167. Felicità – Novella

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Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 26 aprile 1911, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.
«Perché non avrebbe potuto averlo, lei, un figlio suo, veramente suo? Sarebbe impazzita dalla felicità! Avrebbe sofferto qualunque umiliazione, qualunque vergogna, anche il martirio, per la gioja d’un figlio suo!»

Novella dalla Raccolta “Il viaggio” (1928)

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Felicità
Yvetta Fedorova, I Dreaded Winter Until My Newborn Taught Me to Embrace It. Immagine  dal sito dell’Autrice

Felicità – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Felicità – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Felicità – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Felicità – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

9. Felicità – 1911

             La vecchia mamma duchessa uscì quasi imbalordita dalla stanza ove il marito s’era segregato, dal giorno che la nuora coi due nipotini aveva abbandonato il palazzo e la città per ritornare dai suoi parenti di Nicosìa.

             Quasi si sentisse lacerare dentro, contrasse il volto e si restrinse tutta in sé al cigolio lamentoso dell’uscio, che avrebbe voluto richiudere pian piano. Che era stato quel cigolio? Niente. Forse il duca non lo aveva nemmeno avvertito. Eppure la vecchia duchessa ne rimase un pezzo vibrante e ansante e in preda a una sorda stizza, quasi quell’uscio, pur trattato con tanta delicatezza, avesse voluto farle un crudelissimo dispetto.

             Come gli animi, tutti gli oggetti di quella casa, animati da tanti ricordi familiari, pareva fossero da qualche tempo in una tensione di spasimo violenta: a toccarli appena appena, davano un lamento.

             Stette un po’ in orecchi; poi, con la cerea faccia disfatta, il collo piegato come sotto un giogo, si mosse sui soffici tappeti, attraversò molte stanze in penombra, dove tra i cortinaggi antichi e gli alti mobili scuri e quasi funebri stagnava un alido strano, come un’afa del passato, e si presentò sulla soglia della camera remota, nella quale Elisabetta, la figliuola, stava ad attenderla in smaniosa ambascia.

             Nel vedere quell’aria della madre, Elisabetta si sentì venir meno. L’impeto, con cui nell’attesa avrebbe voluto correrle incontro, le mancò a un tratto, e subito tutte le membra le si rilassarono così, che non potè neanche sollevare le gracili mani per nascondersi il volto.

             Ma la vecchia mamma le si accostò e, posandole lievemente una mano sulla spalla:

             – Figlia mia, – le annunziò, – ha detto di sì.

             La figliuola ebbe un sussulto e, con la faccia sconvolta, guardò la madre. Era così violento il contrasto fra l’esultanza che quell’annunzio le suscitava e la soffocazione che le incuteva quell’aria di stordimento e di pena della madre, che la poverina, storcendosi le mani, stridette convulsa tra il riso e il pianto:

             –    Sì? sì? ma come? sì?

             –    Sì, – ripeté la mamma, più col cenno che con la voce.

             –    Ha gridato? s’è infuriato?

             –    No, niente.

             –    E allora?

             Ma subito comprese che, appunto perché il padre aveva detto di sì senza gridare né infuriarsi, la madre era così oppressa di doloroso stupore.

             Aveva fatto chiedere al padre, che volesse condiscendere alle nozze di lei col precettore de’ due figliuoli della nuora andata via da poco.

             Ma la condiscendenza del padre, così, senza gridi né furie, aveva per lei un significato ben diverso da quello che aveva per la madre.

             Ben diverso; non meno penoso.

             Forse perché donna e secondogenita, forse perché non bella, così timida in apparenza, umile di cuore e di maniere, schiva e taciturna, non era stata mai calcolata da lui come una figliuola, ma piuttosto come un ingombro lì per casa, un ingombro di cui provava fastidio solo quando si sentiva guardato; non metteva conto, dunque, che si adirasse o si amareggiasse il sangue, se ella voleva sposare un servitore, un precettoruccio, un maestrino di scuole elementari; forse per lui non era degna d’altre nozze.

             La madre, invece, che con tanto terrore, spinta dall’amore per la figlia, s’era presentata con quella proposta al marito, di cui conosceva bene l’orgoglio, tanto più fanatico e fiero, quanto più angustiose si erano a mano a mano ridotte le condizioni finanziarie del casato, e le ire furibonde che lo assalivano per ogni atto del volgo, che gli paresse un nuovo attentato a’ suoi privilegi nobiliari; pensava che se egli derogava così a se stesso, ai suoi più forti sentimenti, doveva senza dubbio essere già cominciato l’estremo sfacelo del suo spirito, dopo l’ultimo colpo che gli aveva dato il figlio, unico erede del nome, invescato da una donnaccola di teatro e fuggito via con essa, ormai da un anno.

             Don Gaspare Grisanti, duca di Rosàbia, marchese di Collemagno, barone di Fontana e di Gibella, devoto per la vita al passato governo delle Due Sicilie, «Chiave d’oro» della Corte di Napoli e onorato ancora della corrispondenza epistolare con gli ultimi superstiti della dinastia decaduta; colui che troneggiava ogni giorno per via Maqueda, all’ora del passeggio, dall’alto della sua carrozza antica, con due valletti dietro, immobili come statue, in parrucca, e un altro valletto accanto al gigantesco cocchiere, senza mai salutare nessuno, rigido, cupo, sprezzante, diretto al solitario parco della Favorita; consentiva che la figliuola sposasse un signor Fabrizio Pingiterra, maestro elementare e di ginnastica, già precettore de’ suoi nipotini. Ma ormai! Aveva sperato di ristorare le sorti del casato col matrimonio del duchino con una ricchissima ereditiera, figlia unica d’un barone di campagna. Quel tristo s’era infognato in un amorazzo per cui, tra tante vergogne, era dovuto scappar via; la nuora, sorda a tutte le preghiere, aveva ottenuto dal tribunale la separazione di beni e persona dal marito e se n’era ritornata al suo paese. Tutto era finito. Solo, a costo di qualunque sacrifizio voleva ancora mantenere quella carrozza pomposa coi tre valletti in parrucca, per la sua quotidiana comparsa in pubblico, e giù, a pie del palazzo, il guardaportone con la mazza, quantunque da un mese, cioè dal giorno che la nuora era andata via, il cancello dello scalone fosse chiuso per non lasciar passare più nessuno.

             – Non sei morta tu? – aveva domandato alla moglie. – E anche io, – aveva soggiunto. – I figli, nel fango; e noi seguitiamo, da morti, la nostra mascherata.

             Elisabetta si riscosse con un sospiro e domandò alla mamma:

             – Che t’ha detto?

             La madre voleva attenuare in qualche modo la durezza dei patti e delle condizioni posti dal padre, con calmo e freddo sprezzo che non ammetteva replica; ma la figlia la pregò di dir tutto, crudamente.

             –    Mah, sai che da un pezzo non vuole più vedere nessuno.

             –    Dunque non vuol vederlo. Poi?

             –    Poi, lo scalone, tu sai, è chiuso, dacché tua cognata…

             –    Vuole allora ch’egli seguiti a salire per la scaletta della servitù. Poi?

             La madre esitava più che mai. Non sapeva come dire alla figlia, che dopo il matrimonio non doveva più metter piede, neanche sola, nel palazzo.

             – Per… per vederci, – balbettò, – quando… sì, poi… quando sarai sposata, verrò io, verrò io ogni giorno a casa tua.

             Elisabetta prese una mano della madre e gliela baciò e gliela bagnò di lagrime, gemendovi sopra:

             –    Povera mamma… povera mamma…

             –    Sai? – riprese questa, – mi… mi ha fatto quasi ridere… Sai quanto tenga alla sua carrozza… bene, quella no, dice, quella no!

             E come se questa fosse veramente una cosa da ridere, la vecchia mamma duchessa si mise a ridere, a ridere e a fingere che quelle scosse di riso le impedissero di seguitare a dire alla figlia quest’altra condizione che, via, non era altro che ridicola.

             –    Vuole che prenda a nolo, dice, una carrozzella per venire da te. Permette però che usciamo insieme, a passeggio, con questa… con quella no! con quella no! eh, quella… quella…

             –    Quanto mi vuol dare? – domandò Elisabetta. La mamma finse ancora di non capire, o piuttosto, di non aver bene inteso, per prendere tempo e preparare quest’altra risposta, ch’era la più angustiosa.

             –    Di che? – disse.

             –    Di dote, mamma.

             Era qui il punto. Non si faceva la minima illusione, Elisabetta. Sapeva che colui non la avrebbe sposata per altro. Aveva anche sette anni più di lui, e riconosceva che, già appassita, peggio! disseccata senz’essere stata mai in fiore, nel silenzio e nell’ombra di quella casa oppressa da tante cose morte, non aveva nulla, proprio nulla in sé, da suscitare e accendere il desiderio d’un uomo. Senza il danaro, neppure l’ambizione di diventare – fosse pur soltanto di nome – genero del duca di Rosàbia, sarebbe valsa a fargliela accettare. Già glielo aveva lasciato intendere chiaramente, forse prevedendo che il duca non si sarebbe mai abbassato a considerarlo e a trattarlo da genero; oh, aveva avuto finanche l’ardire di confessarle che egli Fabrizio Pingiterra, essendo come il duchino di cui godeva l’amicizia, di sentimenti democratici e liberali, quasi quasi faceva un sacrificio a imparentarsi con un patrizio d’idee così notoriamente retrive; ma che per lei lo faceva volentieri, per lei così mite e buona; unicamente per lei. «Cioè, unicamente per il danaro,» aveva ella tradotto fra sé, senza schifo né ribrezzo.

             No no: né schifo né ribrezzo: tenere alte, ben alte – questo sì – gelosamente custodite e nascoste, in vetta allo spirito, la nobiltà e la purezza dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri, perché non s’insozzassero minimamente nel contatto indegno; ma poi, abbassarsi fino a lui, lasciar sospettare di sé le cose più vili, umiliarsi, concedersi, abbandonarsi – questo no, questo non doveva farle né schifo né ribrezzo, perché era necessario, inevitabile, per arrivare allo scopo; voleva vivere, vivere: cioè, esser madre, voleva: un figlio voleva, suo, tutto suo; e non avrebbe potuto averlo altrimenti.

             Questa frenesia le era nata e divampata, dando con tutto il cuore, con tutta l’anima, tutte le cure d’una madre e fino il sonno delle sue notti a quei due nipotini andati via da un mese, ai due figliuoli della cognata che, aprendo gli occhi, avevano acceso l’alba non solamente nelle tenebre di quel palazzo, ma anche nell’anima di lei che n’era piena; un’alba d’una dolcezza e d’una freschezza inesprimibili, che l’avevano tutta rinnovellata.

             Ah che fuoco e che tortura a non poterli far suoi, suoi del suo sangue e della sua carne, quei piccini, a furia di stringerli a sé e di baciarli e di renderli padroni assoluti di lei, là, coi loro rosei piedini su la sua faccia, così, sul suo seno, così.

             Perché non avrebbe potuto averlo, lei, un figlio suo, veramente suo? Sarebbe impazzita dalla felicità! Avrebbe sofferto qualunque umiliazione, qualunque vergogna, anche il martirio, per la gioja d’un figlio suo!

             Poteva non accorgersi di questo il giovine precettore chiamato a dare i primi tormenti dell’alfabeto a quei due bambini, là, su le ginocchia stesse della zietta, che essi non volevano lasciare neanche per un momento?

             Ora, tutto stava che egli accettasse quei patti e quelle condizioni. Niente dote, pur troppo: un semplice assegno di venti lire al giorno, e le spese per l’arredo d’una modesta casetta. Comprendeva Elisabetta che, quanto più duri quei patti, tanto più cara avrebbe pagata la sua felicità, se egli li accettava.

             Attese, spasimando d’ansia, che la madre quella sera stessa glieli comunicasse. Ecco, egli era di là. Povera mamma santa, chi sa quanto doveva soffrire in quel momento! E lei? lei? Si torceva le mani, si nascondeva gli occhi, si premeva le tempie, serrava i denti, e con tutta l’anima protesa verso di lui gli gridava: – «Accetta! accetta! tu non sai qual bene puoi avere da me, se accetti!» – poi tendeva l’orecchio. Ecco: se egli non accettava, la mamma sarebbe apparsa da quell’uscio come un’ombra, povera mamma, con le braccia cadute. Se accettava, invece, ah se accettava, la avrebbero chiamata di là… Oh Dio quando? quando? ancora?

             Apparve come un’ombra la vecchia mamma da quell’uscio, e di nuovo Elisabetta, guardandola, si sentì morire. Ma, come già la mattina, quella le si accostò e, posandole una mano sulla spalla, le disse ch’egli aveva accettato; solo si era lasciato prendere dalle furie per il patto di salire dalla scaletta della servitù. Ma, santo Dio, se lo scalone era chiuso per tutti! se era sempre salito di là! Basta; s’era molto sdegnato e, per non addolorarla troppo con la vista del suo… come aveva detto? già, rimescolamento, era andato via per non rimettere piede mai più, mai più nel palazzo; si sarebbero però veduti fuori, ogni giorno, per la scelta della casa e la compera degli arredi; voleva che tutto si facesse nel più breve tempo possibile.

             Ma figurarsi! subito, di volo! Parve che la gioja mettesse le ali a Elisabetta; e, bella no, bella non poteva renderla; ma di quanta luce le accese gli occhi, di che dolce e mesto fascino le animò i sorrisi, di quanta timida grazia i modi, per ammansare lo sdegno di quell’uomo, per compensarlo delle offese alla sua dignità, per dimostrargli, se non proprio amore, remissione intera e riconoscenza!

             La casetta fu presto trovata, fuorimano, quasi in campagna, in via Cuba, tutta fragrante di zagare e di gelsomini; il corredo, ricco di trine di nastri di ricami, era già pronto da un pezzo; i mobili, semplici, quasi rustici, appena comperati furono messi a posto, e il matrimonio, senz’inviti e senza l’intervento del duca, quasi clandestino, potè esser concluso nel tempo più strettamente necessario per le pratiche e le formalità civili e religiose.

             Con tutta quella furia, nessuna sposa più d’Elisabetta andò a legarsi conscia della gravità e della santità dell’atto. E per circa quattro mesi, con la gioja che le raggiava come un fascino da tutto il corpo trasfigurato, riuscì a legare a sé amorosamente il marito, cioè fino a quando ebbe bisogno di lui. Poi si accecò nell’ebrezza del primo segno rivelatore della sua maternità, e non vide allora più nulla; non le importò più di nulla: se egli usciva e tardava a rincasare; se non rincasava affatto; se le mancava di rispetto e la maltrattava; se le portava via e le spendeva chi sa come, chi sa dove e con chi, quelle poche lire dell’assegno, che la mamma ogni giorno veniva a lasciarle. Non voleva risentirsi di nulla, a nulla badare per non turbare affatto l’opera santa della natura, che si compiva in lei e che doveva compiersi in letizia, bevendo ella con l’anima l’azzurra purità del cielo, l’incanto di quella chiostra di monti che respiravano nell’aria accesa e palpitante come se non fossero di dura pietra, e il sole, il sole ch’entrava nelle sue stanzette come non era entrato mai, là, nei tetri saloni del palazzo paterno.

             – Ma sì, mamma, non vedi? sono felice! felice!

             La carrozzella d’affitto andava quasi a passo per non scuotere troppo la gestante, e tutti si voltavano e si fermavano per via a mirare con espressione di pietà la vecchia duchessa di Rosàbia in quella vetturetta, con quella figliuola accanto così miseramente vestita, così decaduta, scacciata dal padre, maritata di nascosto, chi sa quando, chi sa con chi, più squallida che mai, deformata dalla gravidanza, e pur così ridente; oh sì, poverina, eccola là, tutta ridente sotto gli occhi della madre pieni di compassione.

             E la duchessa di Rosàbia, ingannata da quella letizia, non avrebbe mai sospettato che quel vile arrivava fino al punto di lasciarle digiuna la figliuola, se un giorno, avendo fatto cenno al vetturino di arrestarsi davanti la bottega d’un dolciere per comperarle alcune paste, Elisabetta con tono scherzoso non avesse trovato modo di dirle che, invece di quelle paste, se la mamma aveva da spendere, avrebbe preferito qualche cosa di più sostanzioso, e che le avrebbe insegnato lei dove poteva darle da mangiare: lì presso alla sua casetta, in un orto, nella capanna d’una vecchia contadina che aveva tanti colombi e tante galline e le vendeva le uova ogni giorno. Fame, fame, aveva proprio fame, lei.

             – Ma tu non mangi a tavola? – le domandò la mamma, vedendo, di lì a qualche ora, la figliuola seduta a una tavola rustica davanti alla capannetta, nell’orto di quella contadina, divorare, anche con gli occhi, un galletto arrostito.

             Ed Elisabetta, ridendo e senza smettere di mangiare:

             – Ma sì! tanto mangio… tanto! ma non mi sazio mai, vedi? mangio per due! Intanto, di nascosto, la vecchia contadina faceva alla duchessa certi cenni

             con gli occhi e col capo, che questa non capiva.

             Capì qualche tempo dopo, quando, entrando nella casetta della figlia, la trovò invasa da tante guardie di questura che vi facevano una perquisizione giudiziaria. Fabrizio Pingiterra, accusato di falso e come affiliato a una banda di truffatori, era scappato, non si sapeva se in Grecia o in America.

             Come la vide, Elisabetta le corse incontro quasi a ripararla, a escluderla dalla vista di quello spettacolo, e prese a dirle affollatamente:

             – Niente, mamma, niente! non ti spaventare!… Vedi, sono tranquilla! Ringraziamo Dio, anzi, mamma, ringraziamo Dio! – E le soggiunse piano, in un orecchio, vibrando tutta: – Così non lo vedrà! non lo conoscerà, capisci? e sarà più mio, tutto mio, tutto mio!

             Ma l’agitazione affrettò il parto, e non senza rischio, così per lei come per il nascituro. Quando però ella si vide salva col bimbo, quando vide quella sua carne che palpitava viva, recisa da lei, carne che piangeva fuori di lei, che le cercava il seno, cieca, e il calore che le mancava; quando poté porgere al suo bimbo la mammella, godendo che entro a quel corpicino uscito or ora dal suo corpo entrasse subito quella sua tepida vena materna, sì che il pargolo potesse sentire nel calore del latte ancora il calore del grembo di lei, parve veramente che volesse impazzire dalla gioia.

             E non sapeva capacitarsi perché la madre, pur vedendola così, venisse di giorno in giorno a visitarla sempre più dolente e cupa. Ma perché?

             La vecchia mamma alla fine glielo disse: aveva sperato che il padre, ora che la figlia era sola lì, abbandonata, si sarebbe piegato a riaccoglierla in casa: ebbene, no, non voleva.

             – Per questo? – esclamò Elisabetta. – Oh povera mamma mia! Me ne duole per te; ma io piangerei, credi, se dovessi portare là, in quella tristezza, in quella oppressione, il mio bimbo, che ha tanto riso di luce, qua, vedi? tanta allegrezza!

             E in mezzo alla nuda, santa semplicità della casetta, levò alto sulle braccia il suo bambino al sole che entrava festivamente, con la frescura degli orti, dai balconi spalancati.

Raccolta Il viaggio
01 – Il viaggio – 1910
02 – Il libretto rosso – 1911
03 – La mano del malato povero – 1917
04 – Pubertà – 1926
05 – Gioventù – 1902
06 – Ignare – 1912
07 – L’ombrello – 1909
08 – Zafferanetta – 1911
09 – Felicità – 1911
10 – Spunta un giorno – 1928
11 – «Vexilla regis…» – 1897
12 – L’uccello impagliato – 1910
13 – «Leonora, addio!» – 1910
14 – Il lume dell’altra casa – 1909
15 – Leviamoci questo pensiero – 1910

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