053. Di guardia – Novella

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Prime pubblicazioni: Il Tirso, 1 giugno 1905, poi in La vita nuda, Treves Milano 1910.
«E si fermò ad ammirare un prato, su cui una moltitudine di gambi esili, dritti, stendevano come un tenuissimo velo, tutto punteggiato in alto da certi pennacchietti d’un rosso cupo, bellissimi.»

Novella dalla Raccolta “L’uomo solo” (1922)

««« Introduzione alle novelle

Di guardia
Vincent van Gogh, Ragazza in un bosco, 1882. Immagine dal Web.

Di guardia – Audio lettura 1 – Legge Enrica Giampieretti
Di guardia – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Di guardia – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Di guardia – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

8. Di guardia – 1905 

             –    Tutti? Chi manca? – domandò San Romé, affacciandosi a una delle finestre basse del grazioso villino azzurro, dalle torricelle svelte e i balconi di marmo scolpiti a merletti e a fiorami.

             –    Tutti! tutti! – gli rispose a una voce, dal verde spiazzo ancor bagnato e luccicante di guazza, la comitiva dei villeggianti ravvivati dalla gaja freschezza dell’aria mattutina, essendo venuti su da Sarli a piedi.

             Ma uno strillò:

             –    Manca Pepi !

             –    S’è affogato in Via della Buffa! – aggiunse la generalessa De Robertis, togliendosi dal braccio il seggio a libriccino per mettersi a sedere.

             Tutti risero; anche San Romé dalla finestra, ma più per quel che vide: cioè, la Generalessa, enormemente fiancuta, che presentava il di dietro, china nell’atto d’assicurare i piedi del seggiolino su l’erba dello spiazzo.

             –    E perché manca Pepi?

             –    Mal di capo, – rispose Biagio Casòli. – Sono andato a svegliarlo io stamattina. Teme, dice, che gli prenda la febbre.

             Questa notizia fu commentata malignamente, sotto sotto, dal crocchio delle signorine. Roberto San Romé se n’accorse dalla finestra; vide quella smorfiosa della Tani, tutta cascante di vezzi, ammiccare all’altra viperetta della Bongi, e si morse il labbro.

             Intanto dallo spiazzo la comitiva impaziente gli gridava di far presto. S’eran levati tutti a bujo, giù a Sarli, per fare pian piano la salita fino a Gori; da Gori a Roccia Balda c’erano tre ore buone di cammino, e bisognava andar lesti per arrivarci prima che il sole s’infocasse.

             – Ecco, – disse San Romé, ritirandosi. – Dora sarà pronta. Un momentino.

             E andò al piano di sopra a picchiare all’uscio della camera della cognata, che non s’era ancor fatta vedere.

             La trovò stesa su una sedia a sdrajo, in accappatojo bianco, coi bellissimi capelli biondi disciolti e una. grossa benda bagnata, ravvolta studiatamente intorno al capo, come un turbante.

             Pareva Beatrice Cenci.

             –    Come! – esclamò, restando. – Ancora così? Son tutti giù che t’aspettano!

             –    Mi dispiace, – disse Dora, socchiudendo gli occhi. – Ma io non posso venire.

             –    Come! – ripetè il cognato. – Perché non puoi? Che t’è accaduto? Dora alzò una mano alla testa e sospirò:

             –    Non vedi? Non mi reggo in piedi, dal mal di capo.

             San Romé strinse le pugna, impallidì, con gli occhi gonfi d’ira.

             –    Anche tu? – proruppe. – E temi niente niente che ti prenda la febbre, eh? Ma guarda un po’ che combinazione! Il signor Pepi…

             –    Che c’entra Pepi?… – domandò lei accigliandosi lievemente.

             –    Mal di capo, mal di capo, anche lui. E non è venuto, – rispose San Romé, pigiando su le parole. – Bada, Dora, che giù è stata notata la malattia improvvisa di questo signore, e ti prego di non dar nuova esca alla malignità della gente.

             Dora s’intrecciò sul capo le belle mani inanellate, lasciando scivolar su le braccia le ampie maniche dell’accappatojo; sorrise impercettibilmente, strizzò gli occhi un po’ miopi, e disse:

             –    Non capisco. Non è permesso aver mal di capo in casa vostra?

             –    In casa nostra, – prese a risponderle San Romé, con violenza; ma si contenne; cangiò tono: – Su, Dora, ti prego, levati e smetti codesta commedia. Ho incomodato per te una ventina di signore e signori, e t’avverto che gonfio da un pezzo in silenzio e voglio che tu la finisca.

             Ma Dora scoppiò in una risata interminabile. Poi si levò in piedi, gli s’accostò, reggendosi con una mano la benda su la fronte, e gli disse:

             – Ma sai che mio marito stesso non si permetterebbe codesto tono con me? T’ha lasciato detto ch’io ti debbo proprio ubbidienza intera? Caro mio tutore, caro mio custode, caro mio signor carabiniere, ho mal di capo veramente, e basta così.

             Si ritirò nella camera attigua, sbattendo l’uscio, ci mise il paletto, e gli mandò di là un’altra bella risata.

             Roberto San Romé fece istintivamente un passo, quasi per trattenerla, e rimase tutto vibrante innanzi all’uscio chiuso, con le mani alle guance, come se lei con quel riso gliel’avesse sferzato.

             Fu così viva questa impressione e gli fece tale impeto dentro, ch’egli sentì a un tratto quanto fosse ridicola la parte che rappresentava da circa tre mesi, da quando cioè suo fratello Cesare era venuto a lasciar la moglie a Gori, presso la madre da un anno inferma e relegata a letto.

             Aveva fatto di tutto per renderle piacevole il soggiorno in quel borgo alpestre; la aveva condotta quasi ogni mattina giù a Sarli, dov’eran più numerosi i villeggianti; aveva concertato feste, escursioni, scampagnate. Dapprima, la cognatina elegante e capricciosa s’era annojata e gliel’aveva dimostrato in tutti i modi: aveva scritto cinque, sei, sette volte al marito, ch’ella di Gori ne aveva già fin sopra gli occhi e che venisse subito subito a prenderla; ma, poiché Cesare su questo punto non s’era nemmeno curato di risponderle e, con la scusa di certi affari da sbrigare, se la spassava liberamente a Milano; per dispetto, là, s’era attaccata a quel signor Pepi che le faceva una corte scandalosa.

             Ed era cominciato allora il supplizio di San Romé. Si poteva dare ufficio più ridicolo del suo? far la guardia alla cognata che, nel vederlo così vigile e sospettoso e costretto a usar prudenza, pareva glielo facesse apposta? Più d’una volta, non potendone più, era stato sul punto di piantarlesi di faccia e di gridarle: «Bada, Dora, son tomo da rompergli il grugno io, a quel tuo spasimante! E se non ne sei persuasa, te ne faccio subito la prova».

             Ma più le mostrava stizza, e più lei gli sorrideva sfacciatamente. Oh, certi sorrisi, certi sorrisi che tagliavano più d’un rasojo e gli dicevano chiaro e tondo quanto fossero buffe quelle sue premure, quella sua mutria, quella sua sorveglianza.

             Col tatto, col garbo, egli si lusingava d’esser riuscito finora a impedire che lo scandalo andasse tropp’oltre e diventasse irreparabile. Ma, dato il caratterino della cognata, non era ben sicuro di non aver fatto peggio, qualche volta, con quella assidua e mal dissimulata vigilanza, di non aver cioè provocato qualche imprudenza troppo avventata. Aveva voluto farle comprendere subito che s’era accorto di tutto e che avvertiva a ogni parola, a ogni sguardo, a ogni mossa di lei, quando Pepi era là e anche quando non c’era. Lei si era allora armata di quel suo riso dispettoso, quasi accettando la sfida ch’era negli sguardi cupi e fermi di lui. Non voleva riconoscergli alcuna autorità su lei. Ed era uscita, per esempio, sola per tempissimo dal villino, costringendolo a correre come un bracco, a scovarla nel bosco dei castagni, a mezza via tra Sarli e Gori. Sola – sì – l’aveva trovata sola, sempre: ma poi, più d’una volta, gli era parso di scorgere attraverso le stecche delle persiane Pepi là a Gori, di notte, presso il villino, Pepi che villeggiava a Sarli.

             Forse, fino a quel giorno, non era accaduto nulla di grave. Ma ora? Ecco qua: ad onta di tutte le sue diligenze, si vedeva come preso al laccio. Era evidente, evidentissima un’intesa tra i due, tra il Pepi e Dora. E lui non poteva trarsi indietro: l’aveva proposta lui quella gita a Roccia Balda; aveva mandato già avanti la colazione per tutti lassù. Quei signori sarebbero potuti andare più agevolmente e più presto da Sarli, ed eran venuti su a Gori apposta per prender Dora e lui. Non poteva dunque, in nessun modo, con nessuna scusa, rimandarli indietro: doveva andar con loro senza meno. E certamente in quel giorno… ah povero Cesare!

             Come annunziare intanto che anche Dora, come Pepi giù a Sarli, aveva il mal di capo?

             San Romé scese allo spiazzo per un ultimo tentativo: pregare le signore che inducessero loro la cognata a venire.

             Lo affollarono di domande: – Perché? – Che ha? – Si sente male? Oh guarda!

             – Oh poverina! – Ma come? – Da quando? – Che si sente?

             Lui si guardò bene dal dichiarare il male che accusava la cognata; ma lo dichiarò lei, Dora, poco dopo là – come se nulla fosse – a quelle signore, e volle anche aggiungere, calcando su la voce: – Temo finanche che mi prenda la febbre.

             Roberto San Romé ebbe la tentazione di tirarle una spinta da mandarla a schizzar fuori della finestra. Ah, quanto gli avrebbe fatto bene al cuore, per votarselo di tutta la bile accumulata in quei tre mesi.

             – Febbre? No, cara, – s’affrettò a dirle la Generalessa, proprio come se credesse al mal di capo. – Faccia sentire il polso… Agitatino, agitatine. Riposo, cara. Sarà un po’ di flussione.

             E chi le consigliò questo e chi quel rimedio e che si prendesse cura a ogni modo di quel male, che non avesse a diventar più grave, povera Dora, povera cara…

             Sentì finirsi lo stomaco San Romé ascoltando gli amorevoli consigli di tutte quelle ipocrite, nelle quali aveva sperato ajuto e che invece: – Ma sì, pallidina!

             – Ma sì, le si vede dagli occhi! – Ma certo, un po’ di riposo le farà bene! – Quanto ci duole! – Quanto ci dispiace! – Roccia Balda è lontana: non potrebbe far tanto cammino…

             Baci, saluti, altre raccomandazioni e, per non far troppo tardi e perché la colazione era già partita per Roccia Balda, finalmente s’avviarono dolentissime di lasciarla, portandosi quel bravo, quel gentile San Romé che aveva avuto la felicissima idea di una gita così piacevole.

             Né si fermarono lì. Attraversando, tra i prati cinti di altissimi pioppi, i primi ceppi di case, frazioni di Gori, tutte sonore d’acque correnti giù per borri e per zane, e vedendo San Romé pallido e taciturno, vollero esortarlo a gara a non apprensionirsi tanto, perché, via, in fin de’ conti era una lieve indisposizione che sarebbe presto passata. E il pover uomo dovette allora sorridere e assicurar quelle buone signore, quelle care signorine che lui non era punto in pensiero per il male della cognata e ch’era anzi lieto, lietissimo di trovarsi in così bella compagnia per tutta la giornata.

             Oh, il cielo era splendido e non c’era davvero pericolo che si rovesciasse uno di quegli acquazzoni improvvisi, così frequenti in montagna, a interromper la gita; né c’era alcuna probabilità di liberarsi prima di sera, con quel bravo signor Bortolo Raspi di Sarli, che pesava a dir poco un quintale e mezzo e a piedi era voluto venire, a piedi anche lui, vantandosi d’essere un gran camminatore, lui, e già cominciava a soffiare come un biacco e a far eco alla Generalessa, che s’era portato intanto il seggio a libriccino e dichiarava d’aver bisogno di sostare di tratto in tratto, lei, per non affaticarsi troppo il cuore. Stancare no, non si stancava la Generalessa; ma certo quanto più si va in là, eh? più si va piano. Lo sapeva bene il signor Generale suo marito, rimasto a Sarli, che non andava più neanche piano, da sette anni ormai in riposo assoluto.

             – Nandino! Nandino! Non ti precipitare al tuo solito, figliuolo mio. T’accaldi troppo! San Romé, prego, San Romé, venga qua: così andranno un po’ più piano quelle benedette ragazze.

             E, per tenerlo con sé, gli volle narrare la sua storia, la Generalessa, come l’aveva narrata a tutti i villeggianti giù a Sarli: gli volle dare in quel momento la consolazione di sapere che suo papà aveva una bella posizione, perché guadagnava bene, suo papà; e che lei era anche marchesa, sicuro! ma che non ci teneva affatto: marchesa, perché suo papà, a diciott’anni, quand’era ancora «un tocco di ragazza da chiudere a doppia mandata in guardaroba» l’aveva dapprima sposata a un marchese, che però glien’aveva fatte vedere d’ogni colore; oh, le era toccato finanche a servirlo otto anni con la spinite. Rimasta vedova, bella (non lo diceva per vanità), aveva conosciuto il Generale, perché lei «teneva radunanze»: lui era un bel soldato: s’erano innamorati l’uno dell’altra; e, si sa, era finita come doveva finire. Nato Nandino, lei aveva saputo far le cose per bene: aveva dato il bambino a balia e aveva sposato.

             –    Bisogna sempre saper fare le cose per bene, caro mio!

             –    Eh già, – sorrideva San Romé, che si sentiva struggere dalla brama di mordere e avrebbe voluto risponderle che sapeva quel che le male lingue dicevano, che ella cioè era stata cameriera di quel marchese, prima, del Generale poi.

             Ma non pareva affatto, povera Generalessa! almeno fino a una cert’ora del giorno. Non ostante la pinguedine, lei di mattina era sempre poetica; poi, è vero, cascava a parlar di cucina, ma perché le era sempre piaciuto, diceva, attendere alle cure casalinghe; e insegnava volentieri alle amiche qualche buon manicaretto. Al Generale faceva lei da mangiare: sì, perché bocca schifa quel benedett’uomo! mai e poi mai avrebbe assaggiato un cibo apparecchiato da altre mani.

             – Oh bello! oh bello!

             E si fermò ad ammirare un prato, su cui una moltitudine di gambi esili, dritti, stendevano come un tenuissimo velo, tutto punteggiato in alto da certi pennacchietti d’un rosso cupo, bellissimi. Come si chiamava, quella pianta graziosa?

             – Oh, cattiva! – grugnì il signor Raspi. – Le bestie non ne mangiano. Qui la chiamano friijosa o scaletta. Non serve a nulla, sa?

             Che sguardo rivolse la Generalessa a quel savio uomo che dal tondo faccione, dagli occhietti porcini spirava la beatitudine della più impenetrabile balordaggine. Non comprendeva che, in certe ore poetiche, conveniva anche ammirare le cose che non servono a nulla.

             –    San Romé, non perché tema di stancarmi, ma, dico, per calcolar l’ora che si potrà fare, che via c’è ancora fino a Roccia Balda?

             –    Uh, tanta, signora mia! C’è tempo! – sbuffò San Romé. – Da dieci a dodici chilometri. Ora però entreremo nel bosco.

             –    Oh bello! oh bello! – ripetè la Generalessa.

             San Romé non potè più reggere e la lasciò col Raspi. Di là, quelle pettegoline, la Bongi, la Tani, tenendosi per la vita, avevano attaccato un discorsetto fitto fitto, interrotto da brevi risatine, e di tanto in tanto si voltavano indietro a spiare se mai egli stesse in orecchi.

             Su l’ultimo prato in declivio stavano a guardia d’alcuni giovenchi due brutte vecchie rugose e rinsecchite, intente a filar la lana all’ombra dei primi castagni del bosco.

             –   E la terza Parca dov’è? – domandò loro forte, seriamente, Biagio Casòli. Quelle risposero che non lo sapevano, e allora il Casoli si mise a declamare:

             De’ bei giovenchi dal quadrato petto, erte sul capo le lunate corna, dolci negli occhi, nivei, che il mite Virgilio amava.

             Il signor Raspi, da lontano, si mise a ridere in una sua special maniera, come se frignasse, e domandò al Casòli:

             –    Che amava Virgilio? Le corna?

             –    Giusto le corna! – disse la Generalessa. E tutti scoppiarono a ridere.

             Lui, San Romé, le aveva già avvistate da lontano, quelle corna, e gli pareva assai che gli amici non ne profittassero per qualche poetica allusione.

             Entrarono nel bosco. Ora avrebbero potuto distrarsi, tutti quei cari signori, ammirando, come faceva la Generalessa quasi per obbligo e il signor Raspi, per fare una piccola sosta e riprender fiato, qua una cascatella spumosa, là un botro scosceso e cupo all’ombra di bassi ontani, più là un ciottolo nel rivo, vestito d’alga, su cui l’acqua si frangeva come se fosse di vetro, suscitando una ridda minuta di scagliette vive; ma, nossignori! nessuno sentiva quella deliziosa cruda frescura d’ombra insaporata d’acute fragranze, quel silenzio tutto pieno di fremiti, di fritinii di grilli, di risi di rivoli.

             Pur chiacchierando tra loro, facevan tutti, come San Romé che se ne stava in silenzio e diventava a mano a mano più fosco e più nervoso, un certo calcolo approssimativo. Dalla via che avevano percorsa, argomentavano a qual punto del viale che va da Sarli a Gori poteva esser giunto a quell’ora il Pepi. Senza dubbio, Dora gli sarebbe andata incontro pian piano, venendo giù da Gori. Poi certo, avvistandosi da lontano, avrebbero lasciato il viale, lei di sopra, lui di sotto, e sarebbero scesi nella valle boscosa del Sarnio per ritrovarsi, senza mal di capo, laggiù, ben protetti dagli alberi.

             Tutte queste supposizioni si dipingevano così vive alla mente di San Romé, che gli pareva proprio di vederli, quei due, muovere al convegno, ridersi di lui, prima fra sé e sé, poi tutt’e due insieme; e apriva e chiudeva le mani, affondandosi le unghie nelle palme; quindi, notando che quegli altri si accorgevano del suo irrequieto malumore e che tuttavia, ora, non gli dicevano più nulla, come se paresse loro naturalissimo, si riaccostava ad essi, si sforzava a parlare, scacciando l’immagine viva, scolpita, di quel tradimento che gli pareva fatto a lui più che al fratello ignaro e lontano. Ma, poco dopo, all’improvviso, non potendo interessarsi di quelle vuote chiacchiere, era riassalito da quell’immagine e si sentiva schernito da quella gente, la quale, sapendo benissimo qual supplizio fosse per lui quella gita, ecco, gli sorrideva per dimostrarglisi grata del piacere ch’egli aveva loro procurato, e gli domandava certe cose, certe cose… Ecco qua: la Tani, per esempio, a un certo punto, se credeva che quell’albero là fosse stato colpito dal fulmine. Perché? Perché pareva che facesse le corna, quel ceppo biforcuto… No? E perché dunque più tardi, cioè quando finalmente arrivarono a Roccia Balda e tutti, dall’alto, si misero ad ammirare la vista maravigliosa della Valsarnia, perché la Generalessa volle saper da lui, come si chiamassero quei due picchi cinerei, di là dall’ampia vallata? Ma per fargli vedere che gli facevano le corna, là da lontano, anche i due picchi di Monte Merlo! No? E perché dunque, dopo colazione, quel bravo signor Bortolo Raspi cavò di tasca il fazzoletto, vi fece quattro nodini a gli angoli e se lo pose sul testone sudato? Ma per mostrargli anche lui due bei cornetti su la fronte…

             Corna, corna, non vide altro che corna, da per tutto, San Romé quel giorno. Le toccò poi quasi con mano, quando, sul tardi, avendo accompagnato la comitiva fino a Sarli per la via più corta, e risalendosene solo per il viale a Gori, a un certo punto, giù nella valle, tra i castagni, intravide Pepi, seduto e assorto senza dubbio nel ricordo della gioja recente.

             Si fermò, pallido, fremente, coi denti serrati, serrate le pugna, perplesso, come tenuto tra due: tra la prudenza e la brama impetuosa di lasciarsi andar giù a precipizio, piombare addosso a quell’imbecille, farne strazio e vendicarsi così della tortura di tutta quella giornata. Ma, in quel punto, gli arrivò dalla svolta del viale una vocetta limpida e fervida che canticchiava un’arietta a lui ben nota. Si voltò di scatto, e si vide venire incontro la cognata col capo appoggiato languidamente alla spalla d’un uomo che la teneva per la vita.

             Roberto San Romé sentì stroncarsi le gambe.

             – Cesare! – gridò, trasecolando.

             Il fratello, che stava a guardare in estasi le prime stelle nel cielo crepuscolare, mentre la mogliettina tutta languida cantava, sussultò al grido e gli s’avvicinò

             con Dora, la quale, vedendolo, scoppiò in una di quelle sue interminabili risate.

             –    Tu qua? – fece San Romé. – E quando sei arrivato?

             –    Ma stamattina alle nove, perbacco! – gli rispose il fratello. – Non hai visto jersera il mio telegramma?

             –    Non l’ha visto, non l’ha visto – disse Dora, guardando il cognato con gli occhi sfavillanti. – Era già a Sarli per concertar la gita a Roccia Balda, e io non ho voluto dirgli nulla per non guastargli il divertimento che pareva gli stesse tanto a cuore. Mi dispiace solamente, – aggiunse, – che l’ho tenuto forse in pensiero a causa… a causa d’un certo mal di capo che ho dovuto simulare per sottrarmi alla gita. Passato, sai, caro? passato del tutto.

             Prese anche il braccio del cognato, per risalire pian piano a Gori, e col tono di voce più carezzevole gli domandò:

             – E di’, Roberto, ti sei divertito?

Raccolta L’uomo solo
01 – L’uomo solo – 1911
02 – La cassa riposta – 1907
03 – Il treno ha fischiato… – 1914
04 – Zia Michelina – 1914
05 – Il professor Terremoto – 1910
06 – La veste lunga – 1913
07 – I nostri ricordi – 1912
08 – Di guardia – 1905
09 – Dono della Vergine Maria – 1899
10 – La verità – 1912
11 – Volare – 1907
12 – Il coppo – 1912
13 – La trappola – 1912
14 – Notizie del mondo – 1901
15 – La tragedia d’un personaggio – 1911

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