Legge Giuseppe Tizza.
«Era rimasta intatta a lui, qua, la casa maritale: solo dalla camera aveva tolto il letto a due, o meglio, aveva staccato e fatto portar via quello de’ due lettini gemelli d’ottone, su cui aveva dormito la moglie. Ma anch’ella, la Zorzi, aveva di là la sua casa maritale in pieno assetto.»
Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 3 gennaio 1909, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.
Due letti a due
Voce di Giuseppe Tizza
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Nella prima visita alla tomba del marito, la vedova Zorzi, in fittissime gramaglie, fu accompagnata dall’avvocato Gàttica-Mei, vecchio amico del defunto, vedovo anch’egli da tre anni.
Le lenti cerchiate d’oro, con un laccetto pur d’oro che, passando sopra l’orecchio, gli scendeva su la spalla e s’appuntava sotto il bavero della «redingote» irreprensibile; la gran bazza rasa con cura e lucente; i capelli forse troppo neri, ricciuti, divisi dalla scriminatura fino alla nuca e allargati poi a ventaglio dietro gli orecchi; le spalle alte, la rigidità del collo, davano al contegno dell’avvocato Gàttica-Mei quella gravità austera e solenne, appropriata al luttuoso momento, e lo facevano apparire come impalato nel cordoglio.
Scese per primo dalla tranvia di San Lorenzo e, impostandosi quasi militarmente, alzò una mano per ajutare la vedova Zorzi a smontare.
Recavano entrambi, l’una per il marito, l’altro per la moglie, due grossi mazzi di fiori.
Ma la Zorzi, oltre il mazzo, nello smontare, doveva reggere la veste e, impedita dal lungo crespo vedovile che le nascondeva il volto, non vedeva dove mettere i piedi, non vedeva la mano guantata di nero che l’avvocato le porgeva e di cui ella, del resto, non avrebbe potuto valersi. Per poco non gli traboccò addosso, giù tutta in un fascio.
– Stupido! Non vedevi? Con le mani impicciate… – fischiò allora tra i denti, furiosa, la Zorzi, sotto il lunghissimo velo.
– Se ti porgevo la mano… – si scusò egli, mortificato, senza guardarla. – Non hai visto tu!
– Zitto. Basta. Per dove?
– Ecco, di qua…
E ricomposti, diritti e duri, ciascuno col suo mazzo di fiori in mano, si diressero verso il Pincetto.
Là, tre anni addietro, il Gàttica-Mei aveva fatto costruire per la moglie e per sé una gentilizia a due nicchie, una accanto all’altra, chiuse da due belle lapidi un po’ rialzate da capo, con due colonnine che reggevano ciascuna una lampada; il tutto cinto da fiori e da una roccia di lava artificiale.
Il povero Zorzi, amico suo e della defunta, l’aveva tanto ammirata, questa gentilizia, l’anno avanti, nella ricorrenza della festa dei morti!
– Uh, bella! Pare un letto a due! Bella! bella!
E quasi presago della prossima fine, aveva voluto farne costruire un’altra tal quale, subito subito, per sé e per la moglie, poco discosto. Un letto a due, precisamente! E difatti il Gàttica-Mei, uomo in tutto preciso, aveva allogato la moglie defunta nella nicchietta a sinistra, perché egli poi, a suo tempo, giacendo, avesse potuto darle la destra, proprio come nel letto matrimoniale.
Su la lapide aveva fatto incidere quest’epigrafe, anch’essa tanto lodata dallo Zorzi, buon’anima, per la semplicità commovente:
QUI MARGHERITA GÀTTICA-MEI
MOGLIE ESEMPLARE
MANCATA AI VIVI ADDÌ XV MAG. MCMII
ASPETTA IN PACE
LO SPOSO
Per sé il Gàttica-Mei aveva poi preparato un’altra epigrafe, che un giorno avrebbe figurato bellamente su la lapide accanto, degno complemento della prima. Diceva infatti questa epigrafe, che l’avvocato Anton Maria Gàttica-Mei, non già, al solito, qui giace oppure morì ecc., ecc.; ma addì (puntini in fila) dell’anno (puntini in fila) raggiunse la SPOSA.
E quasi quasi, nel comporre l’epigrafe, avrebbe voluto saper la data precisa della sua morte per compier bene l’iscrizione e lasciare tutto in perfetto ordine.
Ma data – ecco – data quella concezione di tombe per coniugi senza prole, le epigrafi, necessariamente, per non rompere l’armonia dell’insieme, dovevano rispondersi così.
Assuntosi, com’era suo dovere, il triste incarico di provvedere ai funerali, al trasporto, al seppellimento del suo povero amico Zorzi, il Gàttica-Mei aveva trovato per l’epigrafe di lui una variante, una variante che, perbacconaccio! a pensarci prima… Ma già, avviene sempre così: col tempo, con la riflessione, tutto si perfeziona… Quell’«aspetta in pace lo sposo» dell’epigrafe della moglie gli sembrava adesso troppo freddo, troppo semplice, troppo asciutto, in confronto con Gerolamo Zorzi che, nella nicchia a destra della sua gentilizia, giaceva in attesa che la fida compagna venga a dormirgli accanto
Come sonava meglio! Come riempiva bene l’orecchio!
Non gli pareva l’ora d’arrivare a quella gentilizia per riceverne la lode, che in coscienza credeva di meritarsi, dalla vedova Zorzi.
Ma questa, dopo aver recitato in ginocchio una preghiera e aver deposto il mazzo di fiori a pie della lapide, rialzatosi il lungo velo e letta l’epigrafe, si voltò a guardarlo, pallida, accigliata, severa, ed ebbe un fremito nel mento, dove spiccava nero un grosso porro peloso, animato da un tic, che le si soleva destare nei momenti di più fiera irritazione.
– Mi pare che… che vada bene… no? – osò domandare egli, perplesso, afflitto, intimidito.
– Poi, a casa, – rispose con due scatti secchi la Zorzi. – Non possiamo mica discutere qua, ora.
E riguardò la tomba, e scrollò lievemente il capo, a lungo, e infine si recò a gli occhi il fazzoletto listato di nero. Pianse veramente; si scosse tutta anzi per un impeto violento di singhiozzi a stento soffocati. Allora anche il Gàttica-Mei cavò fuori con due dita da un polsino la pezzuola profumata, poi si tolse con l’altra mano le lenti, e s’asciugò pian pianino, a più riprese, prima un occhio e poi l’altro.
– No! Tu, no! – gli gridò, convulsa, rabbiosamente, la vedova, riavendosi a un tratto dal pianto. – Tu, no!
E si soffiò il naso, rabbiosamente.
– Per… perché? – barbugliò il Gàttica-Mei.
– Poi; a casa, – scattò di nuovo la Zorzi.
Quegli allora si strinse nelle spalle, si provò ad aggiungere:
– Mi pareva… non so…
Guardando ancora una volta l’epigrafe, fermò gli occhi su quel «fida compagna» che… sì, certamente… ma, santo Dio! frase ovvia, consacrata ormai dall’uso… Si diceva «fida compagna», come «vaso capace», «parca mensa»… Non ci aveva proprio fatto caso, ecco. Balbettò:
– Forse… capisco… ma…
– Ho detto, a casa, – ripetè per la terza volta la Zorzi. – Ma, del resto, poiché ci teneva tanto… anche lui, povero Momo, ci teneva, a questo capolavoro qua… faccio notare: due colonnine, due lampade… perché? Una bastava.
– Una? come? eh! – fece il Gàttica-Mei, stupito aprendo le mani, con un sorriso vano.
– La simmetria, è vero? – domandò agra la Zorzi. – Ma, senza figli, senz’altri parenti: finché uno è in piedi, può venire ad accendere all’altro la candela. Chi la accenderà a me, quella, poi? E, di là, a te?
– Già… – riconobbe, un po’ scosso e smarrito, il Gàttica-Mei, portandosi istintivamente le mani alla nuca per rialzarsi dietro gli orecchi le due ali di capelli, con un gesto che gli era solito, ogni qual volta perdeva – ma per poco – la padronanza di sé (veramente, con la Zorzi, gli avveniva piuttosto di frequente). – Però, ecco, – si riprese: – Faccio notare anch’io: allora… e non sia mai, veh: allora tutt’e due le lampade, qua e là, resteranno spente e…
La simmetria era salva. Ma la vedova Zorzi non volle darsi per vinta.
– E con ciò? Una, intanto, quella, resterà sempre lì, nuova, intatta, non accesa mai, inutile. Dunque, se ne poteva fare a meno, e una bastava.
– Lo stesso è da me, – disse il Gàttica-Mei. – E, – aggiunse più a bassa voce e abbassando anche gli occhi, – dovremmo morire tutt’e due insieme, Chiara…
– Tu verresti ad accendermi qua la candela, o io a te di là, è vero? – domandò con più acredine la Zorzi. – Grazie, caro, grazie! Ma questa è la discussione che faremo a casa.
E con un gesto della mano, quasi allontanandolo, lo mandò a deporre il mazzo di fiori su la tomba della moglie.
Ella, col capo inclinato su l’indice della mano destra teso all’angolo della bocca, rimase a mirare in silenzio la lapide del marito, mentre una rosa mezzo sfogliata accanto alla colonnina, tentennando appena sul gambo a un soffio di vento, pareva crollasse il capo amaramente per conto del buon Momolo Zorzi lì sottoterra.
Ma non s’era mica impuntata per la menzogna di quella frase convenzionale, la vedova Zorzi, come il Gàttica-Mei aveva ingenuamente supposto.
Sapeva, sapeva bene, ella, che nei cimiteri le epigrafi non sono fatte per l’onore dei morti, che se lo mangiano i vermi; ma solamente per la vanità dei vivi.
Non già, dunque, per l’inutile offesa al marito morto s’era ella indignata, ma per l’offesa che quell’epigrafe conteneva per lei viva.
Che intenzioni aveva il signor Gàttica-Mei? Con chi credeva d’aver da fare? S’era immaginato, dettando quell’epigrafe, che, lei viva e lui vivo, dovessero restar vincolati, schiavi dello stupido ordine, della stupida simmetria di quei due letti a due, là, fatti per la morte? che la menzogna, la quale… sì, poteva avere un certo valor decorativo per la morte, dovesse ancora sussistere e imporsi da quelle due lapidi alla vita? Ma per chi la prendeva, dunque, il signor avvocato Gàttica-Mei? Supponeva che ella, per queir «aspetta in pace lo sposo» della gentilizia di lui e per quel!’«in attesa che la fida compagna, ecc.» della gentilizia del marito, dovesse graziosamente prestarsi a rimanere ancora la sua comoda amante, per andarsene poi da «fida compagna» a giacere, anzi «a dormire» accanto allo sposo, e lui accanto alla «moglie esemplare»?
Eh, no! eh, no, caro signor avvocato!
Le menzogne inutili stavano bene lì, incise sui morti. Qua, nella vita, no. Qua le utili si era costretti a usare, o a subir le necessarie. E lei, donna onesta, ne aveva (Dio sa con che pena!) subita una per tre anni, vivendo il marito. Ora basta! Perché avrebbe dovuto subirla ancora, questa menzogna, finita la necessità con la morte dello Zorzi? per il vincolo di quelle tombe stupide? vincolo, ch’egli, ponendo subito le mani avanti, con la nuova epigrafe, sera affrettato a ribadire?
Eh, no! eh, no, caro signor avvocato! Menzogna inutile, ormai, quella «fida compagna».
Donna onesta, lei, per necessità aveva potuto ingannare il marito, da vivo; avrebbe voluto il signor avvocato che seguitasse a ingannarlo anche da morto, ora, senza un perché, o per il solo fatto ridicolo, che esistevano là quelle due tombe gemelle? Eh via! Da vivo, va bene, ella non aveva potuto farne a meno; ma da morto, no, non voleva più ingannare il marito. La sua onestà, la sua dignità, il suo decoro non glielo consentivano. Libero il signor avvocato già da tre anni: libera anche lei, adesso; o ciascuno per sé, onestamente; o uniti, onestamente, innanzi alla legge e innanzi all’altare.
La discussione fu lunga e aspra.
L’avvocato Gàttica-Mei confessò in prima candidamente che nulla, proprio nulla di quanto ella aveva sospettato con maligno animo gli era passato per il capo nel dettar quell’epigrafe. Se per poco ella fosse entrata nello spirito di quella sua concezione di tombe per coniugi senza prole, avrebbe compreso che quelle epigrafi là venivano da sé, naturalmente, come conseguenze inevitabili. Ridicola quella concezione? Oh, questo poi no; questo poi no…
– Ridicola, ridicola, ridicola, – raffermò tre volte con focosa stizza la vedova Zorzi. – Ma pensa, lì, quella tua moglie esemplare che ti aspetta in pace… Non mi far dire ciò che non vorrei! So bene io, e tu meglio di me, quel che passasti con lei…
– E che c’entra questo?
– Lasciami dire! Quando mai ti comprese, povera Margherita! Se ti afflisse sempre! E non venivi forse a sfogarti qua, con Momo e con me?
– Sì… ma…
– Lasciami dire! E perché t’amai io? io che, a mia volta, non mi sentivo compresa dal povero Momo? Ah, Dio, nulla più dell’ingiustizia fa ribellare… Ma tu volesti rimaner fedele fino all’ultimo a Margherita, e dettasti quella bell’epigrafe. T’ammirai allora; sì; ti ammirai tanto più, quanto più stimavo tua moglie indegna della tua fedeltà. Poi… sì, è inutile, è inutile parlarne… non seppi dirti di no. Ma non avrei dovuto farlo, io! come non lo facesti tu, finché visse tua moglie. Avrei dovuto aspettare anch’io che Momo morisse. Così, io sola sono venuta meno a’ miei doveri! Anche tu, sì… ma verso l’amico: sposo, fosti fedele! E questo, vedi, ora che tua moglie e mio marito se ne sono andati, e tu sei restato, solo, qua, di fronte a me, questo mi pesa più di tutto. E perciò parlo! Sono una donna onesta, io, come tua moglie; onesta come te, come mio marito! E voglio essere tua moglie, capisci? o niente! Ah, sei fanatico tu della bella concezione? Ma immagina me, ora, stesa lì accanto a mio marito, «fida compagna»… E buffo! atrocemente buffo! Chi sa, e anche chi non sa niente, vedendo lì quelle due gentilizie, – «Oh,» dirà, «ma guardate, ma ammirate qua, che pace tra questi coniugi!» – Sfido, morti! Caricatura, caricatura, caricatura.
E il porro peloso, animato dal tic, rimase a fremerle per più di cinque minuti sul mento, irritatissimo.
Il Gàttica-Mei restò proprio ferito fino all’anima da questa lunga intemerata; ma più dalla derisione. Serio e posato, non poteva ammettere neppure, che si scherzasse con lui o d’una cosa sua; come non aveva potuto ammettere, viva la moglie, il tradimento.
La pretesa della Zorzi di farsi sposare gli guastava tutto. Lasciamo andare quelle due tombe che aspettavano là; ma il nuovo ordinamento della sua vita da vedovo, a cui già da tre anni s’era acconciato così bene! Perché un nuovo rivolgimento, adesso, nella sua vita? Senza ragione, via, proprio senza ragione. Avrebbe capito gli scrupoli, il dolore, il rimorso di lei, finché era vivo il povero Zorzi; ma ora perché? Se ci fosse stato il divorzio, un matrimonio prima, sì, per riparare all’inganno che si faceva a un uomo, a quel furto d’onore, a quei sotterfugi, ch’eran pur tanto saporiti però; ma ora perché? ora che non si ingannava più nessuno, e – liberi entrambi, vedovi, d’una certa età – non dovevano più dar conto a nessuno, se seguitavano quella loro tranquilla relazione? Il decoro? Ma anzi adesso non c’era più nulla di male… Voleva ella riparare così il male passato? Il povero Momolo non c’era più! Di fronte a se stessa? E perché? Qual male da riparare di fronte a se stessa o a lui? E male l’amore? E poi… oh Dio, sì, perché non pensarci? voleva anche perdere l’assegnamento, circa centosessanta lire al mese di pensione lasciatale dal marito? Un vero peccato!
In tutti i modi l’avvocato Gàttica-Mei cercò di dimostrarle ch’era proprio una picca, una stoltezza, un’intestatura deplorevole, una pazzia!
Ma la vedova Zorzi fu irremovibile.
– O moglie, o niente.
Invano, sperando che col tempo quella fissazione le passasse, egli le disse ch’era inutile e anche crudele mostrarsi con lui adesso così dura, poiché la legge prescriveva che prima di nove mesi non si poteva contrarre un nuovo matrimonio; e che, se mai, ne avrebbero riparlato allora.
No, no, e no: – o moglie, o niente.
E tenne duro per otto mesi la vedova Zorzi. Egli, stanco di pregarla ogni giorno, storcendosi le mani, pover’uomo, alla fine si licenziò. Passò una settimana, ne passarono due, tre; passò un mese e più, senza che si facesse rivedere.
E ormai da quattro giorni ella, in grande orgasmo, metteva in deliberazione se cercare di farsi incontrare per istrada, come per caso, o se scrivergli, o se andare senz’altro ad affrontarlo in casa, quando il domestico di lui venne ad annunziarle, che il suo padrone era gravemente ammalato, di polmonite, e che la scongiurava d’una visita.
Ella accorse, straziata dal rimorso per la sua durezza, causa forse di qualche disordine nella vita di lui e, per conseguenza, di quella malattia; accorse funestata dai più neri presentimenti. E difatti lo trovò sprofondato nel letto, rantolante, strozzato, quasi con la morte in bocca: irriconoscibile. Dimenticò ogni riguardo sociale, e gli si pose accanto, notte e giorno, a lottare con la morte, senza un momento di requie.
Al settimo giorno, quand’egli fu dichiarato dai medici fuor di pericolo, la Zorzi, stremata di forze, dopo tante notti perdute, pianse, pianse di gioja, chinando il capo su la sponda del letto; ed egli allora, per primo, carezzandole amorosamente i capelli, le disse che subito, appena rimesso, la avrebbe fatta sua moglie.
Ma, lasciato il letto, dovè prima di tutto imparar di nuovo a camminare, il Gàttica-Mei. Non si reggeva più in piedi. Lui, un tempo così solidamente e rigidamente impostato, ora curvo, tremicchiante, pareva proprio l’ombra di se stesso. E i polmoni… eh, i polmoni… Che tosse! A ogni nuovo accesso, ansimante, soffocato, si picchiava il petto con le mani e diceva a lei, che lo guardava oppressa:
– Andato… andato…
Migliorò un poco durante l’estate. Volle uscir di casa, esporsi un po’ all’aria, prima in carrozza, poi a piedi, sorretto da lei e col bastone. Finalmente, riacquistate alquanto le forze, volle ch’ella s’affrettasse a preparar l’occorrente per le nozze.
– Guarirò, vedrai… Mi sento meglio, molto meglio.
Era rimasta intatta a lui, qua, la casa maritale: solo dalla camera aveva tolto il letto a due, o meglio, aveva staccato e fatto portar via quello de’ due lettini gemelli d’ottone, su cui aveva dormito la moglie. Ma anch’ella, la Zorzi, aveva di là la sua casa maritale in pieno assetto.
Ora, sposando, quale delle due case avrebbero ritenuta? Ella non avrebbe voluto contrariar l’infermo, che conosceva metodico e schiavo delle abitudini; ma proprio non se la sentiva di viver lì, nella casa di lui, da moglie: tutto lì parlava di Margherita; ed ella non poteva aprire un cassetto senza provare uno strano ritegno, una costernazione indefinibile, quasi che tutti gli oggetti custodissero gelosi i ricordi di quella, ond’erano animati. Ma anch’egli, certo si sarebbe sentito estraneo fra gli oggetti della casa di lei. Prendere un’altra casa, una casa nuova, con nuova mobilia, e vendere la vecchia delle due case? Questo sarebbe stato il meglio… E a questo, senza dubbio, ella avrebbe indotto l’amico, se egli fosse stato sano, quello di prima… Adesso bisognava rassegnarsi e contentarlo, mutando il meno possibile. Il letto a due, intanto, quello sì, doveva esser nuovo. Poi, dismessa la casa del primo marito, ella avrebbe fatto trasportar qui i suoi mobili più cari; si sarebbe fatta una scelta tra quelli in migliore stato delle due case, e il superfluo scartato sarebbe stato venduto.
Così fecero: e sposarono.
Come se la cerimonia nuziale fosse di buon augurio, per circa tre mesi, fino a metà dell’autunno, egli stette quasi bene: colorito, forse un po’ troppo, e senza tosse. Ma ricadde coi primi freddi; e allora comprese che era finita per lui.
Lungo tutto l’inverno, che passò miseramente tra il letto e la poltrona, assaporando la morte che gli stava sopra, fu tormentato fino all’ultimo da un pensiero, che gli si presentava come un problema insolubile: il pensiero di quelle due tombe gemelle, nel Pincetto, lassù al Verano.
Dove lo avrebbe fatto seppellire, ora, sua moglie?
E s’impossessò di lui, tra il lento cociore della febbre e le smanie angosciose del male, una stizza sorda e profonda, che di punto in punto si esasperava vieppiù, contro di lei, che aveva voluto a ogni costo quel matrimonio inutile, stolto e sciagurato. Sapeva che stolta per la moglie era stata invece l’idea di costruire quelle due tombe a quel modo; ma egli non voleva riconoscerlo. Del resto, discussione oziosa, questa, adesso, che non avrebbe avuto altro effetto che acuirgli la stizza. La questione era un’altra. Marito di lei, ora, poteva egli andare a giacer lassù accanto alla prima moglie? e domani lei, divenuta moglie d’un altro, accanto al primo marito?
Si tenne finché potè, e all’ultimo glielo volle domandare.
– Ma che vai pensando adesso! – gli gridò ella, senza lasciarlo finire.
– Bisogna invece pensarci a tempo, – brontolò egli, cupo, lanciandole di traverso sguardi odiosi. – Io voglio saperlo, ecco! voglio saperlo!
– Ma sei pazzo? – tornò a gridargli lei. – Tu guarirai, guarirai… Attendi a guarire!
Egli, convulso, si provò a levarsi dal seggiolone:
– Io non arrivo a finire il mese! Come farai? come farai?
– Ma si vedrà poi, Antonio, per carità! per carità! – proruppe ella, e si mise a piangere.
Il Gàttica-Mei, vedendola piangere, si stette zitto per un pezzo; poi riprese a borbottare, guardandosi le unghie livide:
– Poi… sì… lo vedrà lei, poi… Tante spese… tante cure… Tutto per aria… tutto scombinato… Perché poi?… Poteva ogni cosa restar disposta come era… tanto bene…
Alludeva all’epigrafe conservata là nel cassetto della scrivania, all’epigrafe che quattr’anni addietro egli aveva preparata per sé, quella con I’addì (puntini in fila) dell’anno (puntini in fila) raggiunse la sposa.
Nella furia delle disposizioni da dare per i funerali, la trovò difatti, pochi giorni dopo, rimestando in quel cassetto, la moglie due volte vedova.
La lesse, la rilesse, poi la buttò via, sdegnata, pestando un piede.
Là, accanto alla prima moglie? Ah, no, no davvero, no, no e no! Egli era stato adesso suo marito, e lei non poteva affatto tollerare che andasse a giacere a fianco di quell’altra.
Ma dove, allora?
Dove? Lì, nella sepoltura dello Zorzi. Tutti e due insieme, i mariti: l’uno e l’altro per lei sola.
Così «la fida compagna», di cui il buon Momolo Zorzi stava «in attesa» che venisse «a dormirgli accanto», fu l’avvocato Gàttica-Mei. E ancora, nella nicchia dell’altro letto a due, Margherita, la moglie esemplare.
ASPETTA IN PACE LO SPOSO
Ci verrà lei, ci verrà lei, la doppia vedova, qui, invece, il più tardi possibile.
Intanto, lì, le lampade delle colonnine sono accese tutt’e due; e qui, tutt’e due spente.
In questo, almeno, la simmetria era salva e il Gàttica-Mei poteva esserne contento.
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