Difesa del Mèola – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Sonavano nell’aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 8 agosto 1909. Raccolta Erba del nostro orto, Studio editoriale lombardo, Milano 1915. Ristampa di Facchi, Milano 1915.

Difesa del Mèola audiolibro
Zenone Emilio Giunchi, Suore Al Refettorio

Difesa del Mèola

Voce di Giuseppe Tizza

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             Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare così a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della più nera ingratitudine.

             Il Mèola ha rubato.

             Il Mèola s’è arricchito.

             Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo.

             Sì. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola. Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato alla nostra amatissima Montelusa.

             Io per me non so tollerare in pace che i miei concittadini, riconoscendo da un canto questo bene, seguitino dall’altro a condannare il Mèola e a rendergli se non proprio impossibile, difficilissima la vita nel nostro paese.

             Ragion per cui m’appello al giudizio di quanti sono in Italia liberali equanimi e ben pensanti.

             Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.

             Avvezzi com’eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza dell’Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo per la prima volta scendere dall’alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l’adunco naso.

             I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), si tenevano un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell’orribile impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza.

             E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina s’oscurassero a quell’apparizione ispida, lugubre. Un brulichio sommesso, quasi di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato laggiù da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e vano del cielo.

             Difetto precipuo di noi Montelusani è senza dubbio l’impressionabilità. Le impressioni, a cui andiamo così facilmente soggetti, possono a lungo su le nostre opinioni, su i nostri sentimenti, e c’inducono nell’animo mutamenti sensibilissimi e durevoli.

             Un vescovo a piedi? Da che il Vescovado sedeva lassù come una fortezza in cima al paese, tutti i Montelusani avevan sempre veduto scendere in carrozza i loro vescovi al viale del Paradiso. Ma vescovado, disse Monsignor Partanna fin dal primo giorno, insediandosi, è nome d’opera e non d’onore. E smise la vettura, licenziò cocchieri e lacchè, vendette cavalli e paramenti, inaugurando la più gretta tirchieria.

             Pensammo dapprima:

             «Vorrà fare economia. Ha molti parenti poveri nella sua nativa Pisanello».

             Se non che, venne un giorno da Pisanello a Montelusa uno di questi parenti poveri, un suo fratello appunto, padre di nove figliuoli, a pregarlo in ginocchio a mani giunte, come si pregano i santi, perché gli desse ajuto, tanto almeno da pagare i medici che dovevano operar la moglie moribonda. Non volle dargli nemmeno da pagarsi il ritorno a Pisanello. E lo vedemmo tutti, sentimmo tutti quel che disse il pover’uomo con gli occhi gonfi di lagrime e la voce rotta dai singhiozzi nel Caffè di Pedoca, appena sceso dal Vescovado.

             Ora, la Diocesi di Montelusa – è bene saperlo – è tra le più ricche d’Italia.

             Che voleva fare Monsignor Partanna con le rendite di essa, se negava con tanta durezza un così urgente soccorso a’ suoi di Pisanello?

             Marco Mèola ci svelò il segreto.

             L’ho presente (potrei dipingerlo), quella mattina che ci chiamò tutti, noi liberali di Montelusa, nella piazza innanzi al Caffè Pedoca. Gli tremavano le mani; le ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo costringevano più del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto.

             Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dai Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumento.

             Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna, i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.

             Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi.

             Ed era una sfida a noi Montelusani, che il fervido amore della libertà non avevamo potuto dimostrare altrimenti, che con quella cacciata di frati, giacché, al primo annunzio dell’entrata di Garibaldi a Palermo, s’era squagliata la sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio a Montelusa.

             Quell’unico nostro vanto voleva dunque fiaccare Monsignor Partanna.

             Ci guardammo tutti negli occhi, frementi d’ira e di sdegno. Bisognava a ogni costo impedire che un tal proposito si riducesse a effetto. Ma come impedirlo?

             Parve che da quel giorno il cielo s’incavernasse su Montelusa. La città prese il lutto. Il Vescovado lassù, ove colui covava il reo disegno e di giorno in giorno ne avvicinava l’attuazione, ce lo sentimmo tutti come un macigno sul petto.

             Nessuno, allora, pur sapendo che Marco Mèola era nipote dello Sclepis, segretario del vescovo, dubitava della sua fede liberale. Tutti anzi ammiravano la sua forza d’animo quasi eroica, comprendendo di quanta amarezza dovesse in fondo esser cagione quella fede per lui, allevato e cresciuto come un figliuolo da quello zio prete.

             I miei concittadini di Montelusa mi domandano adesso con aria di scherno: – Ma se veramente gli sapeva di sale il pane dello zio prete, perché non si allibertava lavorando?

             E dimenticano che, per esser scappato, giovinetto, dal seminario, lo Sclepis, che lo voleva a ogni costo prete come lui, lo aveva tolto dagli studii; dimenticano che tutti allora compiangevamo amaramente che per la bizza d’una chierica stizzita si dovesse perdere un ingegno di quella sorte.

             Io ricordo bene che cori d’approvazione e che applausi e quanta ammirazione, allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l’indignazione e la vendetta dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d’un tavolino del Caffè Pedoca, si mise per un’ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e volgari di Alfonso Maria de’ Liguori, segnatamente i Discorsi sacri e morali per tutte le domeniche dell’anno e il libro delle Glorie di Maria.

             Ma noi vogliamo far scontare al Mèola le frodi della nostra illusione, le aberrazioni della nostra deplorabilissima impressionabilità.

             Quando il Mèola, un giorno, con aria truce, levando una mano e ponendosela poi sul petto, ci disse: – «Signori, io prometto e giuro che i liguorini non torneranno a Montelusa!» – voi, Montelusani, voleste per forza immaginare non so che diavolerie: mine, bombe, agguati, assalti notturni al Vescovado e Marco Mèola come Pietro Micca con la miccia in mano pronto a far saltare in aria vescovo e Liguorini.

             Ora questo, con buona pace e sopportazione vostra, vuol dire avere una concezione dell’eroe alquanto grottesca. Con tali mezzi avrebbe potuto mai il Mèola liberar Montelusa dalla calata dei Liguorini? Il vero eroismo consiste nel sapere attemprare i mezzi all’impresa.

             E Marco Mèola seppe.

             Sonavano nell’aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.

             Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e assorti nei nostri pensieri.

             Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.

             – Senti, – mi disse, – queste campane più prossime? Sono della badia di Sant’Anna. Se tu sapessi chi le suona!

             –    Chi le suona?

             –    Tre campane, tre colombelle!

             Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell’aria con cui aveva proferito quelle parole.

             – Tre monache?

             Negò col capo, e mi fé’ cenno d’attendere.

             – Ascolta, – soggiunse piano. – Ora, appena tutt’e tre finiranno di sonare, l’ultima, la campanella più piccola e più argentina, batterà tre tocchi, timidi. Ecco… ascolta bene!

             Difatti, lontano, nel silenzio del cielo, rintoccò tre volte – din din din –quella timida campanella argentina, e parve che il suono di quei tre tintinni si fondesse beato nell’aurea luminosità del crepuscolo.

             – Hai inteso? – mi domandò il Mèola. – Questi tre rintocchi dicono a un felice mortale:«Io penso a te!».

             Tornai a guardarlo. Aveva socchiuso gli occhi, per sospirare, e alzato il mento. Sotto la folta barba crespa gli s’intravedeva il collo taurino, bianco come l’avorio.

             – Marco! – gli gridai, scotendolo per un braccio.

             Egli allora scoppiò a ridere; poi, aggrottando le ciglia, mormorò:

             – Mi sacrifico, amico mio, mi sacrifico! Ma sta’ pur sicuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.

             Non potei strappargli altro di bocca per molto tempo.

             Che relazione poteva esserci tra quei tre rintocchi di campana, che dicevano Io penso a te, e i Liguorini che non dovevano tornare a Montelusa? E a qual sacrifizio s’era votato il Mèola per non farli tornare?

             Sapevo che nella badia di Sant’Anna egli aveva una zia, sorella dello Sclepis e della madre; sapevo che tutte le monache delle cinque badie di Montelusa odiavano anch’esse cordialmente Monsignor Partanna, perché appena insediatosi vescovo, aveva dato per esse tre disposizioni, una più dell’altra crudele:

            1a che non dovessero più né preparare né vendere dolci o rosolii (quei buoni dolci di miele e di pasta reale, infiocchettati e avvolti in fili d’argento! quei buoni rosolii, che sapevano d’anice e di cannella!);

            2a che non dovessero più ricamare (neanche arredi e paramenti sacri), ma far soltanto la calzetta;

             3a che non dovessero più avere, in fine, un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità.

             Che pianti, che angoscia disperata in tutte e cinque le badie di Montelusa, specialmente per quest’ultima disposizione! che maneggi per farla revocare!

             Ma Monsignor Partanna era stato irremovibile. Forse aveva giurato a se stesso di far tutto il contrario di quel che aveva fatto il suo Eccell.mo Predecessore. Largo e cordiale con le monache, Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), si recava a visitarle almeno una volta la settimana, e accettava di gran cuore i loro trattamenti, lodandone la squisitezza, e si intratteneva a lungo con esse in lieti e onesti conversari.

             Monsignor Partanna, invece, non si era mai recato più d’una volta al mese in questa o in quella badia, sempre accompagnato dai due segretarii, arcigno e duro, e non aveva mai voluto accettare, non che una tazza di caffè, neppure un bicchier d’acqua. Quante riprensioni avevano dovuto fare alle monache e alle educande le madri badesse e le vicarie per ridurle all’obbedienza e farle scendere giù nel parlatorio, quando la portinaja per annunziar la visita di Monsignore strappava a lungo la catena del campanello che strillava come un cagnolino a cui qualcuno avesse pestato una piota! Ma se le spaventava tutte con quei segnacci di croce! con quella vociacela borbottante: – Santa, figlia,  – in risposta al saluto che ciascuna gli porgeva, facendosi innanzi alla doppia grata, col viso vermiglio e gli occhi bassi:

             – Vostra Eccellenza benedica!

             Nessun discorso, che non fosse di chiesa. Il giovine segretario don Arturo Filomarino aveva perduto il posto per aver promesso un giorno nel parlatorio di Sant’Anna alle educande e alle monacelle più giovani, che se lo mangiavano con gli occhi dalle grate, una pianticina di fragole da piantare nel giardino della badia.

             Odiava ferocemente le donne, Monsignor Partanna. E la donna, la donna più pericolosa, la donna umile, tenera e fedele, egli scopriva sotto il manto e le bende della monaca. Perciò ogni risposta che dava loro era come un colpo di ferula su le dita. Marco Mèola sapeva, per via dello zio segretario, di quest’odio di Monsignor Partanna per le donne. E quest’odio gli parve troppo e che, come tale, dovesse avere una ragione recondita e particolare nell’animo e nel passato di Monsignore. Si mise a cercare; ma presto troncò le ricerche, all’arrivo misterioso di una nuova educanda alla badia di Sant’Anna, d’una povera gobbetta che non poteva neanche reggere sul collo la grossa testa dai grandi occhi ovati nella macilenza squallida del viso. Questa gobbetta era nipote di Monsignor Partanna; ma una nipote di cui – non sapevano nulla i parenti di Pisanello. E difatti non era arrivata da Pisanello, ma da un altro paese dell’interno, ove alcuni anni addietro il Partanna era stato parroco.

             Lo stesso giorno dell’arrivo di questa nuova educanda alla badia di Sant’Anna, Marco Mèola gridò solennemente in piazza a tutti noi compagni della sua fede liberale:

             – Signori, io prometto e giuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa. E vedemmo, stupiti, subito dopo quel giuramento solenne, cambiar vita a Marco Mèola; lo vedemmo ogni domenica e in tutte le feste del calendario ecclesiastico entrare in chiesa e sentirsi la messa; lo vedemmo a passeggio in compagnia di preti e di vecchi bigotti; lo vedemmo in gran faccende ogni qual volta si preparavano le visite pastorali nella Diocesi, che Monsignor Partanna faceva con la massima vigilanza a’ tempi voluti dai Canoni, non ostante la gran difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni e di veicoli; e lo vedemmo con lo zio far parte del seguito in quelle visite.

             Tuttavia, io non volli – io solo – credere a un tradimento da parte del Mèola. Come rispose egli ai primi nostri rimproveri, alle prime nostre rimostranze? Rispose energicamente:

             – Signori, lasciatemi fare!

             Voi scrollaste le spalle, indignati; diffidaste di lui; credeste e gridaste al voltafaccia. Io seguitai a essergli amico e mi ebbi da lui in quel vespro indimenticabile, quando la timida campanella argentina sonò i tre rintocchi nel cielo luminoso, quella mezza confessione misteriosa.

             Marco Mèola, che non era mai andato più di una volta l’anno a visitare quella sua zia monaca a Sant’Anna, cominciò a visitarla ogni settimana in compagnia della madre. La zia monaca, nella badia di Sant’Anna, era preposta alla sorveglianza delle tre educande. Le tre educande, le tre colombelle, volevano molto bene alla loro maestra; la seguivano per tutto come i pulcini la chioccia; la seguivano anche quand’essa era chiamata in parlatorio per la visita della sorella e del nipote.

             E un giorno si vide il miracolo. Monsignor Partanna, che aveva negato alle monache di quella badia la licenza, che esse avevano sempre avuta, di entrare due volte l’anno in chiesa, la mattina, a porte chiuse, per pararla con le loro mani nelle ricorrenze del Corpus Domini e della Madonna del Lume, tolse il veto, riconcesse la licenza, per le preghiere insistenti delle tre educande e segnatamente della sua nipote, quella povera gobbetta nuova arrivata.

             Veramente, il miracolo si vide dopo: quando venne la festa della Madonna del Lume.

             La sera della vigilia, Marco Mèola si nascose nella chiesa, a tradimento, e dormì nel confessionale del Padre della comunità. All’alba, una vettura era pronta nella piazzetta innanzi alla badia; e quando le tre educande, due belle e vivaci come rondinine in amore, l’altra gobba e asmatica, scesero con la loro maestra a parar l’altare della Madonna del Lume…

             Ecco, voi dite: il Mèola ha rubato; il Mèola s’è arricchito; il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo. Sì. Ma pensate, signori miei, pensate che di quelle tre educande non una delle due belle, ma la terza, la terza, quella misera sbiobbina asmatica e cisposa toccò a Marco Mèola di rapirsi, quand’era invece amato fervidamente anche dalle altre due! quella, proprio quella gobbetta, per impedire che i padri Liguorini tornassero a Montelusa.

             Monsignor Partanna infatti – per costrìngere il Mèola alle nozze con la nipote rapita – dovette convertire in dote a questa nipote il fondo raccolto per il ritorno dei padri Liguorini. Monsignor Partanna è vecchio e non avrà più tempo di rifare quel fondo.

             Che aveva promesso Marco Mèola a noi liberali di Montelusa? Che i Liguorini non sarebbero tornati.

             Ebbene, o signori, e non è certo ormai che i Liguorini non torneranno a Montelusa?

Difesa del Mèola – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
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