1927 – Diana e la Tuda – Tragedia in tre atti

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Il dualismo di vita e forma, tema dominante della più matura drammaturgia pirandelliana, fa addirittura da esplicito protagonista nella suggestiva personalizzazione delle due entità astratte che dominano l’intero dramma rendendo vivente e concreto quel conflitto teorico.

FONTE  Novella «La trappola» in «Corriere della Sera», 22 maggio 1912
STESURA ottobre 1925 – agosto 1926
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 11 gennaio 1927 – Milano, Teatro Eden, Compagnia Pirandello (prima attrice Marta Abba, già rappresentata nel ’26 in prima assoluta a Zurigo).

Approfondimenti nel sito:
Sezione Novelle – La trappola

En Español – Diana y Tuda

Premessa e struttura
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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Diana e la Tuda
Arnoldo Foà e Giada Desideri, Diana e la Tuda, 1999. Immagine dal web.

Premessa

        Rappresentata per la prima volta nel 1926, Diana e la Tuda è un pezzo classico del cosiddetto pirandellismo, cioè di quell’interpretazione che di Pirandello diede Adriano Tilgher, tutta giocata sulla risoluzione dell’opera in una contrapposizione della Vita e della Forma. La Vita che è perenne fluire, la Forma che è fissazione di quel fluire in immagini statiche, fredde.

Ma più che nello schematismo astratto della chiave tilgheriana, oggi il significato dell’opera va cercato altrove. In certa capacità di ritrarre la società romana del tempo – prima di tutto – fra raffinata eleganza, mondana sensualità e velleitarie aspirazioni culturali. E poi in taluni bagliori cupi, lividi in talune illuminazioni improvvise che promanano dall’inconscio e dalla psiche sconvolta di Giuncano, il vecchio scultore, ossessionato dalla forma sino a volerla distruggere come Michelangelo: l’avversione per il proprio padre, e, per l’opposto, il rifiuto della paternità, sino all’agghiacciante scena finale, dove, tra il rinnegamento del padre e quello del giovane e critico Sirio, si consuma il tormento dell’artista di fronte al dramma della  vecchiaia. Ma soprattutto il senso profondo dell’opera è da ricercarsi nel personaggio di Tuda, che vale come simbolo della Giovinezza e della Femminilità, in coerenza a quell’esaltazione della Donna che l’ultimo Pirandello va continuamente riproponendo dai Miti a L’amica delle mogli, da Come tu mi vuoi a Trovarsi.

        E una «tragedia in tre atti». La prima mondiale avvenne allo Schauspielhaus di Zurigo il 20 novembre 1926, in lingua tedesca, col titolo Diana und die Tud. A interpretarla per prima in Italia fu Marta Abba al Teatro Eden di Milano, il 14 gennaio 1927. La stesura ha avuto luogo tra l’ottobre 1925 e l’agosto 1926; la pubblicazione nel 1927 presso Bemporad, Firenze.

Il dualismo di vita e forma, tema dominante della più matura drammaturgia pirandelliana, in Diana e la Tuda, fa addirittura da esplicito protagonista nella suggestiva personalizzazione delle due entità astratte che dominano l’intero dramma rendendo vivente e concreto quel conflitto teorico. La forma è Diana, la grande statua, nella quale il giovane scultore Sirio Dossi intende realizzare con appassionato impegno un’immagine di suprema bellezza, fissata per l’eternità nella sua perfezione, in contrasto col mutevole, difettivo e informe divenire dell’esistenza. La vita è la Tuda, la sua modella, che egli costringe a estenuanti pose per cogliere in lei la fuggevole perfezione da immortalare.

        Egli vive soltanto in funzione di questo grande sogno, che crede realizzabile, mentre il suo vecchio maestro Nono Giuncano vi ha ormai rinunciato: quando s’è accorto d’aver sprecato tutta la vita a dar forma a statue «immobili e perfette», ma prive di vita, riducendosi a essere «logoro e vecchio», è preso da una specie di furia iconoclasta e distrugge l’intera sua opera. Ora ama soltanto la vita. Per lui la perfezione è in Tuda non nell’immobilità di Diana che il suo alunno va ciecamente perseguendo a costo di sacrificare a questa forma astratta e morta la bellezza e la giovinezza di quella creatura viva, sottoponendola a inumane fatiche.

        Sirio arriva all’eccesso di sposare la Tuda, per averla come modella esclusiva, senza mai considerarla moglie. Questo comportamento disumano contribuisce ed graduale logoramento morale e fisico della Tuda che a un certo punto s’avvede d’essere vissuta soltanto per dar forma a quella statua. Tutta la sua vita è ora lì, persino l’espressione del suo sguardo, diventato triste col tempo, segno della sua sofferenza. Ora si rende conto della sua reale condizione: «…Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne io! di carne che mi s’è macerata così! Come faccio ora? come faccio?».

        Anche l’amore di Nono per la vita è disperato: egli s’innamora di una vita destinata a deperire, come è accaduto al suo corpo. Quando la Tuda s’aggrappa a lui ed è anche disposta a dargli il suo amore le dice che la vuole bella e perfetta per se stessa non per lui; egli ha orrore del suo corpo invecchiato, che gli è diventato estraneo, perché sempre più somiglia a quello di suo padre: «Mi sembrerebbe dì contaminare in te, così bella, la vita, con mani non mie».

        Fra il sogno di una perfetta bellezza nell’arte (Sirio) e il sogno di un’assoluta pienezza della vita (Nono), entrambi irrealizzabili, emerge tragica la solitudine della Tuda. Dopo aver invano offerto il suo amore anche al marito, si slancia verso la statua cui ha dedicato la vita intera, quasi nel bisogno di identificarsi totalmente con essa. Sirio crede che voglia distruggerla e minaccia di ucciderla, Nono «come una belva» salta addosso a Sirio, lo ghermisce con una mano alla gola, e lo strangola.

        Non s’è ribellato con violenza al tentativo di sacrificare la vita della Tuda all’immobilità di una forma, che anche quando è perfetta, di per sé imprigiona e uccide la vita. Nella parola «cecità» del vecchio ripetuta più volte «come in una litania» è la condanna di quel tentativo. Rimane come un’eco, un profondo senso di tristezza per la vita deperibile, per la finitudine umana e una grande nostalgia per una perfezione e una purezza irraggiungibili sia nell’arte che nella vita.

Struttura dei tre atti

Atto primo.
Studio dello scultore Sirio Dossi

La scena si svolge nello studio di Sirio Dossi, un giovane scultore, abbastanza ricco, tanto da poter vivere di rendita, che sta lavorando a una statua di Diana in cui vuole esaltare l’immagine della bellezza; posa per lui la modella Tuda che ad un certo punto, stanca, chiede un poco di riposo. Alla scena assiste Nono Giuncano, un vecchio artista che di Sirio è il maestro ed anche, secondo la voce comune, padre. Il dialogo è rapido: Tuda è una modella piena di vitalità e posa anche per altri artisti, ma Sirio è geloso, e lo manifesta soprattutto quando viene a sapere che un mediocre artista, Caravani, istigato da lei, s’è messo in testa di fare anche lui una statua di Diana. Il contrasto tra il vecchio e il giovane s’accende: per il primo “se vivere vuol dire morire ogni momento, mutare ogni momento” mentre la statua non muore e non si muta più, per il secondo la statua è vive nella sua immutabile bellezza da ammirare. Sopraggiungono intanto prima Sara, l’amante di Sirio, e poi Caravani, che vanno via insieme impedendo così che Tuda vada via con Caravani; Sirio le chiede allora di sposarla, solo per finire la statua e per evitare che Tuda faccia da modella anche ad altri artisti. è un matrimonio in bianco.

Atto secondo.
Stessa scena del primo atto. Tuda in abito da sera

Tuda sta provando degli abiti con cappelli e pellicce con una sarta e una modista: gli stessi abiti provati sono disposti in modo da ricoprire le statue presenti nello studio; la scelta è difficile; tutte quelle spese sono una vera pazzia, fatte per punire Sirio per il suo atteggiamento. Arriva Sara, che apre la porta con la sua chiave (è ancora l’amante di Sirio Dossi) e resta sorpresa e un po’ sdegnata davanti a quel buffo spettacolo. È subito sfida fra le due donne, l’una armata del suo diritto d’amante, l’altra del suo diritto di moglie, anche se in bianco; e Tuda vorrebbe vendicarsi dei due amanti e di quello che le fanno soffrire. Arriva anche Giuncano, al quale Tuda si offre, pensando a consumare la sua vendetta contro Sirio, come modella non come moglie chiedendogli di prenderla con sé; ma Giuncano è cosciente della vitalità di Tuda e della sua vecchiaia, della sua esistenza senza vita: “La vita non mi deve riprendere”, esclama, e rivede in sé suo padre, un’immagine che lo perseguita: “Se sapessi che specie di ribrezzo provo, ora che vedo in me mio padre: sì, non so, come se avessero amato lui, non me: lui così – anche allora – quand’ero giovane. – Eh, le sapeva amare, lui, le donne; ne morì disperata mia madre! – Si vede che – questo corpo – quest’aspetto – le donne… Non te lo so dire! So, so ora, che non ero io – e che anche tutte quelle che amai dovettero a un certo punto accorgersene e si allontanarono da me, tutte, perché sotto questo corpo scoprirono me, diverso. – È più, più che ribrezzo; è odio, proprio odio. – Mi sembrerebbe di contaminare in te, così bella, la vita, con mani non mie.” L’atto si chiude con la Tuda che va via col misero pittore Caravani.

Atto terzo.
Stessa scena degli altri due atti

Sara e Giuncano sulla scena. Tuda è scomparsa e Sirio la cerca disperatamente; si rivolge persino a Giuncano, suo presunto padre
Questa, che nel frattempo si è innamorata del marito, intende come lo scultore voglia esprimere nella statua anche un’inquietudine e un tormento della femminilità insoddisfatta e umiliata. Si dispone così a vendicarsi, e lo fa nel modo che può maggiormente offendere il marito: posando nuda – cioè – per quel mediocre pittore. Sirio lo sfida a duello e lo ferisce, dopo aver distrutto il suo quadro. Tuda, infine, in una drammatica scena, si getta verso la statua. Sirio crede voglia distruggerla e la minaccia di morte. Allora Giuncano, per impedire che Sirio risolva la Vita nella Forma, si slancia su di lui e lo strangola.

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Atto Secondo
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