimenti:

             – Qui Lei, zentilissimo signore, eh, lo so! potrebbe dirmi, obbiettarmi: Ecco, sì, caro Vannetti, d’accordo: piena fiduzia nella vostra Compagnia; ma, come si fa? per me è un po’ troppo forte, poniamo, codesta tariffa; non ho tanto marzine nel mio bilanzio, e allora… (ognuno sa gli affari di casa sua, e qui Lei dize benissimo: Su questo punto, caro Vannetti, non ammetto discussioni). Ecco, io però, zentilissimo signore, mi permetto di farle osservare: E gli spezialissimi vantazzi che offre la nostra Compagnia? Eh, lo so, dize Lei: tutte le Compagnie, qual più qual meno, ne offrono. No, no, mi perdoni, signore, se oso mettere in dubbio codesta sua asserzione. I vantazzi…

             A questo punto, l’Orsani, vedendogli trarre da una cartella di cuojo un fascio di prospettini a stampa, protese le mani, come in difesa:

             – Scusi, – gridò. – Ho letto in un giornale che una Compagnia ha assicurato non so per quanto la mano d’un celebre violinista: è vero?

             Il signor Lapo Vannetti rimase per un istante sconcertato; poi sorrise e disse:

             –    Americanate! Sissignore. Ma noi…

             –    Glielo domando, – riprese, senza perder tempo, Gabriele, – perché anch’io, una volta, sa?…

             E fece segno di sonare il violino.                                 ,

             Il Vannetti, ancora non ben rimesso, credette opportuno congratularsene:

             –    Ah, benissimo! benissimo! Ma noi, scusi, veramente, non fazziamo di queste operazioni.

             –    Sarebbe molto utile, però! – sospirò l’Orsani levandosi in piedi. – Potersi assicurare tutto ciò che si lascia o si perde lungo il cammino della vita: i capelli! i denti, per esempio! E la testa? La testa che si perde così facilmente… Ecco: il violinista, la mano; uno zerbinotto, i capelli; un crapulone, i denti; un uomo d’affari, la testa… Ci pensi! È una trovata.

             Si recò a premere un campanello elettrico alla parete, presso la scrivania, soggiungendo:

             – Permetta un momento, caro signore.

             Il Vannetti, mortificato, s’inchinò. Gli parve che l’Orsani, per cavarselo dai

             piedi, avesse voluto fare un’allusione, veramente poco gentile, al suo occhio di vetro. Rientrò nello scrittojo il Bertone, con un’aria vie più smarrita.

             –    Nel casellario del palchetto della tua scrivania, – gli disse Gabriele, – alla lettera Z…

             –    I conti della zolfara? – domandò il Bertone.

               –    Gli ultimi, dopo la costruzione del piano inclinato… Carlo Bertone chinò più volte il capo:

             –    Ne ho tenuto conto.

             L’Orsani scrutò negli occhi del vecchio commesso; rimase accigliato, assorto; poi gli domandò:

             – Ebbene?

             Il Bertone, impacciato, guardò il Vannetti.

             Questi allora comprese ch’era di troppo, in quel momento; e, riprendendo il suo fare cerimonioso, tolse commiato.

             – Non z’è bisogno d’altro, con me. Capisco a volo. Mi ritiro. Vuol dire che, se non Le dispiaze, io vado a prendere un bocconzino qui presso, e ritorno. Non se ne curi. Stia comodo, per carità! So la via. A rivederla.

             Ancora un inchino, e via.

             II. – Ebbene? – domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena uscito il Vannetti.

             – Quella… quella costruzione… giusto adesso, – rispose, quasi balbettando, il Bertone.

             Gabriele s’adirò.

             – Quante volte me l’hai detto? Che volevi che facessi, d’altra parte? Rescindere il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta ancora la speranza della mia solvibilità… Lo so! lo so! Sono state più di cento trenta mila lire buttate lì, in questo momento, senza frutto… Lo so meglio di te!… Non mi far gridare.

             Il Bertone si passò più volte le mani su gli occhi stanchi; poi, dandosi buffetti su la manica, dove non c’era neppur l’ombra della polvere, disse piano, come a se stesso:

             – Ci fosse modo, almeno, d’aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario, che… che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze delle cambiali alla Banca…

             Gabriele Orsani, che s’era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani in tasca, accigliato, s’arrestò:

             –    Quanto?

             –    Eh… – sospirò il Bertone.

             –    Eh… – rifece Gabriele; poi, scattando: – Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli più!

             –    Ma no, non si disperi, ora… – disse il Bertone, commosso. – Certo lo stato delle cose… Mi lasci dire!

             Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso:

             –    Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non così, ora; prima, prima, con l’autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi, dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, così? Mi fai pietà!

             –    Che potevo io?… – fece il Bertone, con le lagrime agli occhi.

             –    Nulla! – esclamò l’Orsani. – E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua, messo a gli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i miei sbagli… Lascia quest’ultimo della costruzione del piano inclinato, a cui mi son veduto costretto con l’acqua alla gola… Quali sono stati i miei sbagli?

             Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprì le mani, come per dire: Che giova adesso?

             – Piuttosto, i rimedii… – suggerì con voce opaca, di pianto. Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere.

             –    Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane ai miei figliuoli. Che te ne pare?

             –    Mi lasci dire, – ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. – Tutto sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente, tutte, tutte le spese (anche quelle… mi scusi!… su, di casa), credo che… almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo…

             Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro, disse:

             – Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni!

             Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscì dallo scrittojo per finir di stendere l’intero quadro dei conti.

             – Glielo farò vedere. Mi permetta un momento.

             Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare.

             Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina.

             Da circa venti giorni, non si staccava più dallo scrittojo, come se lì, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s’allentava, la volontà gli s’istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito o assorto in pensieri alieni, lontani dall’assiduo tormento.

             Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lì in quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n’era venuto in Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza! Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l’usignoletto morto e imbalsamato.

             E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende, non si fosse accorto dell’assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse fatto velo la passione ch’egli aveva del commercio, il desiderio che l’antica ditta Orsani non venisse a cessare, e s’era forse lusingato che, con la pratica degli affari, con l’allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita.

             Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la più timida osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai non più discutibile? se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni che potevano venirgli dall’ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato, s’era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata da gran tempo: la cugina orfana, Flavia?

             Come tutte le donne di quell’odiato paese, in cui gli uomini, nella briga, nella costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare all’amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l’unica rosa lì tra le spine, s’era invece acconciata subito, senza rammarico, come d’intesa, alla parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli aveva atteso tutto il giorno all’esportazione del minerale.

             Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell’azienda, nella quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sì! Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s’era allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva sempre accordato la massima fiducia.

             Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso d’improvviso, resa anche più grave dal rimorso d’aver messo al mondo tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita! Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d’una macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe’ figliuoli, testimonii viventi della sua rinunzia a un’altra vita; ma ora gli attossicava il cuore d’amara compassione. Non poteva più sentir piangere i bambini o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso: – «Ecco, per causa mia!» – e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza sfogo. Flavia non s’era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur supposto ch’egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo a gli affari. Anch’ella forse si rammaricava in cuor suo dell’abbandono in cui egli la lasciava; ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda.

             E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell’ampio terrazzo della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare.

             Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico di qualche vapore che s’apparecchiava a salpare. Che pensava in quell’atteggiamento? Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri presagi.

             Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via. E lì, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime silenziose. Così, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell’intensa commozione di quelle tetre sere, l’immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa? E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri più aspri e più ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli lo richiamava d’improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare; ma egli si affrettava a dire: – Vado io! – Toglieva dal lettuccio il bambino e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della creaturina, la notte diveniva più tranquilla anche per lui; e, rimesso sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri della finestra, nel cielo, la stella che brillava di più…

             Erano passati così nove anni. Sul principio di quest’anno, proprio quando la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s’era messa a eccedere un po’ troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi.

             Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente, quelle di casa.

             Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall’infanzia, aveva consigliato a Flavia di cangiar vita, di darsi un po’ di svago, per vincere la depressione nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato. A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all’amico Lucio Sarti, con un sentimento d’invidia e con dispetto.

             Erano stati insieme a Roma, studenti.

             Tanto l’uno che l’altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi; e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione di tal cambiamento su una impressione avuta durante l’ultima malattia d’uno dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure per sua moglie: impressione e null’altro, conoscendo a prova la rigidissima onestà dell’amico e della moglie.

             Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s’accordava in tutto e per tutto col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di solito, in casa, non parlava mai. Se n’era stizzito. O se ella approvava quelle idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s’era messa a discutere con lui intorno all’educazione dei figliuoli, per esempio, se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe’ figli. Ma doveva pur dire così, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli, aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso.

             Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua, pareva a Gabriele che l’amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio di dover tutto, o quasi tutto, a lui.

             Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti; dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città, era fuggito, non appena con l’uso della ragione aveva potuto intravedere a quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto da un misero caffeuccio in cui s’era ridotto a prestar servizio e gli aveva trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri, i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via, schiuso l’avvenire.

             E ora, ecco: il Sarti s’era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro, con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre lui… lui, all’orlo di un abisso!

             Due colpi all’uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all’abitazione, riscossero Gabriele da queste amare riflessioni.

             – Avanti, – disse. E Flavia entrò.

             III. Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.

             –   Volevo domandarti, – disse, – se non ti occorreva la carrozza, perché il bajo oggi non si può attaccare alla mia.

             Gabriele la guardò, come se ella venisse, così elegante e leggera, da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai per lui del tutto incomprensibile.

             –    Come? – disse. – Perché?

             –    Mah, pare che l’abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede. – Chi?

             –    Il bajo, non senti?

             –    Ah, – fece Gabriele, riscotendosi. – Che disgrazia, perbacco!

             – Non pretendo che te ne affligga, – disse Flavia, risentita. – Ti ho doman dato la carrozza. Andrò a piedi.

             E s’avviò per uscire.

             –    Puoi prenderla; non mi serve, – s’affrettò allora a soggiungere Gabriele. – Esci sola?

             –    Con Carluccio. Aldo e la Titti sono in castigo.

             –    Poveri piccini! – sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.

             Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il marito di lasciarla fare.

             – Ma sì, sì, se hanno fatto male, – diss’egli allora. – Pensavo che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul capo un ben più grosso castigo.

             Flavia si voltò a guardarlo.

             –    Sarebbe?

             –    Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello. La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?

             –    La rovina?

             –    La miseria, sì. E peggio forse, per me.

             –    Che dici?

             –    Ma sì, fors’anche… Ti fo stupire?

             Flavia s’appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in dubbio ch’egli non dicesse sul serio.

             Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi nel veder la moglie sconvolta:

             –    Eh, mia cara! – esclamò. – Se ti fossi curata un tantino di me, se avessi, in tanti anni, cercato d’intendere che piacere mi procurava questo mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi sono possibili. E quando un pover uomo è costretto a farne uno superiore alle proprie forze…

             –    Costretto? Chi t’ha costretto? – disse Flavia, interrompendolo, poiché egli con la voce aveva pigiato su quella parola.

             Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall’interruzione e dall’atteggiamento di sfida, ch’ella, dominando ora l’interna agitazione, assumeva di fronte a lui. Sentì come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora più squallido, domandò:

             –    Spontaneamente, allora?

             –    Io, no! – soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. – Se per me, avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria più squallida io l’avrei mille volte preferita…

             –    Sta’ zitta! – gridò egli infastidito. – Non lo dire, finché non sai che cosa sia!

             –    La miseria? Ma che n’ho avuto io, della vita?

             –    Ah, tu? E io?

             Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l’uno di fronte all’altra, quasi sgomenti del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiato ora, all’improvviso, senza la loro volontà.

             – Perché dunque ti lagni di me? – riprese Flavia con impeto. – Se io di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio, come se non fossi stata sacrificata anch’io, e condannata qua a rappresentare per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa, la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d’amarmi. La catena che t’imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena? E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.

             Gabriele s’era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto: – Anche questo!… anche questo!… – Alla fine proruppe:

             –    E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?

             –    Tu falsi le mie parole, – rispose ella, scrollando una spalla.

             –    Ma no! – seguitò Gabriele con foga mordace. – Non merito altro ringraziamento. Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!

             –    No! – s’affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. – Poveri piccini, non ti rinfacceranno la miseria… no!

             Strizzò gli occhi, s’afferrò le mani e le scosse in aria.

             –    Come faranno? – esclamò. – Cresciuti così…

             –    Come? – scattò egli. – Senza guida, è vero? Anche questo mi butteranno in faccia? Va’, va’ ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti, per giunta?

             –    Che c’entra Lucio Sarti? – fece Flavia, stordita da quell’improvvisa domanda.

             –    Ripeti le sue parole, – incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto. – Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.

             Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo, disse:

             –    Chiunque sia per poco entrato nell’intimità della nostra casa, ha potuto accorgersi…

             –    No, lui! – la interruppe Gabriele, con maggior violenza. – Lui soltanto! lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo padre…

             S’arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:

             –    Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com’ha vissuto, vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto gli occhi della gente, dalla miseria, dall’ignominia, in cui lo avevano gettato i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?

             –    Chi dice tiranno? – si provò a osservare Flavia.

             –    Ma liberi, liberi! – proruppe egli. – Io volevo che crescessero liberi i miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della mia esistenza spezzata… inutilmente, ora, inutilmente spezzata…

             A questo punto, come se l’orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi, in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia tremanti, soffocato, e s’abbandonò, privo di sensi.

             Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d’un pallore cadaverico e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:

             –    Che ha? che ha? Dio, ma guardi… Ajuto!… Ah, per causa mia!… Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava lì vicino.

             –    Per causa mia!… per causa mia!… – ripeteva Flavia.

             – No, signora, – le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto il capo di Gabriele. – Da stamattina… Ma già, da un pezzo, qua… Povero figliuolo… Se lei sapesse!

             – So! So!

             – E che vuole, dunque? Per forza!

             Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sì… ma meglio tolse un po’ d’etere. Flavia sonò il campanello; accorse un cameriere:

             –   L’etere! la boccetta dell’etere: su, presto!

             –   Che colpo… che colpo, povero figliuolo! – si rammaricava piano il Bertone, contemplando tra le lagrime il volto del padrone.

             –   La rovina… proprio? – gli domandò Flavia, con un brivido.

             –   Se m’avesse dato ascolto!… – sospirò il vecchio commesso. – Ma egli, poverino, non era nato per stare qui…

             Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell’etere.

             –   Nel fazzoletto?

             –   No: meglio nella stessa boccetta! Qua… qua… – suggerì il Bertone. – Vi metta il dito su… così, che possa aspirare pian piano…

             Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.

             Alto, dall’aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti, un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti, e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava di domande e d’esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:

             – Non fate così, vi prego. Lasciatemi ascoltare.

             Scoprì il petto del giacente, e vi poggiò l’orecchio, dalla parte del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.

             –    Ebbene? – chiese ancora Flavia. Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:

             –    C’è caffeina, in casa?

               –    No… io non so, – s’affrettò a rispondere Flavia. – Ho mandato a prender l’etere…

             –    Non giova.

             S’appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.

             – Ecco. Presto.

             Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.

             – Dottore… – supplicò Flavia.

             Ma il Sarti, senza darle retta, s’appressò di nuovo al canapè. Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:

             –    Fate disporre per portarlo su.

             –    Va’, va’! – ordinò Flavia al cameriere; poi, appena uscito questi, afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli occhi: – Che ha? E grave? Voglio saperlo!

             –    Non lo so bene ancora neanche io, – rispose il Sarti con calma forzata.

             Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l’orecchio per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti che lo agitavano, durante quell’esame. La sua coscienza turbata, sconvolta da ciò che percepiva nel cuore dell’amico, era in quel punto incapace di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.

             Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d’improvviso il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile i vetri, e si trovi d’un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia di richiudere le imposte; egli cercava d’opporsi affinché il pensiero veemente dell’avvenire, la luce sinistra d’una tremenda speranza non irrompessero in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni addietro, liberatosi dall’incubo orrendo della madre, lusingato dall’incoscienza giovanile, s’era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d’aver qualche diritto d’aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore, fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le sostanze della figliuola: la credeva un’orfana accolta per carità in casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua vita, intesa tutta a cancellare il marchio d’infamia che il padre e la madre gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la laurea di medico, e si sarebbe formata un’onesta posizione, non avrebbe potuto chiedere agli Orsani, in prova dell’affetto che gli avevano sempre dimostrato, la mano di quell’orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia? Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare il suo amore per la cugina. Sì; ma gliel’aveva pur tolta; e senza fare la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliola dell’amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere quale tesoro d’affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d’avere da qualche parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla, si fosse accorta dell’affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non cercata, non voluta, gli s’era offerta da sé in una di quelle occasioni, in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l’occasione era stata appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie a trepidare per la vita del figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia, quasi delirante, aveva parlato, s’era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento. E ora?

             –    Ditemi, per carità, dottore! – insistette Flavia, esasperata, nel vederlo così sconvolto e taciturno. – E grave assai?

             –    Sì, – rispose egli, cupo, bruscamente.

             –    Il cuore? Che male? Così all’improvviso? Ditemelo!

               –    Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c’intendereste? Ma ella volle sapere.

             –    Irreparabile? – chiese poi.

             Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:

             – Ah, non così, non così, credetemi! Vorrei potergli dare la mia vita. Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse più col cenno che con

             la voce:

             – Tacete.

             – Voglio che lo sappiate, – aggiunse egli. – Ma già m’intendete, non è vero? Tutto, tutto quello che mi sarà possibile… Senza pensare a me, a voi…

             – Tacete, – ripeté ella, come inorridita. Ma egli seguitò:

             –   Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch’egli mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che potrà prestargli l’amico più devoto.

             Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.

             –    Si riscuote! – esclamò a un tratto. Il Sarti si volse a guardare. – No…

             –    Sì, s’è mosso, – aggiunse ella piano.

             Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè, si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:

             –   Gabriele… Gabriele…

             IV. Pallido, ancora un po’ affannato per tutti i respiri che s’era affrettato a trarre appena rinvenuto, Gabriele pregò la moglie di andarsene.

             – Non mi sento più nulla. Prendi, prendi la carrozza e vai pure a passeggio, – disse, per rassicurarla. – Voglio parlare con Lucio. Va’.

             Flavia, per non dargli sospetto della gravità del male, finse d’accettar l’invito; gli raccomandò tuttavia di non agitarsi troppo, salutò il dottore e rientrò in casa.

             Gabriele rimase un pezzo assorto, guardando la bussola per cui ella era uscita; poi si recò una mano al petto, sul cuore, e seguitando a tener fissi gli occhi, mormorò:

             – Qua, è vero? Tu mi hai ascoltato… Io… Che cosa buffa! Mi pareva che quel signor… come si chiama?… Lapo, sì: quell’ometto dall’occhio di vetro, mi tenesse legato, qua; e non potevo svincolarmi; tu ridevi e dicevi: Insuffi cienza… è vero?… insufficienza delle valvole aortiche…

             Lucio Sarti, nel sentir proferire quelle parole da lui dette a Flavia, allibì. Gabriele si scosse, si voltò a guardarlo e sorrise:

             –    T’ho sentito, sai?

             –    Che… che hai sentito? – balbettò il Sarti, con un sorriso squallido su le labbra, dominandosi a stento.

             –    Quello che hai detto a mia moglie, – rispose, calmo, Gabriele, fissando di nuovo gli occhi, senza sguardo. – Vedevo… mi pareva di vedere, come se avessi gli occhi aperti… sì! Dimmi, ti prego, – aggiunse, riscotendosi, – senza ambagi, senza pietose bugie: quanto posso vivere ancora? Quanto meno, tanto meglio..

             Il Sarti lo spiava, oppresso di stupore e di sgomento, turbato specialmente da quella calma. Ribellandosi con uno sforzo supremo all’angoscia che lo istupidiva, scattò.

             –    Ma che ti salta in mente?

             –    Un’ispirazione! – esclamò Gabriele, con un lampo negli occhi. – Ah, perdio!

             E sorse in piedi. Si recò ad aprir l’uscio che dava nella stanza del banco e chiamò il Bertone.

             – Senti, Carlo: se tornasse quell’ometto che è venuto stamattina, fallo aspettare. Anzi manda subito a chiamarlo, o meglio: va’ tu stesso! Subito, eh?

             Richiuse l’uscio e si voltò a guardare il Sarti, stropicciandosi le mani, allegramente:

             – Me l’hai mandato tu. Ah, l’acciuffo per quei capelli svolazzanti e lo pianto qua, tra me e te. Dimmi, spiegami subito come si fa. Voglio assicurarmi. Tu sei il medico della Compagnia, è vero?

             Lucio Sarti, angosciato dal dubbio tremendo che l’Orsani avesse inteso tutto quello ch’egli aveva detto a Flavia, rimase stordito a quella subitanea risoluzione; gli parve senza nesso, ed esclamò, sollevato per il momento da un gran peso:

             –    Ma è una pazzia!

             –    No, perché? – rispose, pronto, Gabriele. – Posso pagare, per quattro o cinque mesi. Non vivrò più a lungo, lo so!

             – Lo sai? – fece il Sarti, forzandosi a ridere. – E chi ti ha prescritto i termini così infallibilmente? Va’ là! va’ là!

             Rinfrancato, pensò che fosse una gherminella per fargli dire quel che pensasse della sua salute. Ma Gabriele, assumendo un’aria grave, si mise a parlargli del suo prossimo crollo inevitabile. Il Sarti sentì gelarsi. Ora vedeva il nesso e la ragione di quella risoluzione improvvisa, e si sentì preso al laccio, a una terribile insidia, ch’egli stesso, senza saperlo, si era tesa quella mattina, inviando all’Orsani quell’ispettore della Compagnia d’Assicurazione, di cui era il medico. Come dirgli, adesso, che non poteva in coscienza prestarsi ad ajutarlo, senza fargli intendere nello stesso tempo la disperata gravità del male, che gli s’era così d’un colpo rivelato?

             –    Ma tu, col tuo male, – disse, – puoi vivere ancora a lungo, a lungo, mio caro, purché t’abbi un po’ di riguardo…

             –    Riguardo? Come? – gridò Gabriele. – Son rovinato, ti dico! Ma tu ritieni che io possa vivere ancora a lungo? Bene. E allora, se è vero questo, non avrai difficoltà…

             –    E i tuoi calcoli allora? – osservò il Sarti con un sorriso di soddisfazione, e aggiunse, quasi per il piacere di chiarire a se stesso quella felice scappatoja, che gli era balenata all’improvviso: – Se dici che per tre o quattro mesi soltanto potresti far fronte…

             Gabriele rimase un po’ sopra pensiero.

             – Bada, Lucio! Non ingannarmi, non mettermi davanti questa difficoltà per avvilirmi, per non farmi commettere un’azione che tu disapprovi, è vero? e a cui non vorresti partecipare, sia pure con poca o nessuna tua responsabilità…

             – T’inganni! – scappò detto al Sarti. Gabriele sorrise allora amaramente.

             – Dunque è vero, – disse, – dunque tu sai che io sono condannato, tra poco, forse prima ancora del tempo calcolato da me. Ma già, ti ho sentito. Basta, dunque! Si tratta ora di salvare i miei figliuoli. E li salverò! Se m’ingannassi, non dubitare, saprei procurarmi a tempo la morte, di nascosto.

             Lucio Sarti si alzò, scrollando le spalle, e cercò con gli occhi il cappello.

             –    Vedo che tu non ragioni, mio caro. Lascia che me ne vada.

             –    Non ragiono? – disse Gabriele, trattenendolo per un braccio. – Vieni qua! Ti dico che si tratta di salvare i miei figliuoli! Hai capito?

             –    Ma come vuoi salvarli? Vuoi salvarli sul serio, così?

             –    Con la mia morte.

             –    Pazzie! Ma scusa, vuoi ch’io stia qua a sentir codesti discorsi?

             –    Sì – disse con violenza Gabriele, senza lasciargli il braccio. – Perché tu devi ajutarmi.

             –    A ucciderti? – domandò il Sarti, con tono derisorio.

             –    No: a questo, se mai, ci penserò io…

             –    E allora… a ingannare? a… a rubare, scusa?

             –    Rubare? A chi rubo? Rubo per me? Si tratta d’una Società esposta per se stessa al rischio di siffatte perdite… Lasciami dire! Quel che perde con me, lo guadagnerà con cento altri. Ma chiamalo pur furto… Lascia fare! Ne renderò conto a Dio. Tu non c’entri.

             –    T’inganni! – ripetè con più forza il Sarti.

             –    Viene forse a te quel danaro? – gli domandò allora Gabriele, figgendogli gli occhi negli occhi. – L’avrà mia moglie e quei tre poveri innocenti. Quale sarebbe la tua responsabilità?

             D’un tratto, sotto lo sguardo acuto dell’Orsani, Lucio Sarti comprese tutto: comprese che Gabriele aveva bene udito e che si frenava ancora perché voleva prima raggiungere il suo scopo: porre cioè un ostacolo insormontabile fra lui e la moglie, facendolo suo complice in quella frode. Egli, infatti, medico della Compagnia, dichiarando ora sano Gabriele, non avrebbe poi potuto far più sua Flavia, vedova, a cui sarebbe venuto il premio dell’assicurazione, frutto del suo inganno. La Società avrebbe agito, senza dubbio, contro di lui. Ma perché tanto e così feroce odio fin oltre la morte? Se egli aveva udito, doveva pur sapere che nulla, nulla aveva da rimproverare né a lui, né alla moglie. Perché, dunque?

             Sostenendo lo sguardo dell’Orsani, risoluto a difendersi fino all’ultimo, gli domandò con voce mal ferma:

             –    La mia responsabilità, tu dici, di fronte alla Compagnia?

             –    Aspetta! – riprese Gabriele, come abbagliato dall’efficacia stringente del suo ragionamento. – Devi pensare che io sono tuo amico da prima assai che tu diventassi il medico di codesta Compagnia. E vero?

             –    E vero… ma… – balbettò Lucio.

             –    Non turbarti! Non voglio rinfacciarti nulla; ma solo farti osservare che tu, in questo momento, in queste condizioni, pensi, non a me, come dovresti, ma alla Compagnia…

             –    Al mio inganno! – replicò il Sarti, fosco.

             –    Tanti medici s’ingannano! – ribatté subito Gabriele. – Chi te ne può accusare? Chi può dire che in questo momento io non sia sano? Vendo salute! Morrò di qui a cinque o sei mesi. Il medico non può prevederlo. Tu non lo prevedi. D’altra parte, il tuo inganno, per te, per la tua coscienza, è carità d’amico.

             Annichilito, col capo chino, il Sarti si tolse le lenti, si stropicciò gli occhi; poi, losco, con le palpebre semichiuse, tentò con voce tremante l’estrema difesa:

             –    Preferirei – disse, – dimostrartela altrimenti, questa che tu chiami carità d’amico.

             –    E come?

               –    Ricordi dove morì mio padre e perché? Gabriele lo guatò, stordito; bisbigliò tra sé:

             –    Che c’entra?

               –    Tu non sei al mio posto, – rispose il Sarti, risoluto, aspro, rimettendosi le lenti. – Non puoi giudicarne. Ricordati come sono cresciuto. Ti prego, lasciami agire correttamente, senza rimorsi.

             –    Non capisco, – rispose Gabriele con freddezza, – che rimorso potrebbe essere per te l’aver beneficato i miei figliuoli…

             –    Col danno altrui?

             –    Io non l’ho cercato.

             –    Sai di farlo!

             –    So qualche altra cosa che mi sta più a cuore e che dovrebbe stare a cuore anche a te. Non c’è altro rimedio! Per un tuo scrupolo, che non può essere anche mio ormai, vuoi che rigetti questo mezzo che mi si offre spontaneo, quest’ancora che tu, tu stesso m’hai gettata?

             S’appressò all’uscio, ad origliare, facendo cenno al Sarti di non rispondere.

             –    Ecco, è venuto!

             –    No, no, è inutile, Gabriele! – gridò allora il Sarti, risolutamente. – Non costringermi!

             L’Orsani lo afferrò per un braccio:

             –    Bada, Lucio! È l’ultima mia salvezza.

             –    Non questa, non questa! – protestò il Sarti. – Senti, Gabriele: Quest’ora sia sacra per noi. Io ti prometto che i tuoi figliuoli…

             Ma Gabriele non lo lasciò finire:

             –    L’elemosina? – disse, con un ghigno.

             –    No! – rispose Lucio, pronto. – Renderei a loro quel che m’ebbi da te!

             –    A qual titolo? Come vorresti provvedere ai miei figliuoli? Tu? Hanno una madre! A qual titolo? Non di semplice gratitudine, è vero? Tu menti! Per altro fine ti ricusi, che non puoi confessare.

             Così dicendo, lo afferrò per le spalle e lo scosse, intimandogli di parlar piano e domandandogli fino a che punto avesse osato ingannarlo. Il Sarti tentò di svincolarsi, difendendo dall’atroce accusa sé e Flavia e rifiutandosi ancora di cedere a quella violenza.

             – Voglio vederti! – ruggì a un tratto fra i denti l’Orsani.

             D’un balzo aprì l’uscio e chiamò il Vannetti, mascherando subito l’estrema concitazione con una tumultuosa allegria:

             – Un premio, un premio, – gridò, investendo l’ometto cerimonioso, – un grosso premio, signor ispettore, all’amico nostro, al nostro dottore, che non è soltanto il medico della Compagnia, ma il suo più eloquente avvocato. M’ero quasi pentito; non volevo saperne… Ebbene, lui, lui mi ha persuaso, mi ha vinto… Gli dia, gli dia subito da firmare la dichiarazione medica: ha premura, deve andar via. Poi noi stabiliremo il quanto e il come…

             Il Vannetti, felicissimo, tra uno scoppiettio di esclamazioni ammirative e di congratulazioni, trasse dalla cartella un modulo a stampa, e ripetendo: – Formalità… formalità… – lo porse a Gabriele.

             – Ecco, scrivi, – disse questi, rimettendo il modulo al Sarti, che assisteva come trasognato a quella scena e vedeva ora in quell’omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino.

Formalità – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Formalità – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Formalità – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino

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