Enrico IV – Atto secondo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

In English – Henry IV
En Español – Enrique IV

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Enrico IV - Atto II
Marcello Mastroianni, Enrico IV, 1984, Film di Marco Bellocchio. Immagine dal Web.

1922
Enrico IV
Atto Secondo

        Altra sala della villa, contigua a quella del trono, addobbata di mobili antichi e austeri. A destra, a circa due palmi dal suolo, è come un coretto, cinto da una ringhiera di legno a pilastrini, interrotta lateralmente e sul davanti, ove sono i due gradini d’accesso. Su questo coretta sarà una tavola e cinque seg­gioloni di stile, uno a capo e due per lato. La comune infondo. A sinistra due finestre che danno sul giardino. A destra un uscio che dà nella sala del trono. Nel pomeriggio avanzato dello stesso giorno.

        Sono in scena Donna Matilde, il Dottore e Tito Belcredi. Seguitano una con­versazione; ma Donna Matilde si tiene appartata, fosca, evidentemente infa­stidita da ciò che dicono gli altri due, a cui tuttavia non può fare a meno di prestare orecchio, perché nello stato d’irrequietezza in cui si trova, ogni cosa la interessa suo malgrado, impedendole di concentrarsi a maturare un propo­sito più forte di lei, che le balena e la tenta. Le parole che ode degli altri due attraggono la sua attenzione, perché istintivamente sente come il bisogno d’esser trattenuta in quel momento.

        BELCREDI: Sarà, sarà come lei dice, caro dottore, ma questa è la mia impres­sione.

        DOTTORE: Non dico di no; ma creda che è soltanto… così, un’impressione.

        BELCREDI: Scusi: però l’ha perfino detto, e chiaramente! (Voltandosi alla Mar­chesa:) Non è vero, Marchesa?

        DONNA MATILDE (frastornata, voltandosi): Che ha detto? (Poi, non consen­tendo:) Ah sì… Ma non per la ragione che voi credete.

        DOTTORE: Intendeva dei nostri abiti soprammessi: il suo manto (indica la Mar­chesa), le nostre tonache da benedettini. E tutto questo è puerile.

        DONNA MATILDE (di scatto, voltandosi di nuovo sdegnata): Puerile? Che dice, dottore?

        DOTTORE: Da un canto, sì! Prego; mi lasci dire, Marchesa. Ma dall’altro, molto più complicato di quanto possiamo immaginare.

        DONNA MATILDE: Per me è chiarissimo, invece.

        DOTTORE (col sorriso di compatimento d’un competente verso gli incompetenti): Eh sì! Bisogna intendere questa speciale psicologia dei pazzi, per cui – guardi – si può essere anche sicuri che un pazzo nota, può notare benissimo un travestimento davanti a lui; e assumerlo come tale; e sissignori, tuttavia, crederci; proprio come fanno i bambini, per cui è insieme giuoco e realtà. Ho detto perciò puerile. Ma è poi complicatissimo in questo senso, ecco: che egli ha, deve avere perfettamente coscienza di essere per sé, davanti a se stesso, una Immagine: quella sua immagine là! (Allude al ritratto nella sala del trono, indicando perciò alla sua sinistra.)

        BELCREDI: L’ha detto!

        DOTTORE: Ecco, benissimo! – Un’immagine, a cui si sono fatte innanzi altre immagini: le nostre, mi spiego? Ora egli, nel suo delirio – acuto e lucidissimo – ha potuto avvertire subito una differenza tra la sua e le nostre: cioè, che c’era in noi, nelle nostre immagini, una finzione. E ne ha diffidato. Tutti i pazzi sono sempre armati d’una continua vigile diffidenza. Ma questo è tutto! A lui naturalmente non è potuto sembrare pietoso questo nostro giuoco, fatto attorno al suo. E il suo a noi s’è mostrato tanto più tragico, quanto più egli, quasi a sfida – mi spiego? – indotto dalla diffidenza, ce l’ha voluto scoprire appunto come un giuoco; anche il suo, sissignori, venendoci avanti con un po’ di tintura sulle tempie e sulle guance, e dicendoci che se l’era data appo­sta, per ridere!

        DONNA MATILDE (scattando di nuovo): No. Non è questo, dottore! Non è questo! non è questo!

        DOTTORE: Ma come non è questo?

        DONNA MATILDE (recisa, vibrante): lo sono sicurissima ch’egli m’ha ricono­sciuta!

        DOTTORE: Non è possibile… non è possibile…

        BELCREDI (contemporaneamente): Ma che!

        DONNA MATILDE (ancora più recisa, quasi convulsa): M’ha riconosciuta, vi dico. Quand’è venuto a parlarmi da vicino, guardandomi negli occhi, proprio dentro gli occhi – m’ha riconosciuta!

        BELCREDI: Ma se parlava di vostra figlia…

        DONNA MATILDE: Non è vero! – Di me! Parlava di me!

        BELCREDI: Sì, forse, quando disse…

        DONNA MATILDE (subito, senza ritegno): Dei miei capelli tinti! Ma non avete no­tato che aggiunse subito: «oppure il ricordo del vostro color bruno, se eravate bruna»? – S’è ricordato perfettamente che io, «allora», ero bruna.

        BELCREDI: Ma che! Ma che!

        DONNA MATILDE (senza dargli retta, rivolgendosi al Dottore): I miei capelli, dottore, sono difatti bruni – come quelli di mia figlia. E perciò s’è messo a parlare di lei!

        BELCREDI: Ma se non la conosce, vostra figlia! Se non l’ha mai veduta!

        DONNA MATILDE: Appunto! Non capite nulla! Per mia figlia intendeva me; me com’ero allora!

        BELCREDI: Ah, questo è contagio! Questo è contagio!

        DONNA MATILDE (piano, con sprezzo): Ma che contagio! Sciocco!

        BELCREDI: Scusate, siete stata mai sua moglie, voi? Vostra figlia, nel suo deli­rio, è sua moglie: Berta di Susa.

        DONNA MATILDE: Ma perfettamente! Perché io, non più bruna – com’egli mi ri­cordava – ma «così», bionda, mi sono presentata a lui come «Adelaide» la madre. – Mia figlia per lui non esiste – non l’ha mai veduta – l’avete detto voi stesso. Che ne sa perciò, se sia bionda o bruna?

        BELCREDI: Ma ha detto bruna, così, in generale, Dio mio! di chi vuol fissare, comunque, sia bionda sia bruna, il ricordo della gioventù nel colore dei ca­pelli! E voi al solito vi mettete a fantasticare! – Dottore, dice che non sarei dovuto venire io – ma non sarebbe dovuta venire lei!

        DONNA MATILDE (abbattuta per un momento dall’osservazione del Belcredi, e rimasta assorta, ora si riprende, ma smaniosa perché dubitante): No… no… parlava di me… Ha parlato sempre a me e con me e di me…

        BELCREDI: Alla grazia! Non m’ha lasciato un momento di respiro, e dite che ha parlato sempre di voi? Tranne che non vi sia parso che alludesse anche a voi, quando parlava con Pietro Damiani!

        DONNA MATILDE (con aria di sfida, quasi rompendo ogni freno di convenienza): E chi lo sa? – Mi sapete dire perché subito, fin dal primo momento, ha sen­tito avversione per voi, soltanto per voi?

        Dal tono della domanda deve risultare infatti, quasi esplicita, la risposta: «Perché ha capito che voi siete il mio amante!» – Il Belcredi lo avverte così bene, che lì per lì resta smarrito in un vano sorriso.

        DOTTORE: La ragione, scusino, può essere anche nel fatto che gli fu annunziata soltanto la visita della Duchessa Adelaide e dell’Abate di Cluny. Trovandosi davanti un terzo, che non gli era stato annunziato, subito la diffidenza…

        BELCREDI: Ecco, benissimo, la diffidenza gli fece vedere in me un nemico: Pie­tro Damiani! – Ma se è intestata, che l’abbia riconosciuta…

        DONNA MATILDE: Su questo non c’è dubbio! – Me l’hanno detto i suoi occhi, dottore: sapete quando si guarda in un modo che… che nessun dubbio è più possibile! Forse fu un attimo, che volete che vi dica?

        DOTTORE: Non è da escludere: un lucido momento…

        DONNA MATILDE: Ecco forse! E allora il suo discorso m’è parso pieno, tutto, del rimpianto della mia e della sua gioventù – per questa cosa orribile che gli è avvenuta, e che l’ha fermato lì, in quella maschera da cui non s’è potuto più distaccare, e da cui si vuole, si vuole distaccare!

        BELCREDI: Già! Per potersi mettere ad amar vostra figlia. O voi, – come credete – intenerito dalla vostra pietà.

        DONNA MATILDE: Che è tanta, vi prego di credere!

        BELCREDI: Si vede, Marchesa! Tanta che un taumaturgo vedrebbe più che pro­babile il miracolo.

        DOTTORE: Permettete che parli io adesso? Io non faccio miracoli, perché sono un medico e non un taumaturgo, io. Sono stato molto attento a tutto ciò che ha detto, e ripeto che quella certa elasticità analogica, propria di ogni delirio sistematizzato, è evidente che in lui è già molto… come vorrei dire? rilassata. Gli elementi, insomma, del suo delirio non si tengono più saldi a vicenda. Mi pare che si riequilibri a stento, ormai, nella sua personalità soprammessa, per bruschi richiami che lo strappano – (e questo è molto confortante) – non da uno stato di incipiente apatia, ma piuttosto da un morbido adagiamento in uno stato di malinconia riflessiva, che dimostra una… sì, veramente conside­revole attività cerebrale. Molto confortante, ripeto. Ora, ecco, se con questo trucco violento che abbiamo concertato…

        DONNA MATILDE (voltandosi verso la finestra, col tono di una malata che si la­menti): Ma com’è che ancora non ritorna quest’automobile? In tre ore e mezzo…

        DOTTORE (stordito): Come dice?

        DONNA MATILDE: Quest’automobile, dottore! Sono più di tre ore e mezzo!

        DOTTORE (cavando e guardando l’orologio): Eh, più di quattro per questo!

        DONNA MATILDE: Potrebbe esser qua da mezz’ora, almeno. Ma, al solito…

        BELCREDI: Forse non trovano l’abito.

        DONNA MATILDE: Ma se ho indicato con precisione dov’è riposto! (È impazien­tissima:) Frida, piuttosto… Dov’è Frida?

        BELCREDI (sporgendosi un po’ dalla finestra): Sarà forse in giardino con Carlo.

        DOTTORE: La persuaderà a vincere la paura…

        BELCREDI: Ma non è paura, dottore; non ci creda! E che si secca.

        DONNA MATILDE: Fatemi il piacere di non pregarla affatto! Io so com’è!

        DOTTORE: Aspettiamo, con pazienza. Tanto, si farà tutto in un momento e dev’esser di sera. Se riusciamo a scrollarlo, dicevo, a spezzare d’un colpo con questo strappo violento i fili già rallentati che lo legano ancora alla sua finzione, ridandogli quello che egli stesso chiede (l’ha detto: «Non si può aver sempre ventisei anni, Madonna!») la liberazione da questa condanna, che pare a lui stesso una condanna: ecco, insomma, se otteniamo che riacqui­sti d’un tratto la sensazione della distanza del tempo…

        BELCREDI (subito): Sarà guarito! (Poi sillabando con intenzione ironica:) Lo distaccheremo!

        DOTTORE: Potremo sperare di riaverlo, come un orologio che si sia arrestato a una cert’ora. Ecco, sì, quasi coi nostri orologi alla mano, aspettare che si ri­faccia quell’ora – là, uno scrollo! – e speriamo che esso si rimetta a segnare il suo tempo, dopo un così lungo arresto.

        Entra a questo punto dalla comune il marchese Carlo Di Nolli.

        DONNA MATILDE: Ah, Carlo… E Frida? Dove se n’è andata?

        DI NOLLI: Eccola, viene a momenti.

        DOTTORE: L’automobile è arrivata?

        DI NOLLI: Sì.

        DONNA MATILDE: Ah sì? E ha portato l’abito?

        DI NOLLI: È già qui da un pezzo.

        DOTTORE: Oh, benissimo, allora!

        DONNA MATILDE (fremente): E dov’è? Dov’è?

        DI NOLLI (stringendosi nelle spalle e sorridendo triste, come uno che si presti mal volentieri a uno scherzo fuor di luogo): Mah… Ora vedrete… (E indi­cando verso la comune:) Ecco qua… Si presenta sulla soglia della comune Bertoldo che annuncia con solennità:

        BERTOLDO: Sua Altezza la Marchesa Matilde di Canossa! E subito entra Frida magnifica e bellissima; parata con l’antico abito della madre da «Marchesa Matilde di Toscana» in modo da figurare, viva, l’im­magine effigiata nel ritratto della sala del trono.

        FRIDA (passando accanto a Bertoldo che s’inchina, gli dice con sussiego sprezzante): Di Toscana, di Toscana, prego. Canossa è un mio castello.

        BELCREDI (ammirandola): Ma guarda! Ma guarda! Pare un’altra!

        DONNA MATILDE: Pare me! – Dio mio, vedete? – Ferma, Frida! – Vedete? È proprio il mio ritratto, vivo!

        DOTTORE: Sì, sì… Perfetto! Perfetto! Il ritratto!

        BELCREDI: Eh sì, c’è poco da dire… È quello! Guarda, guarda! Che tipo!

        FRIDA: Non mi fate ridere, che scoppio! Dico, ma che vitino avevi, mamma? Mi son dovuta succhiare tutta, per entrarci!

        DONNA MATILDE (convulsa, rassettandola): Aspetta… Ferma… Queste pieghe… Ti va così stretto veramente?

        FRIDA: Soffoco! Bisognerà far presto, per carità…

        DOTTORE: Eh, ma dobbiamo prima aspettare che si faccia sera…

        FRIDA: No no, non ci resisto, non ci resisto fino a sera!

        DONNA MATILDE: Ma perché te lo sei indossato così subito?

        FRIDA: Appena l’ho visto! La tentazione! Irresistibile…

        DONNA MATILDE: Potevi almeno chiamarmi! Farti ajutare… È ancora tutto spie­gazzato, Dio mio…

        FRIDA: Ho visto, mamma. Ma, pieghe vecchie… Sarà difficile farle andar via.

        DOTTORE: Non importa, Marchesa! L’illusione è perfetta. (Poi, accostandosi e invitandola a venire un po’ avanti alla figlia, senza tuttavia coprirla:) Con permesso. Si collochi così – qua – a una certa distanza – un po’ più avanti…

        BELCREDI: Per la sensazione della distanza del tempo!

        DONNA MATILDE (voltandosi a lui, appena): Vent’anni dopo! Un disastro, eh?

        BELCREDI: Non esageriamo!

        DOTTORE (imbarazzatissimoper rimediare): No, no! Dicevo anche… dico, dico per l’abito… dico per vedere…

        BELCREDI (ridendo): Ma per l’abito, dottore, altro che vent’anni! Sono otto­cento! Un abisso! Glielo vuol far saltare davvero con un urtone? (Indicando prima Frida e poi la Marchesa:) Da lì a qua? Ma lo raccatterà a pezzi col corbello! Signori miei, pensateci; dico sul serio: per noi sono vent’anni, due abiti e una mascherata. Ma se per lui, come lei dice, dottore, s’è fissato il tempo; se egli vive là (indica Frida) con lei, ottocent’anni addietro: dico sarà tale la vertigine del salto che, piombato in mezzo a noi… (il Dottore fa segno di no col dito) dice di no?

        DOTTORE: No. Perché la vita, caro barone, riprende! Qua – questa nostra – di­venterà subito reale anche per lui; e lo tratterrà subito, strappandogli a un tratto l’illusione e scoprendogli che sono appena venti gli ottocent’anni che lei dice! Sarà, guardi, come certi trucchi, quello del salto nel vuoto, per esempio, del rito massonico, che pare chi sa che cosa, e poi alla fine s’è sceso uno scalino.

        BELCREDI: Oh che scoperta! – Ma sì! – Guardate Frida e la Marchesa, dottore! – Chi è più avanti? – Noi vecchi, dottore! Si credono più avanti i giovani; non è vero: siamo più avanti noi, di quanto il tempo è più nostro che loro.

        DOTTORE: Eh, se il passato non ci allontanasse!

        BELCREDI: Ma no! Da che? Se loro (indica Frida e Di Nolli) debbono fare an­cora quel che abbiamo già fatto noi, dottore: invecchiare, rifacendo su per giù le stesse nostre sciocchezze… L’illusione è questa, che si esca per una porta davanti, dalla vita! Non è vero! Se appena si nasce si comincia a morire, chi per prima ha cominciato è più avanti di tutti. E il più giovine è il padre Adamo! Guardate là (mostra Frida) d’ottocent’anni più giovane di tutti noi, la Marchesa Matilde di Toscana. (E le si inchina profondamente.)

        DI NOLLI: Ti prego, ti prego, Tito: non scherziamo.

        BELCREDI: Ah, se ti pare che io scherzi…

        DI NOLLI: Ma sì, Dio mio… da che sei venuto…

        BELCREDI: Come! Mi sono perfino vestito da benedettino…

        DI NOLLI: Già! Per fare una cosa seria…

        BELCREDI: Eh, dico… se è stato serio per gli altri… ecco, per Frida, ora, per esempio… (Poi, voltandosi al Dottore:) Le giuro, dottore, che non capisco ancora che cosa lei voglia fare.

        DOTTORE (seccato): Ma lo vedrà! Mi lasci fare… Sfido! Se lei vede la Marchesa ancora vestita così…

        BELCREDI: Ah, perché deve anche lei…?

        DOTTORE: Sicuro! Sicuro! Con un altro abito che è di là, per quando a lui viene in mente di trovarsi davanti alla Marchesa Matilde di Canossa…

        FRIDA (mentre conversa piano col Di Nolli, avvertendo che il Dottore sbaglia): Di Toscana! Di Toscana!

        DOTTORE (c.s.): Ma è lo stesso!

        BELCREDI: Ah, ho capito! Se ne troverà davanti due…?

        DOTTORE: Due, precisamente. E allora…

        FRIDA (chiamandolo in disparte): Venga qua, dottore, senta!

        DOTTORE: Eccomi! (Si accosta ai due giovani e finge di dar loro spiegazioni.)

        BELCREDI (piano, a Donna Matilde): Eh, per Dio! Ma dunque…

        DONNA MATILDE (rivoltandosi con viso fermo): Che cosa?

        BELCREDI: V’interessa tanto veramente? Tanto da prestarvi a questo? È enorme per una donna!

        DONNA MATILDE: Per una donna qualunque!

        BELCREDI: Ah no, per tutte, cara, su questo punto! È una abnegazione…

        DONNA MATILDE: Gliela devo!

        BELCREDI: Ma non mentite! Voi sapete di non avvilirvi.

        DONNA MATILDE: E allora? Che abnegazione?

        BELCREDI: Quanto basta per non avvilire voi agli occhi degli altri, ma per of­fendere me.

        DONNA MATILDE: Ma chi pensa a voi in questo momento!

        DI NOLLI (venendo avanti): Ecco, ecco, dunque, sì, sì, faremo così… (Rivolgen­dosi a Bertoldo:) Oh, voi: andate a chiamare uno di quei tre là’

        BERTOLDO: Subito! (Esce per la comune.)

        DONNA MATILDE: Ma dobbiamo fingere prima di licenziarci!

        DI NOLLI: Appunto! Lo faccio chiamare per predisporre il vostro licenziamento. (A Belcredi:) Tu puoi farne a meno: resta qua!

        BELCREDI (tentennando il capo ironicamente): Ma sì, ne faccio a meno… ne faccio a meno…

        DI NOLLI: Anche per non metterlo di nuovo in diffidenza, capisci?

        BELCREDI: Ma sì! Quantité négligeable!

        DOTTORE: Bisogna dargli assolutamente, assolutamente la certezza che ce ne siamo andati via. (Entra dall’uscio a destra Landolfo seguito da Bertoldo.)

        LANDOLFO: Permesso?

        DI NOLLI: Avanti, avanti! Ecco… – Vi chiamate Lolo, voi?

        LANDOLFO: Lolo o Landolfo, come vuole!

        DI NOLLI: Bene, guardate. Adesso il dottore e la Marchesa si licenzieranno…

        LANDOLFO: Benissimo. Basterà dire che hanno ottenuto dal Pontefice la grazia del ricevimento. E lì nelle sue stanze, che geme pentito di tutto ciò che ha detto, e disperato che la grazia non l’otterrà. Se vogliono favorire… Avranno la pazienza di indossare di nuovo gli abiti…

        DOTTORE: Sì, sì, andiamo, andiamo…

        LANDOLFO: Aspettino. Mi permetto di suggerir loro una cosa: d’aggiungere che anche la Marchesa Matilde di Toscana ha implorato con loro dal Pontefice la grazia, che sia ricevuto.

        DONNA MATILDE: Ecco! Vedete se m’ha riconosciuta?

        LANDOLFO: No. Mi perdoni. È che teme tanto l’avversione di quella Marchesa che ospitò il Papa nel suo Castello. È strano: nella storia, che io sappia – ma lor signori sono certo in grado di saperlo meglio di me – non è detto, è vero, che Enrico IV amasse segretamente la marchesa di Toscana?

        DONNA MATILDE (subito): No: affatto. Non è detto! Anzi, tutt’altro!

        LANDOLFO: Ecco, mi pareva! Ma egli dice d’averla amata. – lo dice sempre… – E ora teme che lo sdegno di lei per questo amore segreto debba agire a suo danno sull’animo del Pontefice.

        BELCREDI: Bisogna fargli intendere che questa avversione non c’è più!

        LANDOLFO: Ecco! Benissimo!

        DONNA MATILDE (a Landolfo): Benissimo, già! (Poi, a Belcredi:) Perché è pre­cisamente detto nella storia, se voi non lo sapete, che il Papa si arrese proprio alle preghiere della Marchesa Matilde e dell’Abate di Cluny. E io vi so dire, caro Belcredi, che allora – quando si fece la cavalcata – intendevo appunto avvalermi di questo per dimostrargli che il mio animo non gli era più tanto nemico, quanto egli si immaginava.

        BELCREDI: Ma allora, a meraviglia, cara Marchesa! Seguite, seguite la storia…

        LANDOLFO: Ecco. Senz’altro, allora, la signora potrebbe risparmiarsi un doppio travestimento e presentarsi con Monsignore (indica il Dottore) sotto le vesti di Marchesa di Toscana.

        DOTTORE (subito, con forza): No no! Questo no, per carità! Rovinerebbe tutto! L’impressione del confronto dev’esser subitanea, di colpo. No, no. Marchesa, andiamo, andiamo: lei si presenterà di nuovo come la duchessa Adelaide, madre dell’Imperatrice. E ci licenzieremo. Questo è soprattutto necessario: che egli sappia che ce ne siamo andati. Su, su: non perdiamo altro tempo, che ci resta ancora tanto da preparare. Via il Dottore, Donna Matilde e Landolfo per l’uscio di destra.

        FRIDA: Ma io comincio ad aver di nuovo una gran paura…

        DI NOLLI: Daccapo, Frida?

        FRIDA: Era meglio, se lo vedevo prima…

        DI NOLLI: Ma credi che non ce n’è proprio di che!

        FRIDA: Non è furioso?

        DI NOLLI: Ma no! È tranquillo.

        BELCREDI (con ironica affettazione sentimentale): Malinconico! Non hai sentito che ti ama?

        FRIDA: Grazie tante! Giusto per questo!

        BELCREDI: Non ti vorrà far male…

        DI NOLLI: Ma sarà poi l’affare d’un momento…

        FRIDA: Già, ma là al bujo! con lui…

        DI NOLLI: Per un solo momento, e io ti sarò accanto e gli altri saranno tutti die­tro le porte, in agguato, pronti ad accorrere. Appena si vedrà davanti tua madre, capisci? per te, la tua parte sarà finita…

        BELCREDI: Il mio timore, piuttosto, è un altro: che si farà un buco nell’acqua.

        DI NOLLI: Non cominciare! A me il rimedio pare efficacissimo!

        FRIDA: Anche a me, anche a me! Già lo avverto in me… Sono tutta un fremito!

        BELCREDI: Ma i pazzi, cari miei – (non lo sanno, purtroppo!) – ma hanno que­sta felicità di cui non teniamo conto…

        DI NOLLI (interrompendo, seccato): Ma che felicità, adesso! Fa’ il piacere!

        BELCREDI (con forza): Non ragionano!

        DI NOLLI: Ma che c’entra qua il ragionamento, scusa?

        BELCREDI: Come! Non ti pare tutto un ragionamento che – secondo noi – egli dovrebbe fare, vedendo lei, (indica Frida) e vedendo sua madre? Ma lo ab­biamo architettato noi tutto quanto!

        DI NOLLI: No, niente affatto: che ragionamento? Gli presentiamo una doppia immagine della sua stessa finzione, come ha detto il dottore!

        BELCREDI (con uno scatto improvviso): Senti: io non ho mai capito perché si laureino in medicina!

        DI NOLLI (stordito): Chi?

        BELCREDI: Gli alienisti.

        DI NOLLI: Oh bella, e in che vuoi che si laureino?

        FRIDA: Se fanno gli alienisti!

        BELCREDI: Appunto! In legge, cara! Tutte chiacchiere! E chi più sa chiacchie­rare, più è bravo! «Elasticità analogica», «la sensazione della distanza del tempo!». E intanto la prima cosa che dicono è che non fanno miracoli – quando ci vorrebbe proprio un miracolo! Ma sanno che più ti dicono che non sono taumaturghi, e più gli altri credono alla loro serietà – non fanno miracoli – e cascano sempre in piedi, che è una bellezza!

        BERTOLDO (che se ne è stato a spiare dietro l’uscio a destra, guardando attra­verso il buco della serratura): Eccoli! Eccoli! Accennano a venire qua…

        DI NOLLI: Ah sì?

        BERTOLDO: Pare che egli li voglia accompagnare… Sì, sì, eccolo, eccolo!

        DI NOLLI: Ritiriamoci allora! Ritiriamoci subito! (Voltandosi a Bertoldo prima di uscire:) Voi restate qua!

        BERTOLDO: Debbo restare?

        Senza dargli risposta, Di Nolli, Frida e Belcredi scappano per la comune, la­sciando Bertoldo sospeso e smarrito. S’apre l’uscio a destra e Landolfo entra per primo, subito inchinandosi, entrano poi Donna Matilde col manto e la corona ducale, come nel primo atto e il Dottore con la tonaca di Abate di Cluny; Enrico IV è fra loro, in abito regale; entrano infine Ordulfo e Arialdo.

        ENRICO IV (seguitando il discorso che si suppone cominciato nella sala del trono): E io vi domando, come potrei essere astuto, se poi mi credono capar­bio….

        DOTTORE: Ma no, che caparbio, per carità!

        ENRICO IV (sorridendo, compiaciuto): Sarei per voi allora veramente astuto?

        DOTTORE: No, no, né caparbio, né astuto!

        ENRICO IV (si ferma ed esclama col tono di chi vuol far notare benevolmente, ma anche ironicamente, che così non può stare): Monsignore! Se la capar­bietà non è vizio che possa accompagnarsi con l’astuzia, speravo che, negan­domela, almeno un po’ d’astuzia me la voleste concedere. V’assicuro che mi è molto necessaria! Ma se voi ve la volete tenere tutta per voi…

        DOTTORE: Ah, come, io? Vi sembro astuto?

        ENRICO IV: No, Monsignore! Che dite! Non sembrate affatto! (Troncando per rivolgersi a Donna Matilde:) Con permesso: qua sulla soglia, una parola in confidenza a Madonna la Duchessa. (La conduce un po’ in disparte e le do­manda con ansia in gran segreto:) Vostra figlia vi è cara veramente?

        DONNA MATILDE (smarrita): Ma sì, certo…

        ENRICO IV: E volete che la ricompensi con tutto il mio amore, con tutta la mia devozione dei gravi torti che ho verso di lei, benché non dobbiate credere alle dissolutezze di cui m’accusano i miei nemici?

        DONNA MATILDE: No no: io non ci credo: non ci ho mai creduto…

        ENRICO IV: Ebbene, allora, volete?

        DONNA MATILDE (c.s.): Che cosa?

        ENRICO IV: Che io ritorni all’amore di vostra figlia? (La guarda, e aggiunge su­bito in tono misterioso, d’ammonimento e di sgomento insieme:) Non siate amica, non siate amica della Marchesa di Toscana!

        DONNA MATILDE: Eppure vi ripeto che ella non ha pregato, non ha scongiurato meno di noi per ottenere la vostra grazia…

        ENRICO IV (subito, piano, fremente): Non me lo dite! Non me lo dite! Ma perdio, Madonna, non vedete che effetto mi fa?

        DONNA MATILDE (lo guarda, poi pianissimo, come confidandosi): Voi l’amate ancora?

        ENRICO IV (sbigottito): Ancora? Come dite ancora? Voi forse, sapete? Nessuno lo sa! Nessuno deve saperlo!

        DONNA MATILDE: Ma forse lei sì, lo sa, se ha tanto implorato per voi!

        ENRICO IV (la guarda un po’ e poi dice): E amate la vostra figliuola? (Breve pausa. Si volge al Dottore con un tono di riso:) Ah, Monsignore, come è vero che questa mia moglie io ho saputo d’averla soltanto dopo – tardi, tardi… E anche adesso: sì, devo averla; non c’è dubbio che l’ho – ma vi po­trei giurare che non ci penso quasi mai. Sarà peccato, ma non la sento; pro­prio non me la sento nel cuore. È meraviglioso però, che non se la senta nel cuore neanche sua madre! Confessate, Madonna, che ben poco v’importa di lei! (Volgendosi al Dottore, con esasperazione:) Mi parla dell’altra! (Ed ecci­tandosi sempre più:) Con un’insistenza, con un’insistenza che non riesco proprio a spiegarmi.

        LANDOLFO (umile): Forse per levarvi, Maestà, un’opinione contraria che abbiate potuto concepire della Marchesa di Toscana. (E sgomento di essersi permesso questa osservazione, aggiunge subito:) Dico, beninteso, in questo momento…

        ENRICO IV: Perché anche tu sostieni che mi sia stata amica?

        LANDOLFO: Sì, in questo momento, sì, Maestà!

        DONNA MATILDE: Ecco, sì, proprio per questo…

        ENRICO IV: Ho capito. Vuol dire allora che non credete che io la ami. Ho capito. Ho capito. Non l’ha mai creduto nessuno; nessuno mai sospettato. Tanto meglio così! Basta. Basta. (Tronca, rivolgendosi al Dottore con animo e viso del tutto diversi:) Monsignore, avete veduto? Le condizioni da cui il Papa ha fatto dipen­dere la revoca della scomunica non han nulla, ma proprio nulla da vedere con la ragione per cui mi aveva scomunicato ! Dite a Papa Gregorio che ci rivedremo a Bressanone. E voi, Madonna, se avrete la fortuna d’incontrare la vostra figliuola giù nel cortile del castello della vostra amica Marchesa, che volete che vi dica? fatela salire; vedremo se mi riuscirà di tenermela stretta accanto, moglie e Impe­ratrice. Molte fin qui si son presentate, assicurandomi, assicurandomi d’esser lei – quella che io, sapendo di averla… sì, ho pur cercato qualche volta – (non è ver­gogna: mia moglie!) – Ma tutte, dicendomi d’essere Berta, dicendomi d’esser di Susa – non so perché – si sono messe a ridere! (Come in confidenza:) Capite? – a letto – io senza quest’abito – lei anche… sì, Dio mio, senz’abiti… un uomo e una donna… è naturale!… Non si pensa più a ciò che siamo. L’abito, appeso, resta come un fantasma! (E con altro tono, in confidenza al Dottore:) E io penso, Monsignore, che i fantasmi, in generale, non siano altro in fondo che pic­cole scombinazioni dello spirito: immagini che non si riesce a contenere nei regni del sonno: si scoprono anche nella veglia, di giorno; e fanno paura. Io ho sempre tanta paura, quando di notte me le vedo davanti – tante immagini scom­pigliate, che ridono, smontate da cavallo. – Ho paura talvolta anche del mio san­gue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane… Basta, vi ho trattenuto anche troppo qui in piedi. Vi ossequio, Madonna; e vi riverisco, Monsignore. (Davanti alla soglia della comune, fin dove li ha accompagnati, li licenzia, ricevendone l’inchino. Donna Matilde e il Dottore, via. Egli richiude la porta e si volta subito, cangiato. ) Buffoni ! Buffoni ! Buffoni! – Un pianoforte di colori! Appena la toccavo: bianca, rossa, gialla, verde… E quell’altro là: Pietro Damiani. – Ah! Ah! Perfetto! Azzeccato! – S’è spaventato di ricomparirmi davanti ! (Dirà questo con gaja prorompente frenesia, movendo di qua, di là i passi, gli occhi, finché all’improvviso non vede Bertoldo, più che sbalordito, impaurito del repentino cambiamento. Gli si arresta davanti e additandolo ai tre compagni anch’essi come smarriti nello sbalordimento:) Ma guardatemi quest’imbecille qua, ora, che sta a mirarmi a bocca aperta… (Lo scrolla per le spalle.) Non capisci? Non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti, buffoni spaventati ! E si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro addosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di fare il pazzo!

        LANDOLFO ARIALDO ORDULFO (sconvolti, trasecolati, guardandosi tra loro): Come! Che dice? Ma dunque?

        ENRICO IV (si volta subito alle loro esclamazioni e grida, imperioso): Basta! Fi­niamola! Mi sono seccato! (Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:) Perdio, l’impudenza di presentarsi qua, a me, ora – col suo ganzo accanto… – E avevano l’aria di prestarsi per compas­sione, per non fare infuriare un poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita! – Eh, altrimenti quello là, ma figuratevi se l’avrebbe subita una simile sopraffazione! – Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! – Che! Che! – È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra! Misero, labile, incerto… E quelli ne ap­profittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e ve­diate come loro! O almeno, si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: «pazzo!» – Per esempio, che so? – «imbecille!» – Ma dite un po’, si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? – «Pazzo» «pazzo»! – Non dico ora che lo faccio per ischerzo! Prima, prima che battessi la testa cadendo da cavallo… (S’arresta d’un tratto, notando ì quattro che si agitano, più che mai sgomenti e sbalorditi.) Vi guardate negli occhi? (Rifa smorfiosamente i segni del loro stupore.) Ah! Eh! Che rivela­zione? – Sono o non sono? – Eh via, sì, sono pazzo! (Si fa terribile.) Ma al­lora, perdio, inginocchiatevi! inginocchiatevi! (Li forza a inginocchiarsi tutti a uno a uno:) Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me – così! E toccate tre volte la terra con la fronte! Giù! Tutti, davanti ai pazzi, si deve stare così! (Alla vista dei quattro inginocchiati si sente subito svaporare la feroce ga­iezza, e se ne sdegna.) Su, via, pecore, alzatevi! – M’avete obbedito? Potevate mettermi la camicia di forza… – Schiacciare uno col peso d’una parola? Ma è niente! Che è? Una mosca! – Tutta la vita è schiacciata così dal peso delle pa­role! Il peso dei morti! – Eccomi qua: potete credere sul serio che Enrico IV sia ancora vivo? Eppure, ecco, parlo e comando a voi vivi. Vi voglio così! – Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? – Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è da­vanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti – voi dite – lo faremo noi! – Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti ! (Si para davanti a Bertoldo, ormai istupidito. ) Non capisci proprio nulla, tu, eh? – Come ti chiami?

        BERTOLDO: Io?… Eh… Bertoldo…

        ENRICO IV: Ma che Bertoldo, sciocco! Qua a quattr’occhi: come ti chiami?

        BERTOLDO: Ve… veramente mi… mi chiamo Fino…

        ENRICO IV (a un atto di richiamo e di ammonimento degli altri tre, appena ac­cennato, voltandosi subito per farli tacere): Fino?

        BERTOLDO: Fino Pagliuca, sissignore.

        ENRICO IV (volgendosi di nuovo agli altri): Ma se vi ho sentito chiamare tra voi, tante volte! (A Landolfo:) Tu ti chiami Lolo?

        LANDOLFO: Sissignore… (Poi con uno scatto di gioja:) Oh Dio… Ma allora?

        ENRICO IV (subito, brusco): Che cosa?

        LANDOLFO (d’un tratto smorendo): No… dico…

        ENRICO IV: Non sono più pazzo? Ma no! Non mi vedete? – Scherziamo alle spalle di chi ci crede. (Ad Ar laido:) So che tu ti chiami Franco… (A Ordulfo:) E tu, aspetta…

        ORDULFO: Momo!

        ENRICO IV: Ecco, Momo! Che bella cosa, eh?

        LANDOLFO (c.s.): Ma dunque… oh Dio…

        ENRICO IV (c.s.): Che? Niente! Facciamoci tra noi una bella, lunga, grande ri­sata… (E ride.) Ah, ah, ah, ah, ah, ah!

        LANDOLFO ARIALDO ORDULFO (guardandosi tra loro, incerti, smarriti, tra la gioja e lo sgomento): È guarito? Ma sarà vero? Com’è?

        ENRICO IV: Zitti! Zitti! (A Bertoldo:) Tu non ridi? Sei ancora offeso? Ma no! Non dicevo mica a te, sai? – Conviene a tutti, capisci? conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resi­ste a sentirli parlare. Che dico io di quelli là che se ne sono andati? Che una è una baldracca, l’altro un sudicio libertino, l’altro un impostore… Non è vero! Nessuno può crederlo! – Ma tutti stanno ad ascoltarmi, spaventati. Ecco, vorrei sapere perché, se non è vero. – Non si può mica credere a quel che dicono i pazzi! – Eppure, si stanno ad ascoltare così, con gli occhi sbarrati dallo spa­vento. – Perché? – Dimmi, dimmi tu, perché? Sono calmo, vedi?

        BERTOLDO: Ma perché… forse, credono che…

        ENRICO IV: No, caro… no, caro… Guardami bene negli occhi… – Non dico che sia vero, stai tranquillo! – Niente è vero! – Ma guardami negli occhi!

        BERTOLDO: Sì, ecco, ebbene?

        ENRICO IV: Ma lo vedi? lo vedi? Tu stesso! Lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi! – Perché ti sto sembrando pazzo! – Ecco la prova! Ecco la prova! (E ride.)

        LANDOLFO (a nome degli altri, facendosi coraggio, esasperato): Ma che prova?

        ENRICO IV: Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – È vero o no? (Li guarda un po’, li vede atterriti.) Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi. scrolla dalle fonda­menta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite: «questo non può essere!» – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te, a te (indica tre di loro), a centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…

        Pausa lungamente tenuta. L’ombra, nella sala, comincia ad addensarsi, ac­crescendo quel senso di smarrimento e di più profonda costernazione da cui quei quattro mascherati sono compresi e sempre più allontanati dal grande Mascherato, rimasto assorto a contemplare una spaventosa miseria che non è di lui solo, ma di tutti. Poi egli si riscuote, fa come per cercare i quattro che non sente più attorno a sé e dice: S’è fatto bujo, qua.

        ORDULFO (subito, facendosi avanti): Vuole che vada a prendere la lampa?

        ENRICO IV (con ironia): La lampa, sì… Credete che non sappia che, appena volto le spalle con la mia lampa ad olio per andare a dormire, accendete la luce elet­trica per voi – qua e anche là nella sala del trono? – Fingo di non vederla…

        ORDULFO: Ah! – Vuole allora…?

        ENRICO IV: No: m’accecherebbe. – Voglio la mia lampa.

        ORDULFO: Ecco, sarà già pronta, qua dietro la porta. (Si reca alla comune; la apre; ne esce appena e subito ritorna con una lampa antica, di quelle che si reggono con un anello in cima.)

        ENRICO IV (prendendo la lampa e poi indicando la tavola sul coretto): Ecco, un po’ di luce. Sedete, lì attorno alla tavola. Ma non così! In belli e sciolti atteggiamenti… (Ad Arialdo:) Ecco, tu così… (lo atteggia, poi a Bertoldo:) E tu così… (lo atteggia) Così ecco… (Va a sedere anche lui.) E io, qua… (Vol­gendo il capo verso una delle finestre:) Si dovrebbe poter comandare alla luna un bel raggio decorativo… Giova, a noi, giova, la luna. Io per me, ne sento il bisogno, e mi ci perdo spesso a guardarla dalla mia finestra. Chi può credere, a guardarla, che lo sappia che ottocent’anni siano passati e che io, seduto alla finestra non possa essere davvero Enrico IV che guarda la luna, come un pover’uomo qualunque? Ma guardate, guardate che magnifico qua­dro notturno: l’Imperatore tra i suoi fidi consiglieri… Non ci provate gusto?

        LANDOLFO (piano ad Arialdo, come per non rompere l’incanto): Eh, capisci? A sapere che non era vero…

        ENRICO IV: Vero, che cosa?

        LANDOLFO (titubante, come per scusarsi): No… ecco… perché a lui (indica Bertoldo) entrato nuovo in servizio… io, appunto questa mattina, dicevo: Peccato, che così vestiti… e poi con tanti bei costumi, là in guardaroba… e con una sala come quella… (accenna alla sala del trono.)

        ENRICO IV: Ebbene? Peccato, dici?

        LANDOLFO: Già… che non sapevamo…

        ENRICO IV: Di rappresentarla per burla, qua, questa commedia?

        LANDOLFO: Perché credevamo che…

        ARIALDO (per venirgli in ajuto): Ecco… sì, che fosse sul serio!

        ENRICO IV: E com’è? Vi pare che non sia sul serio?

        LANDOLFO: Eh, se dice che…

        ENRICO IV: Dico che siete sciocchi! Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’in­ganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nes­suno, (a Bertoldo, prendendolo per le braccia:) per te, capisci, che in questa tua finzione ci potevi mangiare, dormire, e grattarti anche una spalla, se ti sen­tivi un prurito; (rivolgendosi anche agli altri:) sentendovi vivi, Vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro Imperatore Enrico IV! E pensare, da qui, da questo nostro tempo remoto, così colorito e sepolcrale, pen­sare che a una distanza di otto secoli in giù, in giù, gli uomini del mille e nove­cento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolo­rose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare. Il piacere, il piacere della sto­ria, insomma, che è così grande!

        LANDOLFO: Ah, bello! bello!

        ENRICO IV: Bello, ma basta! Ora che lo sapete, non potrei farlo più io! (Prende la lampa per andare a dormire.) Né del resto voi stessi, se non ne avete in­teso finora la ragione. Ne ho la nausea adesso! (Quasi tra sé, con violenta rabbia contenuta:) Perdio! debbo farla pentire d’esser venuta qua! Da suo­cera oh, mi s’è mascherata… E lui da padre abate… – E mi portano con loro un medico per farmi studiare… E chi sa che non sperino di farmi guarire… Buffoni! – Voglio avere il gusto di schiaffeggiargliene almeno uno: quello! – È un famoso spadaccino? M’infilzerà… Ma vedremo, vedremo… (Si sente picchiare alla comune.) Chi è?

        VOCE DI GIOVANNI: Deo gratias!

        ARIALDO (contentissimo, come per uno scherzo che si potrebbe ancora fare): Ah, è Giovanni, è Giovanni, che viene come ogni sera a fare il monacello!

        ORDULFO (c.s., stropicciandosi le mani): Sì, sì, facciamoglielo fare! facciamo­glielo fare!

        ENRICO IV (subito, severo): Sciocco! Lo vedi? Perché? Per fare uno scherzo alle spalle di un povero vecchio, che lo fa per amor mio?

        LANDOLFO (a Ordulfo): Dev’essere come vero! Non capisci?

        ENRICO IV: Appunto! Come vero! Perché solo così non è più una burla la ve­rità! (Si reca ad aprire la porta e fa entrare Giovanni parato da umile frati­cello, con un rotolo di cartapecora sotto il braccio.) Avanti, avanti, padre! (Poi assumendo un tono di tragica gravità e di cupo risentimento:) Tutti i documenti della mia vita e del mio regno a me favorevoli furono distrutti, deliberatamente, dai miei nemici: c’è solo, sfuggita alla distruzione, questa mia vita scritta da un umile monacello a me devoto, e voi vorreste riderne? (Si rivolge amorosamente a Giovanni e lo invita a sedere davanti alla ta­vola:) Sedete, padre, sedete qua. E la lampa accanto. (Gli posa accanto la lampa che ha ancora in mano.) Scrivete, scrivete.

        GIOVANNI (svolge il rotolo di cartapecora, e si dispone a scrivere sotto detta­tura): Eccomi pronto, Maestà!

        ENRICO IV (dettando): Il decreto di pace emanato a Magonza giovò ai me­schini ed ai buoni, quanto nocque ai cattivi e ai potenti.

        Comincia a calare la tela.

        Apportò dovizie ai primi, fame e miseria ai secondi…

Tela

1922 – Enrico IV – Tragedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

In English – Henry IV
En Español – Enrique IV

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