1934 – Discorso al convegno «Volta» sul teatro drammatico (Con Audio)

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È vero che la vita o si vive o si scrive e che, quando la si vive, difficilmente nello stesso tempo, cioè in mezzo all’azione e alla passione, ci si può mettere in quelle condizioni che sono proprie dell’arte: partirsi dal momento, superarlo per contemplarlo e dargli senso universale e valore eterno.

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Discorso al convegno Volta

Il Convegno Volta sul teatro drammatico venne organizzato nel 1934 dalla Reale Accademia d’Italia, istituzione di spicco cui il regime fascista affidava il compito di rappresentare dentro e fuori i confini nazionali i meriti artistici e scientifici della rigenerata cultura italiana. Gli organizzatori vollero dimostrare l’importanza e il prestigio del teatro italiano e, in particolare, la sua capacità di reggere il confronto con altre forme di spettacolo come il cinema e lo sport.
Storicamente, il Convegno Volta è il punto d’arrivo e il momento di sviluppo di diverse dinamiche culturali. Da un lato, l’apertura della cultura italiana alla regia europea precede il convegno stesso, mentre, dall’altro, il sistema delle sovvenzioni statali promosso e giustificato dalla riunione romana finisce per promuovere le compagnie di giro e, quindi, un repertorio borghese. Lo studio del convegno può illuminare con molteplici spunti e da diversi punti di vista le conoscenze sul teatro italiano.
Il presente saggio è il primo lavoro monografico sull’argomento; grazie all’ampia documentazione raccolta, tratterà sia i rapporti tra il teatro italiano e i teatri europei, che quelli tra il mondo della cultura e mondo politico.
Pronunciato in occasione della inaugurazione dei lavori del IV Convegno della “Fondazione Alessandro Volta” (tema: «Il teatro drammatico») presieduto da Pirandello (Roma, 8-14 ottobre 1934). Il testo del discorso fu inserito negli Atti del Convegno, pubblicati dalla R. Accademia d’Italia (1935).

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza

Discorso al convegno «Volta» sul teatro drammatico

Roma, 8 ottobre 1934

Eccellenze, Signore, Signori,
Chiamato dalla fiducia dei miei colleghi a presiedere a questo Convegno Volta dedicato al Teatro, ho l’onore di porgervi in nome loro e mio il più deferente e cordiale saluto.
Vivo e grande compiacimento della Reale Accademia d’Italia è vedere, suoi ospiti e ospiti di questa Roma che ebbe come proprio del suo spirito immortale accogliere e fondere in sé ogni espressione di vita, i più insigni cultori del teatro d’ogni nazione: autori e registi, critici e studiosi dei complessi problemi artistici e tecnici della scena di prosa. E dell’avere accettato il nostro invito a collaborare sui temi proposti dal Convegno, e del lavoro accuratissimo che già non pochi tra voi avete apprestato con le vostre relazioni e informazioni, e di quanto ancora direte e proporrete, partecipando alle sedute con la vostra genialità e il vostro intelletto, con la vostra dottrina e la vostra esperienza, vi porgo il più caldo ringraziamento.

Molti, e forse dunque troppi congressi internazionali si fanno per il teatro drammatico; il che dimostra che o è sempre poco quel che si riesce a ottenere con essi, o che c’è sempre bisogno di reciproche intese per provvedimenti da prendere o ajuti da chiedere, per collaborazioni da proporre o rimedii da approntare; e che infine il teatro di prosa si considera un po’ dovunque nelle condizioni d’un malato da assistere e sostenere con continui consulti.

Ma è bene subito aggiungere ché tutti i medici che convengono a questi consulti, convengono per un’affermazione di vita e non di morte, perché tutti son sicuri che l’ammalato non morrà.

     Il Teatro non può morire.
Forma della vita stessa, tutti ne siamo attori; e aboliti o abbandonati i teatri, il teatro seguiterebbe nella vita, insopprimibile; e sarebbe sempre spettacolo la natura stessa delle cose. Parlare di morte del teatro in un tempo come il nostro così pieno di contrasti e dunque così ricco di materia drammatica, tra tanto fermento di passioni e succedersi di casi che sommuovono l’intera vita dei popoli, urto d’eventi e instabilità di situazioni e il bisogno sempre piú da tutti avvertito d’affermare alla fine qualche certezza nuova in mezzo a un così angoscioso ondeggiare di dubbii, è veramente un non senso.

È vero che la vita o si vive o si scrive e che, quando la si vive, difficilmente nello stesso tempo, cioè in mezzo all’azione e alla passione, ci si può mettere in quelle condizioni che sono proprie dell’arte: partirsi dal momento, superarlo per contemplarlo e dargli senso universale e valore eterno. Ma questo, se mai, vuol dire che i drammi della nostra vita, se non il teatro d’oggi, saranno quello di domani. L’arte può sí anticipare la vita, predirla; ma invalorar quella d’oggi, prospettarla sub specie aeternitatis, è raro e assai difficile che possa farlo oggi stesso; le sarà più facile domani. Tutto, certo, può essere materia d’arte, e l’artista riflette, né potrebbe non riflettere, nella sua opera, la vita del suo tempo, in quanto è lui stesso un prodotto della civiltà e della vita morale del suo tempo stesso. Farlo però di proposito, cioè con l’intenzione che sia azione pratica e volontaria del momento, anche per fini nobilissimi ma estranei all’arte, sarà far politica e non arte; e non è detto con ciò che, in dati momenti della vita d’un popolo l’arte non debba diventare anch’essa, come tante volte del resto è avvenuto, strumento d’una nobile azione politica o civile; cioè mancare a se stessa come arte per restare nella storia civile d’un popolo, documento storico se non più monumento artistico. Ma ove questo non si voglia e non si stimi necessario e opportuno, ove fuori d’ogni passione interessata si voglia considerare che l’arte per sua natura può solo prestare ajuto di finzioni e invenzioni, là dove varrebbero incontestabilmente di più documenti veri e proprii, prove di fatto, dimostrazioni eloquenti e persuasive, per cui l’arte, sacrificando e annullando se stessa, verrebbe anche a servire da improprio strumento, si pensi che il mistero d’ogni nascita artistica è il mistero stesso d’ogni nascita naturale; non cosa che si possa apposta fabbricare ma che deve naturalmente nascere, non a caso e tanto meno a capriccio degli scrittori, con libertà senza leggi, come erroneamente suppone chi non sa, ma anzi obbedientissima alle sue inderogabili leggi vitali; sicché, volendosi per se stessa e senz’altri fini che in sé non potrà che esser pura, scevra d’ogni fine interessato; e se tale non è, perciò solo non sarà piú opera d’arte, e come tale dunque condannabile, non solo in nome delle cose offese, ma sopra tutto in nome stesso dell’arte.

     Bisogna tener conto anzi tutto che il nostro Convegno ha un suo carattere particolare, culturale, che lo distingue dai consueti congressi. Si chiama infatti convegno e non congresso: convegno d’eletti studiosi espressamente invitati a trattare un argomento prescelto con animo, sì, appassionato ma di quella passione disinteressata che si porta negli studii. Con quest’animo appunto e senza il minimo intento polemico ho inteso parlare dei rapporti tra politica e arte, cioè in un senso in cui tutti astrattamente possono convenire, per arrivare alla conclusione che, essendo l’arte il regno del sentimento disinteressato, disinteressato ugualmente dovrebbe essere ogni ajuto che si stimasse doveroso e opportuno arrecarle.

Ma io non debbo né voglio in alcun modo con mie particolari considerazioni preoccupare l’animo di quanti sono stati qui chiamati a trattare i temi proposti dal Convegno e a discutere su essi; posso sí formare l’augurio che dalle vostre trattazioni e discussioni usciranno chiare e ben determinate prima di tutto le condizioni presenti del teatro di prosa in confronto con gli altri spettacoli, e non meno chiari e determinati i provvedimenti da prendere per migliorarle. Giacché, se è vero che il teatro non può morire, non è men vero che esso ha bisogno d’esser difeso, o per dir meglio, d’esser messo in grado di difendersi, anche da sé, appunto nella concorrenza con altri spettacoli che, o hanno già validi sostegni, larghi sussidii e dotazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici, come ad esempio il teatro lirico, o hanno il favore del momento, come i ludi sportivi, per cui si fabbricano ovunque nuovi stadii, o sono spettacoli nuovi, che per l’enorme vantaggio della loro riproduzione meccanica e la conseguente facilità della loro presentazione, possono ripetersi anche più volte al giorno in vastissime sale di nuova e appropriata costruzione, o senza bisogno d’apposite costruzioni, mediante un piccolo apparecchio, comodamente possono farsi teatro d’ogni casa privata.

Non più di tempo in tempo, come prima soleva, o per le grandi feste o per le grandi ricorrenze religiose, il popolo è attratto agli spettacoli, ma ormai cotidianamente per una abitudine divenuta bisogno, che è frutto d’incivilimento. Ancor oggi, o nei mesi estivi o di primavera all’aperto, in antichi anfiteatri, o per feste annuali o biennali in questa o in quella città, in piazze o in luoghi predisposti, il popolo è chiamato ad assistere a rappresentazioni straordinarie, magnifiche ma che non risolvono il problema del teatro come col tempo è venuto a imporsi alla considerazione d’ogni Paese che vuol esser civile, problema di civiltà: il teatro chiuso d’ogni sera. Voi vedrete se è possibile che lo risolva il cosí detto teatro di masse, o se questo non sia concepibile altrimenti che nell’altro senso, cioè per ricorrenze festive e spettacoli grandiosi e temporanei, come sono del resto i ludi sportivi che attraggono, sì, grandi masse di spettatori, un pubblico strabocchevole, ma hanno un carattere d’eccezionalità e non sono né potrebbero essere cotidiani.

Il problema di soddisfare questa cotidiana sete di spettacoli, che ormai ha il popolo, è riuscito per ora a risolverlo soltanto il cinematografo. Se si vuole che anche il teatro di prosa lo risolva, nelle condizioni in cui ormai è venuto a trovarsi in confronto con quello, bisognerà studiare se non sia il caso di prendere dapprima almeno quei provvedimenti che già alcune nazioni hanno preso col limitare a uno solo e a ora fissa lo spettacolo serale dei cinematografi. Si verrebbe così a mettere il teatro di prosa in condizioni, non di vantaggio, ma almeno di parità nella concorrenza, e in facoltà del pubblico di scegliere l’uno o l’altro spettacolo, senza il vantaggio per il cinematografo d’avvalersi della riproduzione meccanica dello stesso spettacolo che, almeno fintanto che il cinematografo non trova – com’è nei voti di tutti – una sua propria espressione artistica, è fatto non poche volte a spese del teatro. Ma si dovrebbe poi provvedere alla costruzione dei teatri nuovi, cosí come si costruiscono i nuovi stadii per le gare sportive, giacché ancora al teatro si fa respirare l’aria soffocante delle vecchie sedi non piú confacenti alle nuove esigenze, non solo dell’arte stessa, ma anche e sopra tutto dell’economia e del costume.

In tutte le sue manifestazioni la vita nuova rifugge dalle antiche distinzioni, sia di caste sia di privilegi comunque acquisiti; e si ha perciò l’impressione che i teatri, come furono costruiti nei tempi in cui tali distinzioni erano vive, siano luoghi ormai anacronistici, da cui quasi istintivamente ci s’allontana.
È da augurare che dalle proposte e dalle discussioni di questo Convegno risulti che il provvedimento più efficace e il mezzo anche piú pratico per riaccostare il popolo al teatro sia quello di costruire queste nuove sedi: e forse con ciò sarebbe risolto anche, nello spirito, l’auspicato teatro di masse. Sale appropriatamente architettate, capaci d’accogliere tanto pubblico da pagare largamente le spese dello spettacolo, tenendo il prezzo dei posti pari a quello dei cinematografi, e i posti senz’altra distinzione tra loro che quella inovviabile della maggiore o minore distanza dalla scena; e palcoscenici di nuova attrezzatura e dotati di tutti i nuovi mezzi tecnici perché ogni rappresentazione possa diventare anche spettacolo, più proprio e non meno attraente di quello a cui la cinematografia ha ormai abituato il pubblico.

Gli studiosi della scenotecnica hanno qui un vastissimo campo aperto alle loro proposte e ai loro disegni. Ed è sperabile che sia definita la questione che da tempo si dibatte, se il teatro sia fatto per offrire uno spettacolo in cui l’opera d’arte, la creazione del poeta entri come uno dei tanti elementi in mano e al comando d’un regista, a pari dell’apparato scenico e del giunco delle luci e di quello degli attori, o se invece tutti questi elementi e l’opera unificatrice dello stesso regista, creatore responsabile soltanto dello spettacolo, non debbano essere adoperati a dar vita all’opera d’arte che tutti li comprende e senza la quale ciascuno per se stesso, sera per sera, non avrebbe ragion d’essere: quella vita, intendo, inviolabile perché coerente in ogni punto a se stessa che l’opera d’arte vuole avere per sé e che perciò non dovrebbe essere ad arbitrio del regista alterare né tanto meno manomettere.

L’opera d’arte è quella che resta, anche se nel tempo vive nel momentaneo spettacolo che se ne dà nei teatri. E, tra tutti gli altri spettacoli che possono per un momento entrare nella vita del popolo, il teatro è quello che ne assomma e rispecchia più intimamente i valori morali: il teatro è quello che resta. Dando voce a sentimenti e pensieri, evidentissimi nel vivo giunco delle passioni rappresentate e che, per la natura stessa di questa forma d’arte, debbono esser posti in termini quanto mai chiari e fermi, il teatro propone quasi a vero e proprio giudizio pubblico le azioni umane quali veramente sono, nella realtà schietta e eterna che la fantasia dei poeti crea ad esempio e ammonimento della vita naturale cotidiana e confusa: libero e umano giudizio che efficacemente richiama le coscienze degli stessi giudici a una vita morale sempre più alta e esigente. Tutti i tempi della storia umana ci hanno tramandato un teatro, vivo ora in un popolo ora in un altro, e sempre questo teatro segna un grande momento della vita di questi popoli. Patrimonio sacro e monumentale, a cui tanti Stati, dai piú grandi ai piú piccoli, hanno già sentito il dovere d’apprestare le sedi che possano accoglierlo, non come un museo di statue inerti, ma in cui le opere d’arte più degne possano ancora e sempre aver vita e le nuove che per avventura siano create anch’esse possano vivere fuori di tutte quelle avverse condizioni precarie del momento.

Per la prima volta si avrà in questo Convegno una notizia compiuta e precisa di tutte le provvidenze con cui i varii Stati d’Europa hanno assicurato o cercato d’assicurare le sorti dei loro teatri nazionali. Di non poco giovamento reciproco saranno certo i confronti che i rappresentanti dei varii organismi statali potranno fare sui dati forniti dalle relazioni, e così potrà esser proficua la somma delle altrui esperienze a quei Paesi in cui un teatro di Stato non sia ancora sorto, l’informazione sui programmi e lo studio da farne, le trattative per gli scambi tra i varii teatri nazionali, le aspirazioni a perfezionamenti nella legislazione di essi come s’intravedono da parecchie relazioni.
Anche occupandoci con sereno animo di studiosi nella trattazione dei temi proposti e addentrandoci in questioni tecniche o pratiche, avremo sempre di mira che i nostri lavori serviranno a tener desto il culto e a sostenere le sorti di questa che i Greci considerarono la suprema e più matura espressione dell’arte: il Teatro.

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