Il fluire inesorabile del tempo è il dramma fondamentale dell’Enrico IV, al quale egli invano titanicamente si ribella. Eroica è la decisione di continuare a recitare la sua pazzia essendo impossibile il recupero degli anni perduti, con un rifiuto che rende impraticabile ogni compromesso con la frode operata dal tempo. |
1967. RAI.
Enrico IV: Salvo Randone
La marchesa Matilde Spina: Neda Naldi
Sua figlia Frida: Teresa Ricci
Il marchese Carlo Di Nolli: Umberto Ceriani
Il barone Tito Belcredi: Carlo D’Angelo
Il dottor Dionisio Genoni: Loris Gizzi
Regia di Claudio Fino
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STESURA settembre – novembre 1921
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 24 febbraio 1922 – Milano, Teatro Manzoni, Compagnia Ruggero Ruggeri.
Approfondimenti nel sito:
Sezione Teatro – Enrico IV
Sezione Tematiche – Lettera a Ruggero Ruggeri – 21 Settembre 1921
Sezione Tematiche – Pia Schwarz Lausten – Le finzioni di Enrico IV. Un’analisi del dramma di Luigi Pirandello
Sezione Video – Enrico IV – 1979 – Romolo Valli
Il contrasto tra la vita e la forma, tra la realtà e la finzione, tra persona e personaggio, motivi fondamentali della sua problematica, rivivono nella ribellione esistenziale di Enrico IV in maniera così spontanea e drammatica da raggiungere le punte più alte dell’arte pirandelliana.
Il protagonista recita da vent’anni la parte di Enrico IV, nei primi dodici con inconsapevole innocenza, negli ultimi otto per dolorosa necessità. Egli non ha altro nome se non quello dell’Imperatore del Sacro Romano Impero di cui impersonava la parte in una cavalcata in costume della sua lontana giovinezza. Una caduta da cavallo, provocata dal suo rivale in amore Tito Belcredi, lo ha tenuto imprigionato in quel personaggio per dodici anni. Il nipote Carlo Di Nolli, ha soccorso la sua tranquilla pazzia facendolo vivere in un castello tra compiacenti cortigiani che lo assecondano.
Quando rinsavisce dopo dodici anni si rende conto che è stato defraudato della sua giovinezza; la donna che amava e gli altri amici l’hanno vissuta, lui no, né può più riviverla ora. Il tempo scorre inesorabile e non aspetta nessuno. Non aspetta il fu Mattia Pascal, che quando torna al suo paese dopo la sua vana fuga verso la libertà, trova tutto cambiato: la moglie si è risposata col suo più caro amico. Non ha aspettato Enrico che ora disperatamente insegue i suoi ricordi e si ritrova estraneo in un mondo che è cambiato senza dì lui. Il fluire inesorabile del tempo è il dramma fondamentale dell’Enrico IV, al quale egli invano titanicamente si ribella. Eroica è la decisione di continuare a recitare la sua pazzia essendo impossibile il recupero degli anni perduti, con un rifiuto che rende impraticabile ogni compromesso con la frode operata dal tempo.
Sul piano teorico qui la forma è uscita dalla dialettica della vita quotidiana per fissarsi nell’immobilità della storia. Nel profondo dei suoi sentimenti – sui quali è costantemente puntata l’attenzione dell’autore – la scelta di continuare quella storica farsa assume il significato dì una rivalsa sul tempo che non potrà più nemmeno sfiorare la sua esistenza volontariamente posta al di fuori della vita degli altri. Enrico IV è il suo vero nome, sotto il quale è costantemente vissuto e continuerà a vivere, il nome del giovane caduto da cavallo non esiste, come non esiste il suo futuro. Il tempo non condizionerà nemmeno la sua figura di personaggio: Enrico IV non invecchia, rimane fermo all’immagine dell’imperatore ventiseienne come appare nel ritratto giovanile in costume, appeso nella sala del trono, accanto al ritratto di Donna Matilde giovane. Ma a interrompere la sua statica esistenza fissata nell’immobilità della storia, sopraggiungono i personaggi della sua giovinezza venuti a curiosare e a tentare di farlo rinsavire. Enorme il contrasto tra la meditata consapevolezza del protagonista e la superficialità dei sopravvenuti che ignorando il suo profondo dramma, tentano sconsideratamente di trascinarlo con l’eventuale guarigione nell’attualità della vita. Tra l’altro la loro presenza dà innanzitutto la misura dell’enorme differenza tra i ricordi della giovinezza e la realtà presente in cui vorrebbero ricondurlo: Donna Matilde da lui tanto amata è ormai una donna sfiorita e gli si presenta insieme con l’amante, quel Tito Belcredi che fece impennare il suo cavallo provocando la tragica caduta. Con essi il munifico nipote Carlo Di Nolli e uno psichiatra rubicondo e fanfarone, il Dottor Genoni, sicuro di sé fino alla tracotanza, che tratta con freddezza Enrico come un caso clinico e si proclama sicuro di farlo rinsavire. Su questa ridicola figura si concentra la risentita ironia dell’autore che sembra farsi beffe dei falsi professionisti e degli effetti taumaturgici della psichiatria. Fra gli altri c’è la bella e giovane Frida, figlia di Matilde, di cui Genoni si serve allo scopo di risvegliare nel pazzo il ricordo di Matilde giovane e scuoterlo dal suo torpore mentale.
Per suggerimento dello psichiatra tutti indossano un costume d’epoca e cercano di conformarsi agli atteggiamenti di Enrico. Il quale furoreggia nella sua molteplice interpretazione (da pazzo, da Enrico IV anziano che recita la parte di Enrico IV giovane, da rinsavito che allude…) e mette in difficoltà gli intrusi accennando vagamente a congiure, facendo balenare la sensazione di aver capito tutto e dissimulandola subito dopo, costringendoli a recitare a suo modo. Nell’allucinante vivacissimo dialogo con i suoi interlocutori la follia appare come saggezza e la saggezza come inconsapevole follia. Il Genoni tenta, infine, lo stratagemma che deve far rinsavire Enrico: pone dietro la cornice del quadro il volto della bella Frida, in sostituzione di quello di Matilde giovane: la somiglianza è inquietante. Per Enrico è come si compisse un miracolo: ecco finalmente la sua donna di un tempo, è giovane come era lei, a lui spetta questa fanciulla e non la vecchia Matilde, è questo il modo per risarcirlo di quanto la vita gli ha tolto. Si precipita su Frida e l’abbraccia. Quando Belcredi interviene e lo afferra gridando: «Tu non sei pazzo», Enrico lo ferisce al ventre con la spada. E un’istintiva reazione che lo lascia «con gli occhi sbarrati, esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto». La scena si chiude con Enrico tra i suoi finti Consiglieri segreti che dice: «Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!».
Fausto Maria Martini (La Tribuna, Roma, 18 ottobre 1922), definì la commedia: «La più tipica perché in nessun’altra delle commedie di Pirandello quello che è considerato il leit motiv del suo teatro e della sua poesia tormentata e tormentosa trova uno sviluppo così pieno, armonico, limpido come in questa tragedia: la più alta perché a parere nostro in nessuna delle sue opere precedenti il Pirandello tocca quel vertice di poesia, veramente aereato da una specie di amletica grandezza, che egli tocca nell’indimenticabile scena dell’Enrico IV, nella quale il fosco protagonista della tragedia rivela ai servi la simulazione della sua pazzia».
La «prima» della commedia ebbe luogo al Teatro Manzoni di Milano il 24 febbraio 1922, ad opera della Compagnia di Ruggero Ruggeri.
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