119. Donna Mimma – Novella

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Prime pubblicazioni: La lettura, gennaio 1917, poi in Un cavallo nella luna, Treves, Milano 1918.
«Perché non le mostra mai donna Mimma, le mani? Già! con le mani non li tocca mai: li bacia, parla con loro, gestisce tanto con gli occhi, con la bocca, con le guance; ma dallo scialle le mani non le cava mai per far loro una carezza. È strano.»

Novella dalla Raccolta “Donna Mimma” (1925)

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Donna Mimma
Vincent Van Gogh, Testa di donna anziana con cuffia (La levatrice), 1885. Immagine dal Web.

Donna Mimma – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Donna Mimma – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Donna Mimma – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Donna Mimma – Audio lettura 4 – Legge
Giuseppe Tizza

1. Donna Mimma – 1917

             I. Donna Mimma parte.

Quando donna Mimma col fazzoletto di seta celeste annodato largo sotto il mento passa per le vie del paesello assolate, si può credere benissimo che la sua personcina linda, ancora dritta e vivace, sebbene modestamente raccolta nel lungo «manto» nero frangiato, non projetti ombra su l’acciottolato di queste viuzze qua, né sul lastricato della piazza grande di là.

             Si può credere benissimo, perché agli occhi di tutti i bimbi e anche dei grandi che, vedendola passare, si sentono pur essi diventare bimbi a un tratto, donna Mimma reca un’aria con sé, per cui subito, sopra e attorno a lei, tutto diventa come finto: di carta il cielo; il sole, una spera di porporina, come la stella del presepio. Tutto il paesello, con quel bel sole d’oro e quel bel cielo azzurro nuovo su le casette vecchie, con quelle sue chiesine dai campaniletti tozzi e le viuzze e la piazza grande con la fontana in mezzo e in fondo la chiesa madre, appena ella vi passa, diventa subito tutt’intorno come un grosso giocattolo di Befana, di quelli che a pezzo a pezzo si cavano dalla scatolona ovale che odora di colla deliziosamente. Ogni dadolino – e ce ne son tanti – è una casa con le sue finestre e la sua veranda, da mettere in fila o in giro per far la strada o la piazza; questo dado qui più grosso è la chiesa con la croce e le campane, e quest’altro la fontana, da metterci attorno questi alberetti che hanno la corona di trucioli verdi verdi e un dischetto sotto, per reggersi in piedi.

             Miracolo di donna Mimma? No. E il mondo in cui donna Mimma vive agli occhi dei piccoli e anche dei grandi ridiventano subito piccoli appena la vedono passare. Piccoli, per forza, perché nessuno può sentirsi grande davanti a donna Mimma. Nessuno.

             Questo mondo ella rappresenta ai bimbi quando si mette a parlare con essi e dice loro come a uno a uno ella sia andata a comperarli lontano lontano.

             – Dove?

             Eh, dove! Lontano, lontano.

             – A Palermo?

             A Palermo, sì, con una bella lettiga bianca, d’avorio, portata da due belli cavalli bianchi, senza sonagli, per vie e vie lunghe, di notte, al buio.

             –    Senza sonagli perché?

             –    Per non far rumore.

             –    E al bujo?

             Sì; ma c’è pure la luna, di notte, le stelle. Ma anche al bujo, sicuro! Si fa pur notte, quando si cammina e cammina a giornate, per tanta via. E poi sempre di notte s’arriva, al ritorno, con quella lettiga, e zitti zitti, che nessuno veda, che nessuno senta.

             – Perché?

             Ma perché il bambinello comperato da poco non può sentire nessun rumore, che si spaventerebbe, e neppure può vedere in principio la luce del sole.

             –    Comperato? Come, comperato?

             –    Coi denari di papà! Tanti tanti.

             –    Flavietta?

             –    Ma sì, Flavietta più di duecent’onze. Più più. Con questi riccioletti d’oro, con questa boccuccia di fragola. Perché papà la volle bionda così, ricciutella così e con questi occhi grandi d’amore che mi guardano, gioja mia, non mi credi? poche duecent’onze, per quest’occhi soli! Vuoi che non lo sappia, se t’ho comperata io? E pure Nini, sì certo. Tutti vi ho comperati io. Nini un pochino di più, perché maschietto. I maschietti, amore mio, costano sempre un pochino di più; lavorano, poi, i maschietti e, lavorando, guadagnano assai, come papà. Ma sapete che pure papà l’ho comperato io? Io, io. Quand’era piccolo piccolo, certo! quando ancora non era niente! Gliel’ho portato io, di notte, con la lettiga bianca alla sua mamma, sant’anima. Da Palermo, sì. Quanto, lui? Uh, migliaja d’onze, migliaja!

             I bimbi la guardano allocchiti. Le guardano quel fazzoletto bello, di seta celeste, sempre nuovo, su i capelli ancora neri, lucidi, spartiti in due bande che, su le tempie, formano due treccioline che passano su gli orecchi, dai cui lobi, stirati dal peso, pendono due massicci orecchini a lagrimoni. Le guardano gli occhi un po’ ovati, dalle palpebre esili, guarnite di lunghissime ciglia; la pallottolina del naso un po’ venata, tra i fori larghi violacei delle nari; il mento un po’ aguzzo, su cui s’arricciano metallici alcuni peluzzi. Ma la vedono come avvolta in un’aria di mistero, questa vecchietta pulita, che tutte le donne chiamano, e anche la loro mamma, la Comare, che quando viene a visita capita sempre che la mamma non sta bene, e pochi giorni dopo, ecco, spunta un altro fratellino o un’altra sorellina, che è stata lei ad andarli a comperare, lontano lontano, a Palermo, con la lettiga. La guardano, le toccano pian piano, coi ditini curiosi, un po’ esitanti, lo scialle, la veste; ed è, sì, una vecchietta pulita, che non pare diversa dalle altre; ma come può andare poi così lontano lontano, con quella lettiga, e come l’ha lei, quest’ufficio nel mondo, di comperare i bambini, e di portarli, i bambini, come la Befana i giocattoli?

             Ma essi, dunque… – che cosa? No, non sanno che pensare; ma sentono in sé, vago, un po’ del mistero che è in quella vecchietta, la quale è qua con loro adesso, qua che la toccano, ma che se ne va poi così lontano a prenderli, i bambini, e dunque anche loro… già… a Palermo, dove? dove lei sa ed essi, piccoli, non sanno; benché certo, là, piccoli piccoli, ci sono stati anche loro, se ella è andata a comperarli là…

             Istintivamente con gli occhi le cercano le mani. Dove sono le mani? Lì, sotto lo scialle. Perché non le mostra mai donna Mimma, le mani? Già! con le mani non li tocca mai: li bacia, parla con loro, gestisce tanto con gli occhi, con la bocca, con le guance; ma dallo scialle le mani non le cava mai per far loro una carezza. È strano. Qualcuno, più ardito, le domanda:

             –    Non le hai, le mani?

             –    Gesù! – esclama allora donna Mimma, volgendo uno sguardo d’intelligenza alla mamma come per dire: «E che è? diavolo, questo bambino?».

             –    Eccole qua! – soggiunge poi subito, mostrando le due manine coi mezzi guanti di filo. – Come non le ho, diavoletto? Gesù, che domande!

             E ride, ride, ricacciandosi le mani sotto e tirandosi con esse lo scialle su su, fin sopra il naso, per nascondere quelle risatine, che, Dio liberi… Oh Signore! le viene di farsi la croce. Ma guarda che cose possono venire in mente a un bambino!

             Pajono fatte, quelle mani, per calcare nello stampo la cera di cui sono formati i Bambini Gesù che in ogni chiesa si portano su l’altare in un canestrino imbottito di raso celeste la notte di Natale. Sente donna Mimma la santità del suo ufficio, quanta religione sia nell’atto della nascita, e agli occhi dei bimbi lo copre con tutti i veli del pudore; e anche parlandone coi grandi non adopera mai una parola, che muova o diradi quei veli; e ne parla con gli occhi bassi e il meno che può. Sa che non è sempre lieto, che spesso anzi è così triste il suo ufficio d’accogliere nella vita tanti esserini che piangono appena vi traggono il primo respiro. Può essere una festa il bimbo ch’ella porta in una casa di signori; anche per il bimbo, sì; benché non sempre neanche lì! Ma portarli – e tanti, tanti – nelle case dei poveri… Gliene piange il cuore. Ma è lei sola a esercitare, da circa trentacinque anni, quest’ufficio nel paesello. O, per dir meglio, era lei sola, fino a jeri.

             Ora è venuta dal continente una smorfiosetta di vent’anni, piemontesa; gonna corta, gialla, giacchetto verde; come un maschiotto, le mani in tasca: sorella ancora nubile d’un impiegato di dogana. Diplomata dalla R. Università di Torino. Roba da farsi la croce a due mani, Signore Iddio, una ragazza ancora senza mondo, mettersi a una simile professione! E bisogna vedere con quale sfacciataggine: per miracolo, quella sua professione, non se la porta scritta in fronte! Una ragazza! una ragazza, che di queste cose… Dio, che vergogna! E dove siamo?

             Donna Mimma non se ne sa dar pace. Volta la faccia, si ripara gli occhi con la mano appena la vede passare sculettando per la piazza, a testa alta, le mani in tasca, la piuma bianca ritta al vento sul cappellino di velluto. E che strepito fanno quei tacchetti insolenti sul lastricato della piazza: – Passo io! passo io!

             Non è donna quella: una diavola è! Non può essere creatura di Dio, quella!

             – Come? la tabella?

             Ah sì? ha fatto appendere la tabella col nome e la professione sul porticino di casa? E si chiama? Elvira… come? signorina Elvira Mosti? Ci sta scritto signorina? E che vuol dire diplomata? Ah, la patente. La vergogna patentata.

             Dio, Dio, si può credere una cosa simile? E chi la chiamerà quella sfacciata? Ma che esperienza poi, che esperienza può aver lei, se ancora… in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. S’hanno da vedere di queste cose ai giorni nostri? in un paesello come il nostro? Vih… vih… vih…

             E donna Mimma scuote in aria le manine coi mezzi guanti di filo come se si vedesse lingueggiar davanti le fiamme dell’inferno.

             – Nossignora, grazie, che caffè, signora mia! acqua, un sorso d’acqua mi faccia portare; sono tutta sconcertata! – dice nelle case delle clienti, da cui di tanto in tanto si reca a visita, o a fare, com’ella dice, «un’affacciata», per sapere… no? niente? Lasciamo fare a Dio, signora mia, ringraziato sia sempre in cielo e in terra!

             Se n’è fatta quasi una fissazione; non perché tema per sé, che le signore le abbiano a fare un torto per quella lì; figurarsi se può temere una tal cosa conoscendo che signore sono, col timore di Dio, con l’educazione del paese e il rispetto delle cose sante! Neanche per sogno…

             – Ma dico, dico, oh Vergine Maria, per la cosa in sé… questo scandalo… una ragazzaccia… Dicono che parla come un carabiniere… che tutte le parolacce le dice chiare, come se fosse una cosa naturale…

             È tanto compresa della mostruosità dello scandalo, che non s’accorge dell’impaccio afflitto con cui la guardano le signore. Pare che abbiano da dirle qualche cosa e non ne trovino il coraggio.

             Oggi, il medico condotto s’è voltato di là, vedendola passare. Non l’ha vista? Ma sì, che l’ha vista! L’ha vista e s’è voltato. Perché?

             Viene a sapere, poco dopo, che quella svergognata lì è andata a trovarlo a casa, col fratello. Certo per raccomandarsi. Chi sa che moine gli avrà fatto, come le sanno fare codeste forestieracce sbandite che nelle grandi città del Continente hanno perduto il santo rossore della faccia; ed ecco che questo rimbambito di medico… Il diploma? E che c’entra il diploma? Ah sì, difatti, per il diploma! Ma via, che non si sanno queste cose? Due smorfiette, due carezzine, e come la paglia pigliano fuoco, gli ominacci; anche i vecchi adesso, senza timor di Dio! Che fa il diploma? che c’entra? Esperienza ci vuole, esperienza.

             –    Eh, ma anche il diploma, donna Mimma, – le risponde sospirando il farmacista, col quale, passando, s’è lagnata del voltafaccia del medico.

             –    E io che ho diploma forse? – esclama allora donna Mimma, sorridendo e giungendo per le punte delle dita le due manine coi mezzi guanti di filo. – E sono già trentacinque anni, trentacinque, che tutti quanti siete qua, e pure voi, don Sarino, vi ho portati io, con la grazia di Dio, figliuoli miei; che n’ho fatti di viaggi a Palermo! Ecco, ecco, guardate qua!

             E donna Mimma si china a prendere tra quelle due manine che quasi non pajono, ma che pure hanno tanta forza, un bel bimbone della strada, che s’è fermato davanti la farmacia, e lo leva alto, nel sole.

             – Anche questo! E quanti ne vedete, tutti io! Sono andata a comperarvi tutti io, a Palermo, senza diploma! A che serve il diploma?

             Il giovane farmacista sorride.

             – Va bene, donna Mimma, sì… voi… l’esperienza, certo… ma…

             E la guarda afflitto e impacciato e neanche lui ha il coraggio di farle intravvedere la minaccia che le pende sul capo.

             Finché dalla Prefettura del capoluogo le arriva una carta con tanto di stemma e di bollo, mezza stampata e mezza scritta a mano, nella quale ella non sa legger bene, ma indovina che si parla del diploma che non ha, e che ai sensi degli articoli tali e tali… E ancora dietro a decifrarla, quella carta, che una guardia la viene a invitare a nome del sindaco.

             – La moglie? Così presto? – domanda donna Mimma, contrariata.

             –   No, al municipio, – risponde la guardia – per una comunicazione. Donna Mimma s’acciglia:

             – A me? per questa carta?

             La guardia si stringe nelle spalle:

             – Io non so; venite e saprete.

             Donna Mimma va; e, al municipio, trova il sindaco, tutto imbarazzato. Anche lui è stato comperato a Palermo da donna Mimma; e anche due figliuoli donna Mimma è andata a comperare per lui a Palermo e presto per un terzo dovrebbe mettersi in viaggio con la lettiga; ma…

             – Ecco qua, donna Mimma! Vedete? Un’altra carta anche a noi, dalla Prefettura. Per voi, sì. E non c’è nulla da fare, purtroppo. Vi s’interdice l’esercizio della professione.

             – A me?

             –    A voi: perché non avete il diploma, cara donna Mimma! La legge.

             –    Ma che legge? – esclama donna Mimma, che non ha più una goccia di sangue nelle vene. – Legge nuova?

             –    Non nuova, no! Ma noi qua, c’eravate voi sola, da tant’anni; vi conoscevamo; vi volevamo bene; avevamo tutta la fiducia in voi, e abbiamo perciò lasciato correre; ma siamo in contravvenzione anche noi, donna Mimma! Queste maledette formalità, capite? Finché c’eravate voi sola… Ma ora è venuta quella là; ha saputo che voi non avete il diploma; e visto che qua non è chiamata da nessuno, capite? ha fatto reclamo alla Prefettura, e voi non potete più esercitare, o dovete andare a Palermo, davvero questa volta! all’Università, per prendere il diploma anche voi, come quella.

             –    Io? a Palermo? alla mia età? a cinquantasei anni? dopo trentacinque anni di professione? mi fanno questo affronto? io, il diploma? Un’intera popolazione… Ma come? c’è bisogno di diploma? di saper leggere e scrivere, per queste cose? Io so leggere appena! E a Palermo, io che non mi sono mai mossa di qua? Io mi ci perdo! Alla mia età? Per quella smorfiosa lì, che la voglio vedere, con tutto il suo diploma… Vuole competere con me? E che hanno da insegnare a me, che li fascio e li sfascio tutti quanti, i meglio professori, dopo trentacinque anni di professione? Debbo andare a Palermo davvero? Come? per due anni?

             Non la finisce più donna Mimma: un torrente di lagrime irose, disperate, tra un precipizio di domande saltanti, balzanti. Il sindaco, dolente, vorrebbe arrestar quell’impeto; un po’ lo lascia sfogare; di nuovo si prova ad arrestarlo; – due anni passano presto; sì, è duro, certo; ma che insegnare! no! pro forma, per avere quel pezzo di carta! per non darla vinta a questa ragazzaccia… – Poi, accompagnandola fino alla soglia dell’uscio, battendole una mano dietro le spalle, come un buon figliuolo, per esortarla a far buon animo, cerca di farla sorridere: via… via… come si smarrirebbe a Palermo, lei, che non passa giorno, ci va tre e quattro volte?

             S’è tirato lo scialle nero sul fazzoletto celeste, donna Mimma: e le sue manine stringono, di sotto, quello scialle nero sul volto, per nascondere le lagrime. Bimbi, quel fazzoletto di seta celeste! – La santa poesia della vostra nascita, ecco, ha preso il lutto: se ne va a Palermo, senza lettiga bianca, a studiar meèutica, e la sepsi e l’antisepsi, l’estremo cefalico, l’estremo pelvi-podalico… Così vuole la legge. Donna Mimma piange; non se ne può consolare: sa leggere appena; si smarrirà tra l’irta scienza di quei dotti professori, là, a Palermo, dove ella tante volte è andata con la poesia della sua lettiga bianca.

             – Signora mia, signora mia…

             Un pianto, un pianto che spezza il cuore, presso ciascuna delle sue clienti, da cui va a licenziarsi, prima di partire. E in ogni casa, si china con le piccole mani tremanti (oh sì, ora le cava fuori senza più ritegno) a carezzar la testina bionda o bruna dei bimbi, e lascia tra quei riccioli, insieme coi baci, cader le lagrime, inconsolabilmente.

             – Vado a Palermo… vado a Palermo.

             E i bimbi, sbigottiti, la guardano, e non comprendono perché pianga tanto, questa volta, per andare a Palermo. Pensano che forse è una sciagura anche per loro, per tutti i bimbi che sono ancora là, da comperare.

             Dicono le mamme:

             – Ma noi v’aspetteremo!

             Donna Mimma le guarda con gli occhi lagrimosi, tentenna il capo. Come può farsi quest’inganno pietoso, lei che sa bene com’è la vita?

             – Signora mia, due anni?

             E se ne parte col cuore spezzato, tirandosi lo scialle nero sul fazzoletto celeste.

*******

             II. Donna Mimma studia.

Palermo. Vi arriva di sera Donna Mimma: piccola, nell’immensa piazza della stazione.

             Oh Gesù, lune? che sono? Venti, trenta attorno. È una piazza? Che grandezza! Ma per dove?

             – Di qua, di qua!

             Fra tutti quei palazzi, incubi d’ombre gigantesche straforate da lumi, accecata da tanto rimescolio sotto, di sbarbagli, e sopra da tanti strisci luminosi, file, collane di lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra il tramestio di gente che le balza di qua, di là, improvvisa, nemica, e il fracasso che da ogni parte la investe, assordante, di vetture che scappano precipitose, non avverte, in quello stupore rotto da continui sgomenti, se non la violenza da cui dentro è tenuta e a cui via via si strappa per cacciarsi a forza in quello scompiglio d’inferno, dopo l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua.

             Gesù, la ferrovia! Montagne, pianure che si movevano, giravano, e scappavano, via con gli alberi, via con le case sparse e i paesi lontani; e di tratto in tratto l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni: lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra; abbagli e accecamenti, vento e soffocazione in quella tempesta di strepiti, nel bujo… Gesù! Gesù!

             – Come dici?

             Non sente nulla, non sa più buttare i piedi, si tiene stretta accosto al nipote che l’accompagna – giovanotto, stendardo della casa – ah! padrone del mondo, lui, che può ridere e andar sicuro, pratico, che c’è stato, lui, due anni militare qua a Palermo.

             – Come dici?

             Sì, certo, la carrozza… Che carrozza? Ah già, sì, la carrozza! Come entrare in città, come camminare per via con quel grosso fagotto di panni sotto il braccio fino alla locanda?

             Guarda il fagotto: c’è lei lì dentro; e tutta vorrebbe esserci, in quella roba sua lì affagottata sotto il braccio del nipote, lei fatta di pezza e solo odore di panni, per non vedere e non sentire più nulla.

             – Dallo a me! Dallo a me!

             Vorrebbe tenercisi stretta a quei panni, per sentircisi meglio dentro; ma l’anima è fuori, qua allo sbaraglio di tante impressioni che la assaltano da tutte le parti. Risponde di sì, di sì, ma non capisce bene i cenni che il nipote le fa.

             O Gesù mio, ma perché domandare a lei? Come una creaturina nelle mani di lui, farà tutto quello che lui vorrà: sì, la carrozza; sì, la locanda, quella che lui vorrà! Per ora è come in un mare in tempesta, e prendere una carrozza è per lei come agguantare una barca; giungere alla locanda, come toccare la riva. Pensa con terrore, quando, di qui a tre giorni, il nipote ritornerà al paese, dopo averle trovato alloggio e pensione, come resterà lei qua in mezzo a questa babilonia, sola, perduta.

             Passando in carrozza diretti alla locanda, il nipote le propone d’andare a veder la fiera in Piazza Marina.

             –    La fiera? Che fiera?

             –    La fiera dei Morti.

             Si fa la croce donna Mimma. Domani, i Morti, già! Arriva la sera del primo novembre, a Palermo, vigilia dei Morti, lei che a Palermo c’è sempre venuta per comperare la vita! I Morti, già… Ma i Morti sono la Befana per i bambini dell’isola: i giocattoli, a loro, non li porta la Vecchia Befana il sei di gennajo: li portano i Morti il due di novembre, che i grandi piangono e i piccoli fanno festa.

             – Gente assai?

             Tanta, tanta, senza fine, che le carrozze non possono passare: tutti i babbi, tutte le mamme, nonne, zie, vanno alla Fiera dei Morti in Piazza Marina a comperare i giocattoli per i loro piccini. Le bambole? sì, le sorelline piccole. I pupi di zucchero? sì, i piccoli fratellini; quelli, quelli che lei, donna Mimma, alla fiera della Vita, nell’illusione dei bimbi del suo paese lontano, tant’anni è venuta a comperare qua a Palermo e a recar loro laggiù, con la lettiga d’avorio: giocattoli, ma veri, con occhi veri, vivi, manine vere, gracili, fredde, paonazze, serrate; e la boccuccia sbavata che piange.

             Sì; ma ora gli occhi di donna Mimma, davanti allo spettacolo tumultuoso di quella fiera sono anche più meravigliati di quelli d’una bimba; e non può pensare donna Mimma che il sogno de’ suoi viaggi misteriosi, quale essa lo rappresentava ai bimbi del suo paese, ora qua, davanti alla fiera, diventa quasi una realtà. Non può pensarlo, non solo perché tra le grida squarciate dei venditori davanti alle baracche illuminate da lampioncini multicolori, tra i sibili dei fischietti, gli scampanellii, i mille rumori della fiera e il pigia pigia della folla che seguita di continuo ad affluire nella piazza, lo stordimento le cresce e insieme la paura della grande città; ma anche perché è lei qui ora la bimba a cui l’incanto è fatto. E poi quell’aria da cui si sentiva avvolta nel suo paesello, aria di favola che la seguiva per le vie e nelle case in cui entrava, che induceva tutti, grandi e piccoli, a rispettarla, perché dal mistero della nascita era lei quella che recava in ogni casa i bimbi nuovi, la vita nuova al vecchio decrepito paesello; qui ora quell’aria non l’ha più attorno. Spogliata crudelmente della sua parte, che cosa è adesso qui, in mezzo alla calca della fiera? una povera vecchietta meschina, stordita. L’han cacciata via dal sogno a infrangersi, a sparire qua in mezzo a questa realtà violenta; e non comprende più nulla, non sa più né muoversi, né parlare, né guardare.

             – Andiamo via… andiamo via…

             Dove? Fuori di qui, fuori di questa calca, facile andar via, con un po’ di pazienza, piano piano; ma poi? Dentro, da ritrovarsi come prima in sé, sicura, tranquilla, questo sarà difficile: ora alla locanda, domani alla scuola.

             Alla scuola, quarantadue diavole, tutte con l’aria sfrontata di giovanotti in gonnella, su per giù come quella ragazzaccia piombata dal Continente nel suo paesello, le si fanno addosso, il primo giorno ch’ella comparisce tra loro col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle nero, frangiato e a pizzo, stretto modestamente attorno alla persona. Uh, ecco la nonna! ecco la vecchia mammana delle favole, piovuta dalla luna, che non osa mostrar le manine e tiene gli occhi bassi per pudore e parla ancora di comprare i bambini! La guardano, la toccano, come se non fosse vera, lì davanti a loro.

             – Donna Mimma? Donna Mimma come? Jèvola? Donna Mimma Jèvola? Quant’anni? Cinquantasei? Eh, picciottella per cominciare! Già mammana da trentacinque anni? E come? Fuori della legge? Come gliel’hanno potuto permettere? Ah, sì, la pratica? Che pratica e pratica! Ci vuol altro! Adesso vedrà!

             E come entra nell’aula il professor Torresi, incaricato dell’insegnamento delle nozioni generali d’Ostetricia teorica, gliela presentano tirandola avanti tra risa e schiamazzi:

             –   La nonna mammana, professore, la nonna mammana!

             Il professor Torresi, calvo, un po’ panciuto, ma un bell’omone dall’aria di corazziere or ora smontato da cavallo, coi baffetti grigi ricciuti e un grosso neo peloso su una guancia (che amore! se lo tira sempre, facendo lezione, quel neo, per non guastarsi i baffi volti studiosamente all’in su), il professor Torresi si è sempre vantato di saper tenere la disciplina e tratta effettivamente quelle quarantadue diavole come puledre da domar col frustino e a colpi di sprone; ma tuttavia, di quando in quando, non può fare a meno di sorridere a qualche loro scappata, o, piuttosto, di concedere qualche risatina in premio all’adorazione di cui si sente circondato. Vorrebbe fare il viso dell’armi a quella presentazione rumorosa; ma poi, vedendosi davanti quella vecchia recluta buffa, vuol pigliarsela anche lui a godere un po’.

             Le domanda come farà, venuta così tardi, a raccapezzarsi nelle sue lezioni. Egli ha già – (su, attente, attente! al posto!)  – egli ha già parlato a lungo – (silenzio, perdio! al posto!)  – ha già parlato a lungo del fenomeno della gestazione, dall’inizio al parto; ha già parlato a lungo della legge della correlazione organica; ora parla dei diametri fetali, nella lezione scorsa ha trattato di quello fronte-occipitale e del biscromiale; tratterà oggi del diametro bisiliaco. Che ne capirà lei? Va bene, la pratica. Ma che cos’è la pratica? Ecco, attente! attente! (e il professor Torresi si tira il neo peloso su la guancia, che amore!): conoscenza implicita, la pratica. E può bastare? No, che non può bastare. La conoscenza, perché basti, bisogna che da implicita divenga esplicita, cioè, venga fuori, venga fuori, così che si possa a parte a parte veder chiara e in ogni parte distinguere, definire, quasi toccar con mano, ma con mano veggente, ecco! O altrimenti, ogni conoscenza non sarà mai sapere. Questione di nomi? di terminologia? No, il nome è la cosa. Il nome è il concetto in noi d’ogni cosa posta fuori di noi. Senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non definita, non distinta.

             Dopo questa spiegazione, che lascia allocchita tutta la scolaresca, il professor Torresi si rivolge a donna Mimma e comincia a interrogarla.

             Donna Mimma lo guarda sbigottita. Crede che parli turco. Costretta a rispondere, provoca in quelle quarantadue diavole così fragorose risate, che il professor Torresi vede in pericolo il suo prestigio di domatore. Grida, pesta sulla cattedra per richiamarle al silenzio, alla disciplina.

             Donna Mimma piange.

             Quando nell’aula si rifa il silenzio, il professore, indignato, fa una strapazzata, come se non avesse riso anche lui; poi si volta a donna Mimma e le grida che è una vergogna presentarsi a scuola in tale stato d’ignoranza, è una vergogna, ora, far lì la ragazzina alla sua età, con quel pianto. Su, su, inutile piangere!

             Donna Mimma ne conviene, dice di sì col capo, si asciuga gli occhi; se ne vorrebbe andare. Il professore la obbliga a rimanere.

             –   Sedete lì! E state a sentire!

             Ma che sentire! Non capisce nulla. Credeva di saper tutto, dopo trentacinque anni di professione e invece s’accorge di non saper nulla, proprio nulla.

             –    A poco a poco, non disperate! – la conforta il professore alla fine della lezione.

             –    Non disperate, a poco a poco, – le ripetono le compagne, ora impietosite dal pianto.

             Ma a mano a mano che quella famosa conoscenza implicita, di cui il professor Torresi ha parlato, le diviene esplicita, donna Mimma – veder più chiaro? altro che veder più chiaro! – non riesce a vedere più nulla.

             Scomposta, sminuzzata, l’idea della cosa, come prima la aveva in sé, intera e compatta, ora le si confonde, smarrita in tanti minimi particolari, ciascuno dei quali ha un nome curioso, difficile, che ella non sa nemmeno pronunziare.

             Come ritenerli a memoria tutti quei nomi? Ci si prova con tanta pazienza, la sera, nella sua misera cameretta d’affitto, sillabando sul manuale, curva davanti al tavolinetto su cui arde un lumino a petrolio

             – Bi-bis-cro-bis-crom-i-a-biscromia-bis-cromiale.

             E riconosce, sì, a poco a poco, a scuola, riconosce con viva sorpresa a uno a uno, dopo molti stenti, tutti quei particolari, e scatta in comiche esclamazioni:

             – Ma questo… Gesù, si chiama così?

             La ragione di distinguerlo, però, di definirlo così, con quel nome, non la vede. Il professore gliela fa vedere; la costringe a vederla; ma allora quel particolare le si stacca ancora più dall’insieme: le s’impone come una cosa che stia a sé; e siccome son tanti e tanti quei particolari, donna Mimma ci si perde; non si raccapezza più.

             E una pietà vederla alle lezioni d’Ostetricia pratica, nella casa di maternità, quando il professore la chiama a una lezione di prova. Tutte le compagne la aspettano lì a quella prova, perché lì ella è adesso nel campo della sua lunga esperienza. Ma sì! Il professore non vuole che ella faccia quello che sa fare, ma che dica quello che non sa dire; e se si tratta di fare e non di dire, non la lascia mica fare a suo modo, come per tant’anni ha fatto, che sempre le è andata bene; ma secondo i precetti e le regole della scienza, come punto per punto egli li ha insegnati; e allora donna Mimma, se si butta a fare, è sgridata perché non osserva appuntino quei precetti e quelle regole; e se invece si trattiene e si sforza di badare a ogni precetto e a ogni regola, ecco, è sgridata perché si smarrisce e si confonde e non riesce più a far nulla a dovere, con sveltezza e precisione sicura.

             Ma non soltanto tutti quei particolari e tutti quei precetti e tutte quelle regole la impacciano così. Un’altra, e più grave, nell’animo di lei, è la cagione di tutto quell’impaccio. Ella soffre come d’una violenza orrenda che le sia fatta là dove più gelosamente è custodito per lei il senso della vita; soffre, soffre da non poterne più, allo spettacolo crudo, aperto di quella funzione che ella per tanti anni ha ritenuto sacra – perché in ogni madre la vergogna e i dolori riscattano innanzi a Dio il peccato originale – soffre e vorrebbe anche lì coprirlo quanto più può, coi veli del pudore, quello spettacolo; e invece no, ecco, via tutti quei veli: il professore glieli butta all’aria e li strappa via brutalmente, quei veli che chiama d’ipocrisia e d’ignoranza; e la maltratta e la beffeggia con sconce parolacce, apposta; e quelle quarantadue diavole attorno, ecco, ridono sguajatamente alle beffe, alle parolacce del professore, senza nessun ritegno, senza nessun rispetto per la povera paziente, per quella povera madre meschina, esposta lì intanto, oggetto di studio e d’esperimento.

             Avvilita, piena d’onta e d’angoscia, si riduce nella sua cameretta, alla fine delle lezioni, e piange e pensa se non le convenga di lasciare la scuola e di ritornarsene al suo paesello. Nel lungo esercizio della professione ha messo da parte un buon gruzzoletto, che le potrà bastare per la vecchiaja; se ne starà tranquilla, in riposo, a guardare soddisfatta attorno a sé tutti i bimbi del paese e i più grandicelli, ragazzette e ragazzetti, e i più grandicelli ancora, giovanette e giovanotti, e i loro papà e le loro mamme, tutti, tutti quelli che lei in tanti anni pur seppe portare alla luce, senza precetti e senza regole, da vecchia mammana delle favole, con la lettiga d’avorio. Ma allora, dovrà darla vinta a quella ragazzaccia che a quest’ora avrà preso certo il suo posto nel paesello, presso ogni famiglia, di prepotenza; restare a guardarla, lì, con le mani in mano? – Ah, no, no! – Qua: vincere l’avvilimento, soffocare l’onta e l’angoscia, per ritornare al paese col suo bravo diploma e gridarlo in faccia a quella sfrontata che le sa anche lei adesso le cose che dicono i professori, che un conto sono i misteri di Dio, e un altro conto, l’opera della natura.

             Se non che, le sue manine esperte…

             Donna Mimma se le rimira pietosamente, attraverso le lagrime.

             Saprebbero più muoversi ora, queste manine, come prima? Sono come legate da tutte quelle nuove nozioni scientifiche. Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?

*******

             III. Donna Mimma ritorna.

– Flavietta? Ma sì, madamina, anche lei. Che s’immagini! A Palermo, come no? con la lettiga d’avorio e i denari di babbo. Quanti? Eh, più di mille lire!

             –    No, onze!

             –    Già, dicevo lire! onze, madamina: più di mille. Cara, che mi corregge! Tò, un bacio le voglio fare, cara! e un altro… cara!

             Chi parla così? Ma guarda! la Piemontesa: quella che due anni fa pareva un maschiotto in gonnella: giacchetta verde, mani in tasca. Ha buttato via giacchetta e cappello, si pettina alla paesana e porta in capo, oh, il fazzoletto di seta celeste, annodato largo sotto il mento, e un bellissimo scialle lungo d’indiana, a pizzo e frangiato. La Piemontesa! E parla di comperare i bambini ora, anche lei, a Palermo, con la lettiga d’avorio e i denari di come? babbo? già, dice babbo lei, perché parla in lingua lei, che s’immagini! e non li dà mica i baci, li fa, e fa furore con codesta sua parlata italiana, vestita così da paesanella: una simpatia!

             –    Più stretto alla vita lo scialle !

             –    Sì, così, così!

             –    E il fazzoletto… no, più tirato avanti, il fazzoletto.

             –    E su da capo, così!

             –    Largo… un po’ più largo, sotto; più aperto… così, brava!

             Ora a terra, modesti, gli occhi per via; e poco male se una guardatina di tanto in tanto scappa di traverso maliziosa, o un sorrisetto scopre su le due guance codeste care fossette. Che zucchero !

             Le signore mamme si sentono chiamar madame ( – Riverisco, madama! – A servirla, madama! –) e sono tutte contente (poverine, con tanto di pancia!). Contente che ormai, a trattare con lei, è proprio come se sapessero parlare in lingua anche loro e le avessero familiari tutte le finezze e le «civiltà» del Continente. Ma sì, perché si sa, via, che in Continente usa così, usa cosà… E poi, che è niente? la soddisfazione di vedersi spiegare tutto, punto per punto, come da un medico, coi termini precisi della scienza che non possono offendere, perché la natura, Dio mio, sarà brutta, ma è così; Dio l’ha fatta così; e meglio saperle come sono, le cose, per regolarsi, guardarsi a un bisogno, e poi anche, alle strette, ma almeno conoscere di che e perché si soffre. Volere di Dio, sì certo; lo dice la Santa Scrittura: «tu donna partorirai con gran dolore», ma si manca forse di rispetto a Dio studiando la sapienza delle sue disposizioni? L’ignoranza di donna Mimma, poveretta, si contentava del volere di Dio e basta. Questa qua, ora, rispetta Dio lo stesso e poi, per giunta, spiega tutto, come Dio l’ha voluta e disposta, la croce della maternità.

             Dal canto loro i bambini, a sentirsi raccontare con ben altra voce e ben altre maniere la favola meravigliosa dei notturni viaggi a Palermo con la lettiga d’avorio e i cavalli bianchi sotto la luna, restano a bocca aperta, perché – raccontata così – è proprio come se fosse loro letta o che la leggessero loro da sé in un bel libro di fiabe, di cui la fata, eccola qua, balzata viva davanti a loro, da poterla toccare: questa fata bella che in lettiga sotto la luna ci va davvero, se davvero porta loro da Palermo le sorelline nuove, i nuovi fratellini. La mirano; quasi la adorano; dicono:

             – No: brutta, donna Mimma! non la vogliamo più!

             Ma il guajo è che non la vogliono più, ora, neppur loro, le donne del popolo, perché donna Mimma con esse, roba di massa, si sbrigava senza tante cerimonie, le trattava come se non avessero diritto di lagnarsi delle doglie, e anche spesso, se s’andava per le lunghe, era capace di lasciarle per correre premurosa a dar pazienza a qualche signora, anch’essa soprapparto; mentre questa qua – oh amore di figlia; tutta bella, bella di faccia e di cuore! – gentile, paziente anche con loro, senza differenza; che se una signora manda subito subito a chiamarla, risponde con garbo ma senza esitare che così subito no, perché ha per le mani una poveretta e non la può lasciare; proprio così! tante volte! E dire poi, una ragazza che non li ha mai provati finora questi dolori che cosa sono, saperli così bene compatire e cercare d’alleviarli in tutte, signore e poverette, allo stesso modo! E via il cappello e via tutte le frasche e le arie di signora con cui era venuta, per acconciarsi come loro, da poveretta, con lo scialle e il fazzoletto in capo, che le sta un amore!

             Invece, donna Mimma… che? col cappello? ma sì, correte, correte a vederla! è arrivata or ora da Palermo, col cappello, con un cappellone grosso così, Madonna santa, che pare una bertuccia, di quelle che ballano sugli organetti alla fiera! Tutta la gente è scasata a vederla; tutti i ragazzi di strada l’hanno accompagnata a casa battendo i cocci, come dietro alla nonna di carnevale.

             – Ma come, il cappello, davvero?

             Il cappello, sì. O che non ha preso il diploma all’Università come la Piemontesa, lei? Dopo due anni di studii… e che studii! I capelli bianchi ci ha fatto, ecco qua, in due anni, che prima di partire per Palermo li aveva ancora neri. Studii, che il signor dottore, adesso, se si vuol provare un poco a competere con lei, glielo farà vedere che non è più il caso di metterla nel sacco con quelle sue parole turchine, perché le sa dire anche lei adesso, e meglio di lui, le parole turchine.

             Il cappello? Ma che stupidaggine di teste piccole di paese! Viene di diritto e di conseguenza il cappello dopo due anni di studii all’Università. Tutte lì, quelle che studiavano con lei, lo portavano; e anche lei, dunque, per forza.

             La professione dell’offre… no, te… trètica, la professione dell’ostrètica, adesso, c’è poca differenza con quella del dottore. Gli stessi studii, quasi. E i dottori non vanno mica col berretto per via! Ma perché sarebbe allora andata a Palermo? perché avrebbe studiato due anni all’Università? perché avrebbe preso il diploma, se non per mettersi in tutto a paro, di studii e di stato, con la Piemontesa diplomata dall’Università di Torino?

             Trasecola donna Mimma, si fa di tutti i colori appena viene a sapere che la Piemontesa, lei, non porta più il cappello, ora, ma lo scialle e il fazzoletto. – Ah sì? se l’è levato? porta il «manto» e il fazzoletto celeste. E che fa? che dice? Ah, che i bambini si comperano a Palermo? Con la lettiga? Ah, traditora! Ah, infame! Ma dunque, per levare il pane a lei? di bocca, a lei, il pane? Assassina! Per entrare in grazia della gente ignorante del paese? Infame! Infame! E la gente… come! si piglia da lei quest’impostura? da lei che prima andava dicendo ch’eran tutte sciocchezze e falsi pudori? Ma allora, se questa spudorata doveva ridursi a far la mammana in paese così, come per trentacinque anni naturalmente l’aveva fatto lei, perché costringerla a partire per Palermo, a studiare due anni all’Università, e prendere il diploma? Solo per aver tempo di rubarle il posto, ecco perché! levarle il pane di bocca, mettendosi a far come lei, vestendosi come lei, dicendo le stesse cose che prima diceva lei! infame! assassina! impostora e traditora! Ah che cosa… ah Dio, che cosa… che cosa…

             Ha tutto il sangue alla testa, donna Mimma; piange di rabbia; si storce le mani, ancora col cappellone in capo; pesta un piede; il cappellone le va di traverso; ed ecco, per la prima volta, le scappa di bocca una parolaccia sconcia: no, non se lo leverà più lei, no, per sfida, ora, questo cappello: qua, qua in capo! se quella se l’è levato, lei se l’è messo e lo terrà! Il diploma ce l’ha; a Palermo c’è stata; s’è ammazzata due anni a studiare: ora si metterà a far lei qua in paese, non più la comaretta, la mammanuccia, ma l’Ostrètica diplomata dalla Regia Università di Palermo.

             Povera donna Mimma, dice ostrètica, così su le furie facendo le volte per la stanzuccia della sua casa, dove tutti gli oggetti par che la guardino sbigottiti perché s’aspettavano d’esser salutati con gioja e carezzati da lei dopo due anni d’assenza. Donna Mimma non ha occhi per loro; dice che vorrà vederla in faccia, quella lì (e giù un’altra parolaccia sconcia), se avrà il coraggio di parlare davanti a lei di lettighe d’avorio e di comperare i bambini; e or ora, senza neppur riposarsi un minuto, si vuol mettere in giro, da tutte le signore del paese, – così, così col cappello in capo, sissignori! – per vedere se anche loro avranno il coraggio, ora ch’ella è ritornata col diploma, di cangiarle la faccia per quella fruscola lì!

             Esce di casa; ma appena per via, subito di nuovo la maraviglia, le risa della gente, i lazzi dei monellacci impertinenti e ingrati, che si sono scordati di chi li ha accolti prima nel mondo, ajutando la mamma a metterli alla luce.

             –   Musi di cane! Cazzarellini! Ah, figli di…

             Le tirano bucce, sassolini sul cappellone, la accompagnano con rumori sguajati, saltarellandole intorno.

             –   Donna Mimma? Oh guarda! – dicono le signore, restando allo spettacolo che si para loro davanti, buffo e compassionevole, perché donna Mimma con quel suo cappellone di traverso e gli occhi ovati rossi di pianto e di rabbia, vuole – così conciata – apparir loro come l’ombra del rimorso, e in quegli occhi ovati rossi di pianto e di rabbia ha un rimprovero per loro pieno di profondo accoramento, quasi che a Palermo a studiare la avessero mandata loro, per forza, e loro la avessero fatta ritornare da Palermo con quel cappellone che, essendo il frutto naturale, quantunque spropositato, di due anni di studio all’Università, rappresenta il tradimento che loro signore le hanno fatto.

             Tradimento sì, tradimento, signore mie, tradimento perché, se volevate la mammana come donna Mimma era prima, una mammana col fazzoletto in capo e lo scialle, che raccontasse ai vostri bimbi la favola della lettiga e dei fratellini comperati a Palermo coi denari di papà, non dovevate permettere che il fazzoletto di seta celeste e lo scialle di donna Mimma e le vecchie favole di lei fossero usurpati da questa sfrontata continentale che prima, venendo dall’Università col cappello anche lei, li aveva derisi in donna Mimma; dovevate dirle: «No, cara: tu hai obbligato donna Mimma a studiare due anni a Palermo, a mettersi là il cappello anche lei per non esser derisa dalle fraschette sfrontate come te, e tu ora qua te lo levi? e ti metti il fazzoletto e lo scialle e ti metti a raccontare la favola della lettiga, per prendere il posto di quella che hai mandato via a studiare? Ma questa è per te un’impostura! per quella, invece, vestire così, parlare così, era naturale! No, cara, tu ora fai a donna Mimma un tradimento, e come l’hai derisa tu, prima, col fazzoletto e lo scialle e la vecchia favola della lettiga, la farai deridere dagli altri, ora, col cappellone e la scienza ostetrica appresa all’Università». Così, signore mie, dovevate dire a codesta Piemontesa. O se davvero vi piace di più, ora, la mammana «civile» che vi sappia spiegar tutto bene, punto per punto, come si fanno e come si possono anche non fare i figliuoli, obbligate allora la Piemontesa a rimettersi il cappello, per non far deridere donna Mimma che come un medico ha studiato e col cappello è ritornata!

             Ma voi vi stringete nelle spalle, signore mie, e fate intendere a donna Mimma che ormai non sapete come comportarvi con l’altra che già vi ha assistito una volta e bene, proprio bene, sì… e che per la prossima assistenzavi trovate già impegnate… e, quanto all’avvenire, per non compromettervi, dite di sperare in Dio che basta, ora, questa croce per voi, d’aver altri figliuoli.

             Donna Mimma piange; vorrebbe consolarsi un poco almeno coi bambini, e per farli accostare si toglie dal capo lo spauracchio di quel cappellaccio nero; ma inutilmente. Non la riconoscono più, i bambini.

             –   Ma come? – dice donna Mimma piangendo. – Tu Flavietta, che mi guardavi prima con codesti occhi d’amore; tu, Nini mio, ma come? non vi ricordate più di me? di donna Mimma? Sono andata io, io a comperarvi a Palermo coi denari di papà; io, con la lettiga d’avorio, figlietti miei, venite qua!

             I bimbi non vogliono accostarsi; restano scontrosi, ostili a guatarla da lontano, a guatarle quel cappellaccio nero su le ginocchia; e donna Mimma, allora, dopo essersi provata a lungo ad asciugarsi il pianto dagli occhi e dalle guance, alla fine, vedendo che non ci riesce e che anzi fa peggio, se lo rimette in capo quel cappellaccio e se ne va.

             Ma non è solo per questo cappellaccio nero, come donna Mimma pensa, che tutto il paesello le si è voltato contro. Se non fosse per la stizza e il dispetto, potrebbe buttarlo via donna Mimma, il cappellaccio; ma la scienza? Ahimè, la scienza che le strappò dal capo il bel fazzoletto di seta celeste e le impose invece codesto cappellaccio nero; la scienza appresa tardi e male; la scienza che le ha tolto la vista e le ha dato gli occhiali; la scienza che le ha imbrogliato tutta l’esperienza di trentacinque anni; la scienza che le è costata due anni di martirio alla sua età; la scienza, no, non potrà più buttarla via, donna Mimma; e questo è il vero male, il male irreparabile! Perché si dà il caso, ora, che una vicina, sposa da appena un anno e già sul punto d’esser mamma, non trova questa sera nelle quattro stanzette della sua casa un punto, un punto solo, dove quietar la smania da cui si sente soffocare; va sul terrazzino, guarda… no, si sente lei guardata stranamente da tutte le stelle che sfavillano in cielo; e se lo sente acuto nelle carni come un formicolio di brividi, tutto questo pungere di stelle; e comincia a gemere e a gridare che non ne può più! Si può aspettare; le dicono che si può aspettare fino a domani; ma lei dice di no, dice che, se dura così, prima che venga domani, lei sarà morta, e allora, poiché l’altra, la Piemontesa, è occupata altrove e ha mandato a dire che proprio gliene duole ma questa notte non può venire; giacché ora sono in due nel paesello a far questo mestiere, via, si può provare a chiamare donna Mimma.

             Eh? che? donna Mimma? e che è donna Mimma? uno straccio per turare i buchi? Lei non vuol fare da «sostituta» a quell’altra là! Ma alla fine s’arrende alle preghiere, si pianta prima pian piano il cappello in capo, e va. Ahimè, è possibile che non colga ora questa occasione donna Mimma per dimostrare che ha studiato due anni all’Università come quell’altra, e che sa fare ora come quell’altra, meglio di quell’altra, con tutte quante le regole della scienza e i precetti dell’igiene? Disgraziata! Le vuol mostrare tutte a una a una queste regole della scienza; tutti a uno a uno li vuole applicare questi precetti dell’igiene; tanto mostrare, tanto applicare, che a un certo punto bisogna mandare a precipizio per l’altra, per la Piemontesa, e anche per il medico ora, se si vuol salvare questa povera mamma e la creaturina, che rischiano di morire impedite, soffocate, strozzate da tutte quelle regole e da tutti quei precetti.

             E ora per donna Mimma è finita davvero. Dopo questa prova, nessuno – ed è giusto – vorrà più saperne di lei. Invelenita contro tutto il paese, col cappellaccio in capo, ogni giorno ella scende in piazza, ora, a fare una scenata davanti la farmacia, dando dell’asino al dottore e della sgualdrinella a quella ladra Piemontesa che è venuta a rubarle il pane. C’è chi dice che s’è data al vino, perché dopo queste scenate, ritornando a casa, donna Mimma piange, piange inconsolabilmente; e questo, come si sa, è un certo effetto che il vino suol fare.

             La Piemontesina, intanto, col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle d’indiana stretto intorno alla svelta personcina, corre da una casa all’altra, con gli occhi a terra, modesti, e lancia di tanto in tanto di traverso una guardatina maliziosa e un sorrisetto che le scopre su le due guance le fossette. Dice con rammarico eh’è un vero peccato che donna Mimma si sia ridotta così, perché dal ritorno di lei in paese ella sperava un sollievo; ma sì, un sollievo, visto che questi benedetti papà siciliani troppi, troppi denari hanno, da spendere in figliuoli, e notte e giorno senza requie la fanno viaggiare in lettiga.

Raccolta Donna Mimma
01 – Donna Mimma – 1917
02 – L’abito nuovo – 1913
03 – Il capretto nero – 1913
04 – Sedile sotto un vecchio cipresso – 1924
05 – Il gatto, un cardellino e le stelle – 1917
06 – La vendetta del cane – 1913
07 – Rondone e Rondinella – 1913
08 – Quando si comprende – 1918
09 – Un cavallo nella luna – 1907
10 – Resti mortali – 1924
11 – Paura d’esser felice – 1911
12 – Visitare gl’infermi – 1896
13 – I pensionati della memoria – 1913

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